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Film: In Time

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Il tempo è danaro
Nel 2161 grazie una modificazione genetica le persone non invecchiano più: una volta raggiunti i 25 anni, guardandosi allo specchio vedono l’aspetto che avranno per il resto della vita. Quanto sarà il tempo che rimane, però, è il mercato a deciderlo. Infatti alla data fatidica scatta il conto alla rovescia: ognuno ha a disposizione un anno, 525.948.766 minuti, ma in questo futuro il tempo che si ha da vivere è realmente danaro, moneta di scambio. Volete comprare un biglietto dell’autobus? Due ore, prego. L’affitto? Una settimana, grazie.

Le persone sono pagate in tempo, il tempo può essere investito, contrattato, rubato, ma può essere anche donato. La cosa però non accade molto spesso, specialmente nelle «zone orarie» più povere, dove si vive, letteralmente, alla giornata, e una volta che il proprio «orologio», che sull’avambraccio segna a cubitali cifre verdi il tempo che rimane, si azzera, non c’è modo di tornare indietro.

Nella zona oraria a cui appartiene la città di Dayton, dove vive Will Salas (il protagonista, interpretato da Justin Timberlake) si muore per strada cercando disperatamente qualcuno che possa regalare un minuto in più, ma la solidarietà è di fatto inesistente: l’importante è correre, guardarsi le spalle, e pensare agli affari propri.

L’orologio di Will Salas

Il danaro è tempo
Situazione opposta accade a New Greenwich (ovvio riferimento al famoso meridiano), la zona oraria più ricca: lì vivono centenari, con millenni da spendere e si possono permettere di giocare a poker secoli come se fossero noccioline. Non hanno bisogno di guardare continuamente l’orologio: eternamente giovani e potenzialmente immortali, la sola cosa che li può uccidere è un incidente. Un corpo di polizia, i Custodi del Tempo, si assicura che le cose continuino in questo modo, sorvegliando accuratamente gli spostamenti di tempo tra una zona oraria e l’altra. Una situazione iniqua che il «cattivo» di turno, il magnate Philippe Weis (Vincent Kartheiser) definisce «capitalismo darwiniano»: i più forti, cioè quelli con più tempo, sopravvivono. E su un pianeta con risorse limitate, solo pochi sono veramente immortali, la maggior parte deve soccombere. Will, con l’aiuto della figlia di Weis, Sylvia (Amanda Seyfried), cercherà di mettere in crisi il sistema.

Le voragini nella trama (la questione della manipolazione genetica su scala globale non è mai chiarita) e la sceneggiatura ingenua, che si sforza di richiamare l’attuale crisi economica sull’onda del movimento Occupy, hanno rovinato un’idea che, sulla carta, sembrava molto promettente (anche se, nonostante le stroncature, è stato un successo al botteghino), ma vale comunque la pena di evidenziare un paio di concetti interessanti.

Il più forte o il più adatto?
L’affermazione implicita secondo la quale, stando alla teoria dell’evoluzione, sopravvive «il più forte» è totalmente errata: infatti, secondo la semplificazione della selezione naturale operata non da Darwin, ma da Herber Spencer, sopravvive «il più adatto», e in questo senso si intende il più adattato a quel particolare ambiente in un determinato periodo storico. E se le condizioni cambiano, persino i più adattati possono trovarsi svantaggiati e precipitare verso l’estinzione. Tuttavia, anche l’espressione «survival of the fittest» è piuttosto inaccurata se utilizzata, come spesso avviene, al di fuori della metafora (anche Darwin la utilizzò). Suggerisce comunque che sia, in un certo senso, il migliore a prevalere. Darwin e la sua teoria pilastro della biologia sono antitetiche a questa visione, che è piuttosto un’espressione di darwinismo sociale, corrente di pensiero della quale Spencer (più filosofo e sociologo che biologo) è stato tra i fondatori.

L’evoluzione, in estrema sintesi, è questione di informazioni: se si vuole parlare per forza di vincitori, vincono i geni che riescono a moltiplicarsi di più, cioè quelli che conferiscono agli organismi i mezzi per sopravvivere e riprodursi, passando quindi alla discendenza le loro copie. In una situazione come questa, può sembrare impossibile che si sviluppi l’altruismo, comportamento che nel futuro distopico del film sembra infatti essere quasi scomparso ma che, invece, è diffuso in molte specie. Dal punto di vista biologico, un comportamento altruista infatti diminuisce la fitness di chi lo compie e l’aumenta in chi la riceve. L’esempio estremo è dato dagli insetti sociali: migliaia di individui sterili cooperano alla sopravvivenza dei pochissimi reali, gli unici che si possono riprodurre. 

L’enigma si scioglie se si considera che tutte le operaie di un termitaio sono sorelle e sorellastre, tutte imparentate coi reali: lavorando per loro in realtà stanno lavorando per i geni di tutta colonia, compresi i propri. In tutte le specie l’altruismo è spiegato infatti dalla selezione di parentela: il comportamento altruista diretto verso i famigliari può diffondersi nella specie perché l’aiuto si traduce in un aumento della fitness dei geni in comune tra il ricevente e il beneficiario. 

Donare tempo
Come si spiega allora l’altruismo quando è diretto verso sconosciuti? Diversi studi hanno evidenziato come anche nella nostra specie è innegabile che l’altruismo tenda a essere decisamente più forte tanto più stretta è la parentela, eppure sappiamo bene che ci sono persone che arrivano anche a sacrificarsi per gli altri, proprio come accade nel film, dove il generoso protagonista, che vive con non più di 24 ore di credito al giorno, è pronto a donare tempo a chi vede in condizioni più difficili della sua.

Come è possibile in termini naturalistici? Con l’uomo è necessario aggiungere all’equazione l’evoluzione culturale, fortemente intrecciata alla nostra biologia, e diventano anche estremamente rilevanti meccanismi come l’empatia, che appartengono alle cosiddette «funzioni superiori» della mente: forse l’empatia in un certo senso ci spinge verso l’altruismo «genuino» perché non può distinguere tra un parente e uno sconosciuto, cioè è una sorta di «effetto collaterale» della selezione di parentela in un mondo dove i gruppi umani non vivono più in tribù di poche decine di individui ma in città con con milioni di abitanti.

Grazie a studi interdisciplinari stiamo ora cominciando, in continuità con Darwin, a dare una spiegazione naturalistica persino al nostro senso morale, ma siamo ancora lontani da afferrare appieno l’essenza dell’umanità. Quello che è certo è che chiunque cerchi nella natura, e nella logica evolutiva in particolare, una comoda risposta al divario sociale e una giustificazione nell’applicazione di un qualsiasi sistema economico da definire «severo ma giusto», sta perdendo il suo tempo...

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