Il tributo dei tifosi dell'Arsenal in supporto di Fabrice Muamba, poco dopo l'attacco cardiaco che l'ha colpito sul campo nel 2012 (Foto: Wikimedia Commons).
Episodi come questi non sono altro che la punta dell’iceberg di una realtà molto più diffusa e, fino ad oggi, senza una valida spiegazione: gli atleti di colore sono più a rischio di incorre in incidenti fatali sul campo, vittime di attacchi cardiaci improvvisi. Come è possibile che ciò accada, nonostante i test di screening a cui gli atleti professionisti vengono continuamente sottoposti? Il progetto di ricerca di Henry è partito proprio da questo quesito irrisolto, che nella sua mente ha scatenato un'altra domanda: gli atleti di colore sono geneticamente più predisposti a questi eventi, oppure sono i test diagnostici ad essere inadeguati?
La cardiomiopatia ipertrofica è una malattia che si manifesta con un ispessimento della parete del cuore (il termine ipertrofia si riferisce proprio all’aumentata crescita). A causa di questo difetto, il cuore è meno efficiente nel pompare sangue e, con il tempo, può arrestarsi improvvisamente.
Ipertrofia cardiaca, con ispessimento della parete del ventricolo sinistro. La parte del cuore appare molto ingrossata (immagine a destra) rispetto allo spessore normale (immagine a sinistra) (Immagine: Shutterstock).
La tecnica di routine per scoprire se una persona è a rischio si basa sull’ecografia cardiaca, che permette di vedere se la parete del cuore è più spessa del normale. Si tratta di una tecnica molto affidabile ma che, purtroppo, non funziona altrettanto bene negli atleti, nei quali il cuore si presenta già più grande del normale (una condizione benigna nota come “cuore d’atleta”). Per scoprire se un atleta è a rischio di ipertrofia è quindi necessario ricorrere ad un esame alternativo, basato sulla misurazione del picco massimo di consumo di ossigeno sotto sforzo. Se il test è alterato rispetto al normale, il cuore non sta pompando sangue in modo efficiente e l’atleta è più a rischio di incorrere in attacchi cardiaci sotto sforzo. Grazie a questa tecnica, è stato possibile negli anni individuare molti atleti che, pur in perfetta salute e senza nessun sintomo evidente, erano a rischio di attacchi cardiaci improvvisi. Nonostante la sua efficacia, questo test lascia scoperta una zona grigia di incidenti che continuano a verificarsi soprattutto tra gli atleti di colore. Questa incongruenza che ha fatto suonare un campanello d’allarme nella mente di Henry: e se il valore-soglia utilizzato come riferimento nel test fosse più affidabile nella popolazione caucasica rispetto alle persone di colore?
Sull’onda di questa intuizione, Henry – con l’appoggio del team del St. George Hospital di Londra – ha iniziato a raccogliere nuovi dati sul picco massimo di consumo dell’ossigeno, avendo cura di includere nel gruppo di studio un buon numero di persone di entrambe le etnie. Quelli che Henry ha portato sulla scrivania del Dott. Sharma al termine dello progetto erano risultati a dir poco sbalorditivi. La differenza tra i due gruppi era notevole, indicando che il valore-soglia utilizzato fino ad oggi è assolutamente inadeguato a cogliere il rischio di ipertrofia cardiaca nella popolazione di colore.
In questa intervista (in inglese), Henry spiega come è nato il suo progetto di ricerca: