Lo scorso febbraio è nata l’associazione Citizien Science Italia, che ha l’obiettivo di sostenere la diffusione e lo sviluppo della citizen science nel nostro paese. Da noi questo modo di fare scienza era quasi sconosciuto una decina di anni fa, ma lentamente ha preso piede e si è formata una comunità specializzata di ricercatori, prima a livello informale e poi sempre più strutturato. Per capire bene come si è arrivati fin qui, è utile fare un passo indietro.
Charles Darwin e la citizen science: breve storia della scienza partecipata
Il termine citizen science è stato usato per la prima volta nel 1989, e letteralmente lo potremmo tradurre con «scienza fatta dai cittadini». Apparentemente sembrerebbe un controsenso. La scienza è fatta (appunto) dagli scienziati, che dopo anni di studi hanno accumulato conoscenze e capacità per produrre nuove conoscenze attraverso la pratica della ricerca scientifica. Gli scienziati sono dei professionisti: lavorano nelle università, nei centri di ricerca e nelle aziende private, e comunicano i loro risultati alla comunità di riferimento attraverso le pubblicazioni scientifiche.
Non ci aspettiamo che uno scienziato sappia riparare un’automobile o recitare in un film, e allo stesso tempo non pretendiamo che qualunque cittadino o cittadina si metta a scrivere dei paper. Eppure nella storia della scienza ci sono casi in cui il contributo dei non-professionisti è stato determinante. Charles Darwin, per esempio, era a propria volta uno scienziato “anomalo”. Si guadagnò la sua reputazione con ricerche di altissimo livello, ma è solo grazie alla ricchezza della sua famiglia che poté dedicarsi a tempo pieno alla scienza. Detto più chiaramente, Darwin non era retribuito per fare scienza, ma la sua dedizione era totale. Era affamato di informazioni e campioni di prima mano sul mondo naturale, e - come dimostra la sua immensa corrispondenza - molto spesso li otteneva da allevatori, naturalisti dilettanti, vivaisti, viaggiatori. Erano i suoi occhi e le sue orecchie, ma erano anche persone con un interesse comune con cui collaborare.
Non è un esempio isolato. Nel 1715 l’astronomo Edmund Halley, quello della cometa, calcolò il percorso dell’eclissi del 3 maggio in Inghilterra. Fece pubblicare un volantino con la mappa dell’eclissi e un breve testo. Scriveva di non spaventarsi per il fenomeno, e poi descriveva il percorso della cometa. Infine invitava i curiosi a osservare con cura l’evento e a comunicargli le osservazioni, in modo da raffinare future previsioni. In seguito Halley ringraziò i volontari che avevano partecipato sulla rivista Philosphical Transctions e pubblicò un altro volantino con il percorso corretto e la sua previsione per l’eclissi successiva (1724).
L’esempio di citizen science vintage più celebre è però statunitense. A Natale, in alcuni stati era usanza sfidarsi facendo a gara a chi uccideva più uccelli. Due squadre sceglievano una direzione e proseguivano sparando per la campagna. Qualunque tipo di uccello era un bersaglio, anche se poi non veniva consumato, e anche se si trattava di uccelli rari.
Nel 1900 un ornitologo chiamato Frank Chapman propose un passatempo meno cruento: le due squadre potevano semplicemente contare gli uccelli che vedevano, invece di ucciderli. Le persone potevano divertirsi ugualmente e nel frattempo avrebbero fatto un censimento utile per i naturalisti. Ne sarebbe nata la Christmas Bird Count, un’esperienza di citizen science che prosegue tuttora sotto l’egida della Audubon Society, una delle più antiche associazioni per la conservazione degli uccelli.
L’esplosione della citizen science
Retrospettivamente i casi precedenti sono tutti esempi di citizen science ante litteram, ma nel passato emergevano occasionalmente ed erano tutto sommato puntiformi e circoscritti. Oggi, invece, è un fenomeno di massa e ben rappresentato in molti paesi. Da una parte, la crescita della citizen science deriva da un cambiamento profondo nel rapporto tra scienza e società cominciato verso la fine del secolo scorso, quando si affermò l’idea che scienziati e cittadini dovessero poter dialogare tra loro; dall’altra, lo sviluppo della citizen science è legato al progresso tecnologico degli ultimi decenni, quando la diffusione di internet e smartphone ha facilitato moltissimo sia il coinvolgimento sia la raccolta dei dati da parte di scienziati non professionisti. Se ci pensiamo, oggi un smartphone è un vero e proprio “coltellino svizzero” di sensori, e nel mondo ce ne sono più di 7 miliardi.
iNaturalist, per esempio, è una delle più famose app per la raccolta di dati sulla biodiversità, che oggi conta oltre 3 milioni di iscritti. Chiunque può fotografare un organismo e condividere lo scatto con gli altri utenti segnalando, grazie al GPS, la posizione esatta. Nel caricare l’osservazione, a cui possiamo aggiungere altri dettagli, cerchiamo di classificare l’organismo aiutati da un’intelligenza artificiale che analizza la foto. Sarà tuttavia la comunità di iNaturalist, che comprende molti esperti, a confermare (se possibile) il nome della specie o a suggerirne un altro, fino a finalizzare l’osservazione secondo un meccanismo di consenso. Alla fine di una camminata all’aria aperta potremmo quindi aver imparato a dare un nome a un nuovo animale o a una nuova pianta, e avremo creato un dato che, insieme a moltissimi altri, può essere utile agli scienziati.
Scienza e partecipazione
Dall’esempio precedente potremmo aver immaginato che per fare citizen science basti scaricare una app e cominciare a condividere le proprie osservazioni, in maniera totalmente autonoma. Questa è una possibilità, ma la citizen science prevede in realtà diversi livelli di coinvolgimento dei cittadini. Per esempio, sempre tramite iNaturalist è possibile entrare in contatto con progetti specifici che raccolgono osservazioni su un certo gruppo di organismi o una certa località. Oppure l’app può essere usata per la raccolta dei dati in modo coordinato con i ricercatori.
Ne sono un esempio i bioblitz, dove i cittadini interessati sono invitati a trovarsi in una certa località e a censire il maggior numero di specie in un intervallo di tempo stabilito (di solito 24 ore). In casi come questo c’è uno scambio diretto e personale con gli scienziati. Va anche detto che non sempre è indispensabile una specifica app per fare citizen science. Per esempio, il progetto di monitoraggio delle api Beewatching, nato in Italia, richiede l’invio di fotografie e dei dati principali dell’osservazione attraverso un semplice sito web curato dai ricercatori del Centro Agricoltura e Ambiente del CREA e del Dipartimento di Scienze Biologiche Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna.
I cittadini possono essere coinvolti ancora prima che cominci la raccolta dati, progettando assieme ai ricercatori l’esperienza. Si parla in questo caso di co-design, una pratica che prevede di solito specifici workshop che hanno l’obiettivo di adattare il progetto al contesto locale e alle conoscenze e capacità dei cittadini volontari.
Può anche succedere che una ricerca parta dalle necessità di una comunità, che intende vederci chiaro in merito a un problema locale, e per questo collabora con gli scienziati per reperire i dati necessari. È successo con la crisi dell’acqua di Flint, in Michigan. Nel 2014, a causa di interventi inopportuni sull’acquedotto, le tubature in piombo hanno cominciato a corrodersi. I cittadini hanno notato un cambiamento nell’odore, nel colore e nel sapore dell’acqua, ma l’amministrazione ripeteva che era sicura. Fino a quando LeeAnne Walters non si è rivolta all’ingegnere ambientale Marc Edwards, che trovò l’acqua del suo rubinetto molto inquinata. Ne è nato un programma di monitoraggio in tutta Flint, a cui i cittadini parteciparono con appositi kit distribuiti dagli studenti di Edwards. L’acqua non solo non era sicura, era molto pericolosa.
La citizen science può quindi essere vista come uno strumento in più a disposizione degli scienziati per raccogliere dati e avvicinare le persone alla scienza, ma anche come un processo con cui la scienza si apre alle idee e ai bisogni delle comunità. Alcuni studi hanno già evidenziato i benefici per i cittadini che partecipano a queste esperienze: aumento dell'interesse per la scienza e maggiore consapevolezza dei suoi metodi, ma anche una maggior sensibilità per alcune tematiche, come la conservazione della natura.
Citizen science e scuola
Non tutte le ricerche scientifiche si adattano alla citizen science, specialmente quando il livello di coinvolgimento è alto. Il monitoraggio della biodiversità, come nel caso di iNaturalist, è il campo in assoluto più fecondo, ma non è il solo. Per esempio, durante il lockdown da COVID-19, gli astronomi hanno chiesto ai cittadini confinati a casa di affacciarsi al balcone e inquadrare il cielo con il loro smartphone. L’obiettivo era misurare su tutta la penisola l’inquinamento luminoso ed è stato un successo.
In Italia troviamo anche esperienze dedicate alla qualità dell’acqua e dell’aria, alla mappatura delle sorgenti e all’inquinamento marino. A livello europeo ci sono esempi in tutte le principali discipline, anche se sono le tematiche ambientali a farla da padrone.
Un caso particolare riguarda la scuola. Nell’ambito dell’insegnamento fare citizen science si può considerare un’attività per competenze, cioè la «comprovata capacità di usare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e/o personale». Un esempio di citizen science adattato al contesto scolastico è School of Ants: A scuola con le formiche (SoA): lo ha raccontato il professor Donato A. Grasso nel suo libro Il formicaio intelligente (Zanichelli, 2018).
Ecco la spiegazione del progetto nelle parole della sua coordinatrice Cristina Castracani del Laboratorio di Etologia, Ecologia e Sociobiologia degli insetti dell’Università di Parma:
Noi studiamo le formiche, che sono anche organismi sensibili ai cambiamenti della qualità ambientale. Si potrebbero usare come bioindicatori negli ambienti urbani, ma non sappiamo bene quali specie vivono nelle città. Con i mezzi tradizionali sarebbe molto difficile scoprirlo, anche a causa dei fondi limitati. Questo, una decina di anni fa, ci ha avvicinato alla citizen science.
I ricercatori si sono chiesti a quali cittadini rivolgersi e come, poiché l’obiettivo della citizen science è che la ricerca scientifica risponda anche ai bisogni di chi partecipa. Questo ha portato i ricercatori nelle scuole di Parma, che in quel periodo cercavano proprio nuove esperienze didattiche. Il vantaggio della scuola è che si tratta di un ambiente circoscritto, dove grazie agli insegnanti è possibile operare con continuità. Dopo qualche esperimento nelle scuole elementari e medie, il progetto nel 2016 è stato esteso anche alle scuole superiori.
SoA utilizza dei protocolli che permettono a cittadini non esperti, bambini inclusi, di catturare formiche in ambiente urbano, usando materiali di uso comune. Le formiche catturate sono poi state inviate al laboratorio, dove è stato effettuato il riconoscimento. In seguito, i ricercatori sono tornati a raccontare i risultati portando i dati che gli studenti avevano prodotto e dove possibile hanno preparato le formiche per l’osservazione al microscopio in classe. Spiega ancora Castracani:
È un modo per insegnare il metodo scientifico mettendo “le mani in pasta. Abbiamo mostrato cosa significa raccogliere dati e confrontarli, e perché bisogna farlo in un certo modo.
In seguito, la collaborazione col Muse di Trento ha permesso di espandere il progetto oltre Parma. È stato sviluppato un kit chiamato Antbox che contiene, oltre agli strumenti di raccolta, tutto il materiale per sviluppare un progetto didattico in classe. I ricercatori e gli operatori del Muse continuano a tenersi in contatto con gli insegnanti e organizzano periodici seminari, sia per introdurre l’esperienza ai docenti interessati, sia per aggiornare chi ha partecipato.
Al momento il progetto SoA ha coinvolto quasi 3000 studenti e oltre 100 insegnanti di 50 scuole, in 23 province distribuite principalmente nel nord e centro-Italia (Emilia-Romagna, Lazio, Lombardia, Puglia, Toscana, Trentino-Alto Adige, Veneto). L’ambizione, però, è coinvolgere tutte le scuole Italiane. Protocolli simili, inoltre, potrebbero essere usati in altri progetti di citizen science. I ricercatori hanno presentato l’esperienza e i dati ottenuti in due pubblicazioni scientifiche, nel 2014 e nel 2020.
L’importanza del metodo
Ci si può fidare dei dati raccolti da cittadini? Secondo Andrea Sforzi, presidente dell’associazione Citizien Science Italia, la risposta è sì. Intervenendo a marzo al convegno Citizer Science. Indicazioni e best practice per l’Emilia-Romagna, Sforzi ha spiegato che secondo gli studi i dati prodotti con l’aiuto dei cittadini possono senza dubbio avere la stessa qualità di quelli prodotti con un altre tecniche.
Sforzi ha anche specificato che il successo di un’esperienza di citizen science parte dal metodo: non è la partecipazione dei cittadini in quanto tale ad aumentare le probabilità di produrre dati scadenti, tutto dipende dall’organizzazione dell’esperienza. Questa è una parte di cui si devono occupare prevalentemente i ricercatori. Per esempio, nel progetto SoA la parte di riconoscimento della specie, che prevede l’uso di chiavi dicotomiche e microscopi, è sempre stata svolta dagli specialisti.
Ecco l’intervento di Andrea Sforzi:
Per far crescere ulteriormente la citizen science anche nel nostro paese, c’è quindi l’esigenza non solo di sperimentare, ma anche di condividere l’esito al di là del risultato scientifico. Afferma Cristina Castracani:
L’associazione Citizen science Italia è nata anche a questo scopo. È necessario identificare delle best practices, cioè procedure condivise per la progettazione delle esperienze, in modo da rendere più facile e proficuo l’accesso alla citizen science sia per i ricercatori che per tutti i cittadini.
Il nuovo Centro nazionale per la biodiversità (National Biodiversity Future Center, NBFC) finanziato dal PNRR (Piano nazionale ripresa e resilienza) prevede esplicitamente anche strategie di citizen science. Per il futuro, l’ambizione è arrivare a un Centro nazionale per la citizen science, seguendo la stessa strada di altri paesi europei dove, per esempio, esistono già fondi di ricerca destinati a chi usa questo strumento.
Un altro motivo per coordinarsi, spiega la ricercatrice, è fare in modo che le esperienze di citizen science siano condotte in maniera rigorosa, soprattutto dal punto di vista della partecipazione dei cittadini. Se la citizen science è popolare è un bene, ma bisogna evitare che diventi solo un’etichetta “alla moda”, e fare in modo che duri nel tempo.
Il nostro modello è l’Associazione europea di citizen science (ECSA), che ha elaborato un decalogo di principi che riteniamo fondamentali per qualunque progetto.
Il primo principio del decalogo recita:
I progetti di Citizen science coinvolgono attivamente i cittadini in attività scientifiche che generano nuova conoscenza o comprensione. I cittadini possono agire come contributori, collaboratori o responsabili di progetto e ricoprono un ruolo significativo nel progetto.
Immagine in apertura: Museo di storia naturale della Maremma