Dettagli molecolari e aspetti clinici
Quelle elencate sopra sono solo le prime di una lunga serie di osservazioni che saranno rese possibili dal fatto di aver alzato l'asticella della sopravvivenza
in vitro degli embrioni. La fase dell'impianto è uno dei passaggi critici che spesso porta al fallimento delle
tecniche di riproduzione assistita. Poter "fotografare" questo passaggio cruciale, quindi, potrebbe contribuire a migliorare notevolmente questa pratica clinica, oltre a favorire la
comprensione delle cause di aborti precoci e di altri problemi legati alle fasi iniziali della gravidanza. A livello molecolare, d'altra parte, le aspettative a lungo termine riguardano un
miglioramento della coltivazione delle cellule staminali e una conoscenza sempre maggiore del percorso che porta un piccolo mucchietto di cellule a differenziarsi nella moltitudine di tipi cellulari che compongono il nostro organismo.
Un limite da modificare?
Poter coltivare un embrione in laboratorio anche nella fase post-impianto porta con sé ovviamente dei
risvolti etici. Nella maggior parte dei Paesi che permettono la ricerca scientifica su embrioni umani (l'Italia non rientra fra questi) questa non si può protrarre per più di 14 giorni, momento nel quale compare la
stria primitiva, primo abbozzo di sistema nervoso. Questo limite imposto dalle
linee guida bioetiche era avvallato da un
reale limite "tecnico", in quanto gli embrioni
in vitro non potevano sopravvivere così a lungo. Ora che questo scoglio è stato superato, sostengono i ricercatori, è forse giunto il momento di rivedere questo limite al fine di trovare un giusto compromesso tra sensibilità etica e necessità da parte della ricerca scientifica di far luce su alcune patologie delle fasi iniziale di gestazione.
Immagine box di apertura: Gist Croft, Alessia Deglincerti, and Ali H. Brivanlou/The Rockefeller University
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