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Dolore muto

Finalmente chiarito il meccanismo mediante il quale le mutazioni al recettore NaV ammutoliscono gli stimoli dolorosi, causando la totale insensibilità al dolore fisico.
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Per quanto spiacevole possa essere, provare una sensazione dolorosa è una delle strategie più efficaci per allontanarci da situazioni pericolose e aumentare le nostre chance di sopravvivenza. Ma non tutti percepiscono il dolore allo stesso modo e la “soglia del dolore” è una delle caratteristiche più variegate tra le persone. Questo causa non pochi problemi quando si deve stabilire la giusta dose di un antidolorifico, per esempio per contrastare il dolore cronico. Un recente studio dà ora nuovo slancio a un ambito della farmacologia che da anni annaspa alla ricerca di farmaci analgesici efficaci: la risposta viene proprio da chi, a causa di una mutazione genetica, il dolore non l’ha mai sperimentato.
Questa fotografia, scattata nel 1907, ritrae un fachiro indiano: un'immagine emblematica della capacità di sopportare il dolore (Foto: Wikimedia Commons).

Recettori NaV, lì dove nasce il dolore

I recettori NaV sono canali per il sodio voltaggio-dipendenti: la loro apertura è fondamentale per permettere il flusso di cariche che innesca la depolarizzazione dei neuroni e trasmette l’impulso nervoso. Fino a oggi sono state identificate 9 isoforme di canali di membrana NaV, che differiscono in parte per la sequenza di amminoacidi, il ruolo fisiologico e le proprietà farmacologiche. Uno di queste isoforme, NaV1.7, è indispensabile per la percezione del dolore: è un recettore estremamente sensibile, tanto che anche stimoli di bassa intensità ne causano l’apertura e innescano un potenziale d’azione nei nocicettori. Una delle subunità che formano NaV1.7 sembra essere particolarmente importante nel determinare la soglia di stimolazione necessaria per aprire il canale: si tratta della subunità alpha, codificata dal gene SCN9A, e i ricercatori sono sempre più convinti che i polimorfismi per questo allele siano responsabili della grandissima varietà nella percezione del dolore che si riscontra nelle diverse persone. Fino a casi estremi, come quello di una mutazione al gene SCN9A responsabile della totale incapacità di percepire il dolore: questa condizione, chiamata analgesia congenita, è molto insidiosa, perché impedisce a chi ne è affetto di evitare situazioni pericolose (come allontanare la mano da una superficie ustionante) oppure di allertarsi per condizioni potenzialmente letali (come il dolore associato, per esempio, a una frattura o una grave lesione).
La struttura della subunità alpha (formata da quattro domini transmembrana) di un recettore-canale NaV (Immagine: Wikimedia Commons).

Oltre al canale ionico c’è di più

Nella storia di NaV1.7 c’è tuttavia qualcosa che non torna. Prendendo esempio dai casi di analgesia congenita, in cui NaV1.7 è completamente privo di funzione, dovrebbe essere piuttosto facile creare un farmaco antidolorifico con una molecola che blocchi l'apertura del canale. Ma le cose non sono semplici: da almeno un decennio i ricercatori provano in ogni modo a bloccare NaV1.7 e i risultati sono sempre stati deludenti. Da qui l’idea che, oltre a trasmettere il potenziale d’azione di uno stimolo doloroso, NaV1.7 potesse fare anche qualcosa in più. A dimostrarlo arriva finalmente lo studio pubblicato sulle pagine di Nature Communications, da cui emerge il ruolo che NaV1.7 svolge anche nella modulazione dell’espressione dei geni per le encefaline. Le encefaline sono neurotrasmettitori che agiscono come antidolorifici naturali, interferendo con la trasmissione degli stimoli dolorosi al cervello. Studiando topi transgenici portatori della stessa mutazione di NaV1.7 che negli esseri umani causa analgesia congenita, i ricercatori hanno dimostrato che i livelli di encefaline erano molto più alti della norma. A indurre l’effetto analgesico negli individui portatori della mutazione non sarebbe quindi l’incapacità di NaV1.7 di innescare correttamente il potenziale d’azione, quanto piuttosto la sua capacità di aumentare l’espressione di encefaline. Lo dimostra il fatto che i topi con la mutazione, se trattati con naloxone (un farmaco che blocca l’effetto analgesico degli oppioidi), tornano ad essere sensibili al dolore. Lo stesso soprendente risultato è stato ottenuto in una paziente di 39 affetta da analgesia congenita: trattata con naloxone, la donna è stata in grado, per la prima volta nella sua vita, di percepire uno stimolo doloroso.

Antidolorifici: a ciascuno il suo

I risultati di questo studio potrebbero aprire la strada a una nuova generazione di farmaci analgesici. La terapia del dolore cronico e la gestione del dolore post-operatorio sono ambiti in cui il trattamento farmacologico è ancora ben lontano dall’essere ottimale. Molti dei farmaci impiegati, come per esempio la morfina, inducono dipendenza e tolleranza nei pazienti; con il tempo, è necessario aumentare progressivamente la dose di farmaco, esponendo i pazienti al rischio di gravi effetti collaterali. Sapere come funziona NaV1.7 permette ora di immaginare nuove combinazioni di farmaci, in cui molecole in grado di bloccare questo canale possono essere combinate con dosi di oppiodi molto più basse rispetto a quelle impiegate fino ad oggi. I benefici di un simile approccio sarebbero molteplici: una migliore gestione delle terapie per il dolore cronico, una riduzione dei tempi di ospedalizzazione dopo interventi chirurgici e la possibilità di adeguare il dosaggio di antidolorifici alla personale soglia del dolore di ciascun paziente. Immagine Banner: Immagini di fMRI che mostrano le zone della corteccia attivate da alcuni stimoli dolorosi (Wikimedia Commons).
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