A quasi due anni dal disastro della centrale nucleare di Fukushima, in Giappone, si stanno facendo delle stime su un male insidioso che sta coinvolgendo le persone evacuate dalla zona a rischio radioattivo: la depressione e lo stress post-traumatico
A marzo saranno passati due anni dal disastro che nel 2011 ha coinvolto la città di Fukushima, con un terremoto e lo tsunami che hanno danneggiato pesantemente la sua centrale nucleare. Le persone che sono state evacuate dalle loro case, perché abitavano in una zona ad alto rischio radioattivo, ancora oggi vivono in una situazione di precarietà e questo non le aiuta a riprendersi dalla brutta esperienza.
Case temporanee
Molte famiglie sono ancora ospiti di alloggi temporanei costruiti 30 km a Nord della zona evacuata, sorta di case mobili costruite per far fronte alla emergenza, che verranno smontate nel 2014. Nelle migliori ipotesi in appartamenti di 30 metri quadri si trovano a convivere diverse persone: è il caso per esempio della famiglia di Yuka Togawa, formata da lei, dal marito e dai loro tre figli. La loro storia è raccontata su Nature come un simbolo della situazione di molte altre famiglie della zona. In altri casi le persone vivono in ambienti comuni con appositi divisori per una privacy davvero minima.
«Subito dopo un evento traumatico si può vivere un periodo di super energia, ma il mancato ripristino della normalità a lungo andare causa maggiore stress e il rischio è quello della comparsa di ansia o depressione», afferma Ronald Kessler, che si occupa di sanità alla Harvard Medical School di Boston. I motivi che portano a queste conseguenze nel caso dei giapponesi sono soprattutto la perdita della casa e del lavoro, oltre alla paura sottile e costante del rischio radioattivo.
Radiofobia
Viene chiamata “radiofobia”, la paura che si avverte per il futuro della propria salute e soprattutto per quella dei figli a causa delle radiazioni. Molti giapponesi cercano di esorcizzare questo problema con periodici check up ed esami alla tiroide, mentre molti bambini indossano dei dosimetri distribuiti dal sistema sanitario per raccogliere i dati sulle radiazioni ambientali. Ma spesso questo non basta. La paura è soprattutto quella per la salute a lungo termine dei propri figli, per la possibile comparsa di qualche mutazione cancerosa. Una ulteriore fonte di stress è data dalla scarsa fiducia che stanno dimostrando i giapponesi nei confronti delle rassicurazioni dello Stato, per esempio sulla sicurezza degli alimenti. Secondo uno studio pubblicato nel 2012 dal Pew Research Center di Washington (USA), il 76% dei giapponesi è convinto infatti che il cibo proveniente dalle zone attorno a Fukushima non sia sicuro. Questa scarsa fiducia ha portato, paradossalmente, alcune persone ad ignorare apertamente le limitazioni nella permanenza in zone a rischio: è il caso di Kenji Ookubo, che utilizza le strade deserte della sua vecchia città evacuata come un campo da golf.
Scarsa fiducia
Questo complica le cose, soprattutto perché si è osservata una scarsa collaborazione nella raccolta di dati da parte delle popolazioni colpite. In questi mesi infatti le persone più coinvolte sono state sottoposte a un questionario da un comitato medico per sondare la loro salute mentale, secondo il protocollo del Fukushima Health Management Survey. Degli oltre 90.000 evacuati interessati dal questionario, la maggior parte ha presentato una risposta positiva ai sintomi di uno stress post-traumatico e 5.000 sono stati selezionati per gravità per essere seguiti da uno psicoterapeuta. Tra queste persone è compresa anche Yuka Togawa, che a Fukushima era infermiera.
Aiuto telefonico
Purtroppo, a causa della carenza di fondi, questi medici riescono a dialogare con i pazienti solo attraverso il telefono e solo una volta alla settimana: i risultati sono veramente scoraggianti, solo la metà ha accettato il trattamento, dal momento che i pazienti sono riluttanti a parlare dei loro problemi e spesso le telefonate si concludono dopo pochi minuti. La stessa Yuka ha rifiutato l’invito a sentire lo psicologo. Il Giappone in questo momento non ha la forza economica per fare di più per questi cittadini, e sta cercando di coinvolgere esperti di altri Paesi, per raccogliere dati molto importanti dal punto di vista epidemiologico. Infatti, come per i disastri causati da altre catastrofi naturali o da eventi terroristici, anche il disastro di Fukushima può insegnarci come gestire meglio le emergenze anche a distanza di tempo, non solo dal punto di vista della ricostruzione di una città, ma della rinascita di una comunità.