Pallavolisti professionisti contro non-atleti: un gruppo di psicologi della University of Illinois ha deciso di metterli in campo per una partita del tutto particolare, quella per confrontare le capacità cognitive dei due gruppi. Curiosi di scoprire il risultato?
Campo di pallavolo, ha inizio la partita: da una parte del campo una selezione dei migliori pallavolisti brasiliani, molti dei quali reduci dalle ultime due edizioni dei Gioci Olimpici; dall’altra parte del campo, gente comune, persone che non hanno mai fatto attività sportiva a livello agonistico. Il risultato della partita è piuttosto scontato, vero? Ma se la partita si giocasse, anziché su un campo da pallavolo, in un laboratorio per lo studio delle abilità cognitive, sareste disposti a scommettere sul risultato? Invece di scommettere, ricercatori della University of Illinois hanno deciso di testare davvero le capacità cognitive dei due gruppi. I risultati, apparsi sulla rivista di psicologia Frontiers in Psychology, dimostrano che gli atleti sono più bravi non solo quando si tratta di alzare la palla a rete o di schiacciare il punto della vittoria, ma anche in termini di capacità cognitive.
Atleti e non-atleti: la sfida fuori dal campo di gioco
Nello studio sono stati raggruppati ben 87 tra i migliori pallavolisti brasiliani, tra loro anche alcuni vincitori di medaglie alle Olimpiadi di Beijing (Pechino) e Londra. A questi altleti è stato chiesto di svolgere alcuni test per vagliare una serie di capacità cognitive – dalla velocità di reazione ai test di calcolo e memoria - e i risultati sono stati confrontati con un gruppo di “non atleti” della stessa età. Rispetto a chi non svolge attività fisica a livello agonistico, gli atleti sembrano essere molto più rapidi nel notare anche minimi cambiamenti attorno a sé, anche se avvengono nella loro visione periferica. A queste caratteristiche, si aggiungono migliori performance nei test di memoria e una notevole versatilità nel passare rapidamente dall’esecuzione di un certa attività ad un’altra.
Tra le differenze riscontrate, quelle più significative sembrano però riguardare il confronto tra donne: rispetto al gruppo delle non-atlete, le donne che svolgono attività agonistica dimostrano di ottenere risultati nettamente migliori nelle attività cognitive sopra elencate. Al punto che, nel gruppo degli atleti non c’è praticamente differenza nelle capacità cognitive di uomini e donne (visibili invece nel gruppo dei non atleti).
Partire di scatto, fermarsi di scatto
C’è però un’attività in cui i non-atleti si sono dimostrati migliori dei pallavolisti professionisti. L’esercizio consisteva in questo: la persona doveva premere un tasto non appena vedeva visualizzato un simbolo sullo schermo di un computer – a meno che il simbolo non fosse seguito da un rumore: in quel caso dovevano bloccarsi e non premere alcun tasto.
Ebbene, in questo test i non-atleti si sono dimostrati molto più rapidi nel premere il tasto quando richiesto, anche se la loro capacità di bloccare il movimento in seguito al rumore non era altrettanto buona. Lo era invece quella degli atlleti che, pur essendo un po’ più lenti nel premere il tasto al comparire del simbolo, erano decisamente più efficienti nell’inibire il movimento della mano nel momento in cui udivano il rumore.
Che cosa significa tutto questo? Questo test misura di fatto la capacità di una persona di controllare i propri gesti e di pianificare le proprie reazioni in funzione degli stimoli esterni: tutte capacità fondamentali nello svolgimento di uno sport come la pallavolo. Secondo l’interpretazione dei ricercatori, il fatto che gli atleti si siano mostrati più lenti nel premere il tasto, ma molto più efficienti nell’inibire il movimento quando necessario è il riflesso del loro traning e dalla loro abitudine a studiare i propri movimenti. In termini di efficienza, se io sono un po’ più lento a partire, sarò anche più rapido a fermarmi quando necessario: strategicamente, non c’è dubbio che sia questa la scelta migliore, quella in grado di garantire il maggior numero di “risposte” esatte. Ed è esattamente la strategia che – forse inconsciamente – gli atleti hanno applicato in questo test cognitivo, proprio perché così abituati a farlo anche sul campo di gioco.
Cervelli olimpionici: davvero hanno una marcia in più?
Per quanto i risultati di questo studio siano interessanti, bisogna evitare - almeno per il momento – facili generalizzazioni. Come sottolinea Arthur Kramer, professore di psicologia alla University of Illinois e responsabile dello studio, questa analisi non fa che enfatizzare alcuni aspetti e capacità cognitive in cui gli atleti dimostrano, di fatto, di essere più bravi dei non-atleti. Ma rimane comunque una domanda di fondo: «Non sappiamo se gli atleti siano “nati” con queste abilità, oppure se esse siano state sviluppate con anni di allenamento», commenta Kramer, «Forse le persone che gravitano attorno a questi sport lo fanno perché eccellono sia dal punto di vista fisico, che cognitivo. Oppure è l’allenamento che finisce per aumentare, oltre alla loro prestanza atletica, anche le loro capacità cognitive». La soluzione è forse un po’ di entrambe le cose.