Non più uomini a setacciare a mano i letti dei fiumi del Klondlike, in Canada, per trovare pepite e polvere d'oro. Il futuro è nei batteri, assicurano microbiologi canadesi, i quali hanno scoperto una specie capace di produrre nanoparticelle del prezioso metallo, "filtrando" soluzioni acquose in cui l'oro è disciolto.
Buone notizie per i cercatori d’oro del terzo millennio. In un articolo pubblicato su Nature Chemical Biology un gruppo di microbiologi canadesi racconta le gesta di una specie batterica in grado di produrre nanoparticelle d’oro a partire da soluzioni acquose tossiche in cui sia disciolto il prezioso metallo. Una capacità, questa, scritta nei geni del batterio, che potrebbe essere utilizzato per purificare finemente le acque di scolo e rifiuto delle miniere. Facendo così gola a molti.
Quando ai batteri "piace" l'oro
La storia dei batteri setacciatori d'oro non è nuova nelle cronache scientifiche del settore. Nel 2009 un gruppo di scienziati guidati da Frank Reith, microbiologo ambientale dell’Università di Adelaide in Australia, si era reso conto che una specie batterica chiamata Cupriavidus metallidurans fosse in grado di sintetizzare, sottoforma di nanoparticelle, l’oro disciolto all’interno di particolari soluzioni. Dopo essere precipitato, il metallo finiva per trovarsi all’interno del batterio stesso, ben protetto dalla sua parete cellulare. Lo studio decennale condotto da Reith e colleghi non portò però alla comprensione dei meccanismi attraverso i quali la specie batterica riuscisse a “mettersi in cassaforte” tutto l’oro che le capitasse a tiro. Oggi sappiamo che Cupriavidus metallidurans non è l’unica specie batterica che ama impreziosire il proprio habitat.
Il nuovo Re Mida dei batteri si chiama Delftia acidovorans. Nathan Magarvey e il suo team lo hanno fatto crescere in una soluzione contenente oro e dopo qualche giorno hanno costatato che le colonie erano proliferate circondandosi di un alone di nanoparticelle del prezioso metallo. A differenza di C. metallidurans, che custodisce le sue nanopepite all’interno del proprio citoplasma, D. acidovorans ama costruirsi una specie di armatura dorata. Analizzando il genoma della specie batterica, i ricercatori canadesi hanno individuato un set di geni al quale si deve la produzione di un metabolita responsabile della precipitazione dell’oro presente nella soluzione. Lo hanno poi isolato e gli hanno dato anche un nome: delftibattina. Per avere la prova del nove, i microbiologi hanno poi modificato geneticamente il batterio bloccando i geni coinvolti nella produzione del metabolita. Risultato: proliferazione della colonia assente e soprattutto nessuna traccia di nanoparticelle d’oro sulla piastra di Petri. Sebbene da oltreoceano facciano sapere che la ricerca è solo all’inizio, secondo Magarvey Delftia acidovorans si libera dell’oro presente nella soluzione facendolo precipitare per impedire al metallo di penetrare all'interno del suo citoplasma.
Batteri preziosi
«La delftibattina potrebbe essere utilizzata», spiega Magarvey, «come catalizzatore per la produzione di nanoparticelle d’oro in svariate reazioni chimiche oppure essere impiegata nei liquidi di rifiuto delle miniere per far precipitare quantità d’oro che andrebbero irrimediabilmente perse». Se il batterio riuscirà a produrre vere e proprie pepite macroscopiche, quando lo lasceranno agire per lunghi periodi, lo sapremo solo dalle ricerche dei prossimi mesi. Tra il serio e il faceto infatti Magarvey dice che «sarebbe bello poter affermare che ogni giorno in Canada si producono chili d’oro!» Scherza il microbiologo canadese, ma intanto, per andar sul sicuro, si è assicurato la proprietà intellettuale della produzione di delftibattina.