Un nanofarmaco capace di superare una delle barriere di controllo del nostro organismo, cioè i macrofagi? È la scommessa su cui puntano i ricercatori della Pennsylvania University, che hanno appena testato il nanofarmaco sui topi con risultati promettenti.
Dura la vita dei farmaci. Spediti nel nostro corpo per venirci in aiuto, alcuni di essi non ci riescono perché vengono scambiati dalle difese immunitarie per sostanze nocive da eliminare. Avrebbero così bisogno di una specie di passaporto che gli consenta di essere riconosciuti come parte dell’organismo e li metta al sicuro da attacchi indesiderati. Questo è quello che hanno fatto i bioingegneri dell’Università della Pennsylvania (USA), guidati da Dennis Discher, progettando un particolare nanofarmaco in grado di eludere la sorveglianza del sistema immunitario. Il loro metodo, descritto su Science, ha dato risultati soddisfacenti nella sperimentazione sui topi, e sembra aprire la strada allo sviluppo di nuovi dispositivi farmacologici anche per l’uomo.
Tutta "colpa" dei macrofagi
Grandi aspirapolveri bianche che ripuliscono il nostro organismo ventiquattro ore su ventiquattro. I macrofagi del sistema immunitario venivano rappresentati così in Esplorando il corpo umano, la serie animata in voga sul finire degli anni Ottanta. Sono loro ad avere il compito di eliminare tramite un meccanismo chiamato fagocitosi le particelle riconosciute come nocive. Questa risposta immunitaria è chiaramente funzionale al benessere dell’organismo, ma costituisce un ostacolo per molte terapie farmacologiche. Come fanno i macrofagi a distinguere le componenti microscopiche che appartengono all’organismo e devono quindi essere preservate, da ciò che proviene dall’esterno e va eliminato? In una ricerca condotta nel 2008, il gruppo guidato da Discher aveva dimostrato che la proteina umana CD47 si lega a un recettore dei macrofagi noto come SIRPa, innescando così le pratiche di riconoscimento da parte del sistema immunitario.
Perché allora non tentare di ingannare i macrofagi, utilizzando proprio la proteina CD47? Così, dopo aver caratterizzato la struttura della CD47, gli scienziati statunitensi sono riusciti a progettare la più piccola sequenza di amminoacidi in grado di replicare il segnale della proteina. Questo frammento peptidico è stato sintetizzato e legato a nanoparticelle di polistirene, con la speranza che così “camuffate” fossero in grado di eludere la risposta immunitaria di un eventuale ospite. La sperimentazione è proseguita con l’iniezione nei topi di due tipi di nanoparticelle, il primo scortato dal frammento della proteina CD47 e il secondo senza, per finire con la misurazione della velocità con cui il sistema immunitario fosse stato in grado di eliminare le due versioni.
Farmaci nanotech
«Abbiamo utilizzato due differenti coloranti fluorescenti per i due tipi di nanoparticelle, in modo da poter prendere campioni di sangue ogni 10 minuti e misurare il numero di nanoparticelle residue dei due tipi», ha spiegato Pia Rodriguez, una delle autrici dello studio. «Abbiamo iniettato le due nanoparticelle in quantità uguali e dopo 30 minuti le particelle residue legate al peptide sono risultate fino a quattro volte più numerose». Anche se a prima vista può sembrare poco, ritardare di mezz’ora l’intervento dei macrofagi può essere fondamentale perché la maggior parte dei trattamenti vadano a buon fine. Soprattutto nel caso di sostanze di contrasto che si utilizzano in diagnostica e di specifici agenti antitumorali. Ora l’obiettivo è quello di provare a sviluppare ulteriormente il metodo per tentare di estenderlo alle terapie sull’uomo, con la speranza, ha spiegato Discher, «di riuscire a realizzare un dispositivo nanotecnologico standard, riproducibile e applicabile a diversi ambiti della nanofarmacologia».