È impossibile immaginare un’Africa senza elefanti e leoni. Eppure l’incontrollabile commercio dell’avorio e la crescente domanda di nuovi territori stanno decimando le loro popolazioni. I dati di due recenti studi non lasciano dubbi: senza misure urgenti di protezione, queste specie iconiche sono condannate a una rapida estinzione.
L’elefante di foresta (Loxodonta cyclotis), che vive nelle foreste pluviali dell’Africa centrale, è stato considerato a lungo una sottospecie del più noto e comune elefante africano (Loxodonta africana). Nonostante le minori dimensioni (raramente supera i 2,5 metri di altezza), ha zanne molto lunghe, che nei maschi possono arrivare a terra, facendone una preda piuttosto ambita dai cacciatori di avorio. Proprio le zanne sequestrate ai bracconieri, su cui di recente sono stati compiuti vari test del DNA per rintracciarne l’origine, hanno permesso di scoprire le notevoli differenze genetiche tra L. cyclotis e L. africana, tali da giustificare l’appartenenza a specie separate.
Una scoperta scientifica che rischia di trasformarsi in un epitaffio, perché il contrabbando di avorio sta facendo strage di questi animali protetti, e se le cose non cambieranno in fretta, tra una decina d’anni saranno scomparsi del tutto. La denuncia questa volta non proviene dalle associazioni ambientaliste, ma da più di 60 scienziati che hanno pubblicato sulla rivista PLOS ONE i risultati di un decennio di ricerche.
Un cimitero di elefanti
Lo studio, il più vasto mai condotto sugli elefanti di foresta, è stato presentato in occasione della 16esima Conferenza della Cites (Convention on international trade in endangered species of wild fauna and flora) che si è tenuta in questi giorni a Bangkok, in Thailandia: oltre 2000 delegati in rappresentanza di 178 governi riuniti per discutere questioni relative al commercio della fauna selvatica, tra cui il bracconaggio e il contrabbando di avorio.
I dati, raccolti tra il 2002 e il 2011, hanno richiesto sforzi enormi: gli staff dei cinque paesi in cui gli elefanti sono distribuiti (Camerun, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Gabon e Repubblica del Congo) hanno speso in media 91 600 giorni a persona per il monitoraggio dei pachidermi, percorso a piedi oltre 13 000 chilometri e raccolto 11 000 campioni per l’analisi.
I risultati della ricerca sono drammatici: in soli 10 anni, il 62% dell’intera popolazione di elefanti di foresta è stata sterminata per l’avorio, e quasi un terzo del territorio dove vivevano indisturbati 10 anni fa è diventato ormai troppo pericoloso per loro. John Hart della Fondazione Lukuru, coautore dello studio, dice: «Storicamente, gli elefanti popolavano le foreste di questa vasta regione di oltre 2 milioni di chilometri quadrati, ma ora sono confinati in appena un quarto dell’estensione originaria. Anche se la copertura forestale rimane, è priva di elefanti, a dimostrazione che non è un problema di degrado degli habitat. Questa situazione è quasi interamente la conseguenza del bracconaggio».
Un'analisi confermata da recenti indagini nella riserva faunistica Okapi, considerata l'ultima roccaforte degli elefanti della Repubblica Democratica del Congo: il loro numero è sensibilmente calato nelle zone con alta densità di abitanti, cacciatori, strade e altre infrastrutture, ma anche dove il malgoverno è diffuso, la corruzione è alta e le forze dell'ordine, se non complici, sono latitanti.
Gli elefanti svolgono un ruolo vitale per la salute dell’ecosistema forestale. Lee White CBE, capo del Gabon National Parks Service non usa mezzi termini: «Una foresta pluviale senza elefanti è un luogo sterile. Questi animali sono fonte di vita, creano i sentieri e mantengono aperte le radure usate da tanti altri animali, disperdono i semi di molti degli alberi della foresta pluviale: possono essere considerati i giardinieri forestali su vasta scala».
Proprio il governo del Gabon - paese che prima deteneva il record della maggiore popolazione di elefanti di foresta di tutta l’Africa - all'inizio di questo mese ha annunciato la perdita di circa 11.000 esemplari nel Parco Nazionale Minkébé, tra il 2004 e il 2012. L’apertura di nuove strade, soprattutto ad opera delle compagnie del legname, è una delle minacce peggiori, perché consente ai braccconieri di penetrare sempre più a fondo nella foresta. I modi per contrastare l’estinzione degli elefanti sono noti, basta trovare le risorse e la volontà per attuarli: ridurre la corruzione cronica e garantire l’applicazione delle sanzioni contro il bracconaggio e il commercio illegale, investire più risorse umane e finanziarie nella sorveglianza, migliorare il controllo sui prodotti esportati e importati e sensibilizzare l’opinione pubblica. Soprattutto, sarebbe aupicabile una moratoria internazionale sul commercio dell’avorio,che paesi come il Botswana, la Namibia e il Sud Africa continuano a vendere legalmente ai paesi asiatici, alimentandone la richiesta e favorendo allo stesso tempo i traffici illegali.
Maledetto oro bianco
La ricerca ha dimostrato che l’impennata del bracconaggio in Africa a partire dal 2006 è fortemente correlata all’aumento della domanda di avorio in Estremo Oriente, dove si concentra gran parte del mercato mondiale. In Cina, dove l’avorio è segno di buona fortuna anche economica, il suo prezzo è lievitato negli ultimi anni: una zanna di cinque chili può costare fino a 4000 dollari, e se lavorata vale molto di più. Una tentazione fortissima per i bracconieri, spesso miliziani o ex soldati, che armati di kalashnikov AK-47 non esitano a entrare nei parchi e a far strage di pachidermi. Vengono uccisi in modo crudele: feriti gravemente dai colpi di fucile, restano agonizzanti per ore, e i piccoli risparmiati dalla mattanza, perché ancora privi di zanne, muoiono lentamente di fame e di sete accanto ai resti della loro famiglia.
Nel 2011 è stato registrato il più altro tasso di bracconaggio dal 1989, anno in cui il commercio di avorio è stato messo al bando in quasi tutto il mondo: il Traffic, una ong che si occupa del monitoraggio del mercato globale della fauna selvatica, ha denunciato in quell'“annus horribilis” il sequestro di 24 tonnellate di avorio illegale, corrispondenti ad almeno 2500 esemplari abbattuti. Attualmente si stima che in tutto il continente africano siano rimasti dai 472 000 ai 690 000 elefanti : negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso erano almeno cinque milioni.
Oltre che come status symbol dei nuovi ricchi cinesi, l’avorio è richiestissimo in Giappone per fabbricare l’hanko, un timbro personale usato in sostituzione della firma per siglare i contratti. L’Environmental Investigation Agency (EIA) sostiene che siano ben 10 000 gli annunci pubblicitari su Google Shopping giapponese che reclamizzano prodotti in avorio, spesso mascherato con nomi diversi come “osso che non brucia”, “oro bianco”, “falso avorio”.
La Thailandia, che rappresenta il secondo mercato mondiale dell’avorio dopo la Cina, ha appena annunciato che rinuncerà al suo commercio legale, ma senza una cooperazione internazionale ogni tentativo di porre fine alla carneficina di elefanti sarà vano. Intanto, la Conferenza di Bangkok si è conclusa con un’amara delusione: i governi hanno espresso voto contrario alle sanzioni commerciali nei confronti dei paesi che in questi anni non hanno contrastato il commercio illegale di avorio. In attesa di una moratoria internazionale, la mattanza prosegue.
Un re senza trono
Se gli elefanti africani corrono seri pericoli, i leoni non se la passano meglio. Il re della savana è sotto assedio: il suo regno un tempo vastissimo si riduce sempre più, e al pari degli Indiani d’America e degli Indios dell’Amazzonia, sembra destinato a sopravvivere in riserve sempre più piccole, magari pure recintate. Un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Ecology Letters da un team internazionale di biologi, denuncia che quasi la metà delle popolazioni selvatiche di leone africano si estinguerà nel corso dei prossimi 20-40 anni, se non verranno prese misure urgenti di conservazione. La situazione è così grave da prospettare come soluzione estrema, ma più efficace ed economica, il confinamento dei felini in aree recintate da cui gli esseri umani siano esclusi.
Utilizzando i dati di campo raccolti in 11 paesi africani, i ricercatori hanno esaminato i costi di gestione degli habitat recintati e non, e messo a confronto le densità numeriche e le tendenze delle rispettive popolazioni di leone. Il rapporto mostra che i costi di conservazione sono più bassi, e le popolazioni più numerose nelle riserve recintate. In quelle non recintate, infatti, i leoni subiscono molte più minacce dalle comunità umane, tra cui le uccisioni come ritorsione da parte dei pastori, la perdita e la frammentazione di habitat e la caccia eccessiva delle loro prede.
Insomma, la convivenza tra esseri umani e leoni (ma lo stesso si può dire di molti altri animali) non funziona, e con l’aumento costante del numero di persone e di bestiame, non è difficile immaginare chi ci rimetterà la pelle. Oggi restano meno di 30 000 leoni in tutto il continente, e il loro habitat è un quarto di quello originario. A nessuno piace l’idea di deturpare con recinti gli incomparabili paesaggi primordiali di questa terra già tanto martoriata, ma potrebbe essere l’unica via per ammirare un leone nel suo habitat naturale, e non solo allo zoo o in un circo.