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La resa della barriera emato-encefalica

La barriera emato-encefalica isola il nostro cervello da sostanze dannose e pericolosi patogeni, ma anche da farmaci utili contro malattie neurologiche. Un nuovo studio ha trovato il modo di raggirarla.
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La barriera emato-encefalica isola il nostro cervello da sostanze dannose e pericolosi patogeni, ma anche da farmaci utili contro malattie neurologiche. Un nuovo studio ha trovato il modo di raggirarla.

 

C’è una barriera difensiva che protegge il nostro cervello. Come un implacabile buttafuori, impedisce a sostanze estranee e agenti patogeni presenti nel sangue di entrare nei tessuti cerebrali, e di fare danni. È la barriera emato-encefalica (dal greco aímatos, sangue e en kefalé, nella testa), costituita dalle particolari cellule endoteliali che formano i vasi sanguigni più minuti del cervello, i capillari. In altre parti del corpo, fra queste cellule esistono piccoli spazi che consentono a molte sostanze di muoversi facilmente attraverso la parete dei capillari. Nel cervello, invece, le cellule endoteliali sono strettamente addossate le une alle altre, perciò le molecole troppo grosse, o troppo cariche, o poco solubili nei lipidi, non possono attraversare la parete capillare. La barriera è rafforzata dalle proiezioni degli astrociti, chiamate peduncoli astrocitari, che circondano le cellule endoteliali. Soltanto le molecole essenziali come amminoacidi, ossigeno e acqua ottengono un "pass" per accedere al cervello, e il glucosio può entrare unicamente scortato, grazie a un trasporto attivo mediato da proteine.
 

La barriera emato-encefalica di un capillare, formata dalle cellule endoteliali e dai prolungamenti degli astrociti (Immagine: Wikimedia Commons)

 

Un assedio durato oltre un secolo
Questo servizio di sicurezza è così efficace che diventa problematico fornire farmaci al cervello per trattare patologie neurologiche come le malattie di Parkinson e di Alzheimer, la sclerosi multipla e il cancro. Da tantissimi anni, le compagnie farmaceutiche escogitano sistemi per superare le difese e curare i pazienti, ma con scarsi risultati. Alcuni farmaci, per esempio, sono stati modificati per legarsi a particolari recettori ed essere trasportati a cavalcioni di molecole che possono superare la barriera emato-encefalica, ma questa operazione ne riduce l’efficacia. 

Un risultato più promettente è stato ottenuto nel 2011, quando si è scoperto che l’adenosina (un costituente del DNA usato anche come farmaco) è in grado di legarsi a recettori delle cellule endoteliali e di aprire un cancello per far entrare grosse molecole come destrani (polimeri di glucosio) e soprattutto anticorpi. In particolare, usando topi transgenici, i ricercatori sono riusciti a rilasciare attraverso la barriera un anticorpo anti-beta-amiloide, in grado cioè di legarsi alla famigerata proteina beta-amiloide, responsabile della formazione di placche che causano la distruzione dei neuroni nel morbo di Alzheimer. 

Malattie da accumulo lisosomiale
L’ultimo tentativo di penetrare la temibile barriera emato-encefalica è stato compiuto con successo da ricercatori del Centro medico dell'ospedale pediatrico di Cincinnati (Cincinnati Children's Hospital Medical Center), che l’hanno descritto sulla rivista PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences). In questo caso, l’obiettivo era il trattamento della mucopolisaccaridosi di tipo 1 (MPS I), che fa parte dell’ampio ed eterogeneo gruppo di patologie da accumulo lisosomiale (LSD). Si tratta di malattie metaboliche ereditarie causate da mutazioni di geni che codificano per enzimi, proteine integrali di membrana e proteine di trasporto localizzate sui lisosomi. 
 

Il Cincinnati Children's Hospital Medical Center (immagine: http://cancerbiology.uc.edu/content/childrens-hospital-partnership)

 

I lisosomi sono organelli subcellulari paragonabili a un’impresa di pulizie di cui la cellula si avvale per liberarsi dai rifiuti e preservare le proprie funzioni. Sono responsabili, infatti, della digestione e degradazione di una vasta gamma di molecole complesse prodotte dalla cellula o particelle inglobate (endocitate) dall’esterno, come virus e batteri, ma anche della rimozione selettiva di altri organelli cellulari danneggiati.
 
Nelle malattie da accumulo lisosomiale, mancano gli enzimi necessari per ripulire a dovere questa spazzatura cellulare, che finisce per accumularsi nella cellula, compromettendone le funzioni.  Nella MPS I, in particolare, l’assenza dell’enzima IDUA (alfa-L-iduronidasi) consente l’accumulo anomalo di un gruppo di grandi molecole chiamate glicosaminoglicani (o mucopolisaccaridi) nel cervello e in altri organi. La sua forma più grave, nota come sindrome di Hurler, può provocare idrocefalia, diversi deficit cognitivi, deformità scheletriche tra cui nanismo disarmonico e, nei pazienti non curati, spesso anche la morte entro i 10 anni di età. 
 
Il cavallo di Troia
La nuova procedura terapeutica, messa a punto dai ricercatori, prevede di fornire l’enzima IDUA mancante alle cellule cerebrali malate. Per farlo, gli scienziati hanno dovuto progettare un sistema efficace per consentirgli di oltrepassare la barriera emato-encefalica. L’idea vincente è stata quella di ingegnerizzare IDUA in modo che esprimesse componenti dell’apolipoproteina E (apoE), una proteina grassa che si lega a specifici recettori sulle cellule endoteliali che formano la superficie interna dei capillari nella barriera emato-encefalica. Due sue varianti, chiamate IDUAe1 e IDUAe2 sono state sperimentate su cellule umane coltivate in laboratorio e su modelli murini di MPS I. Così mascherato, l’enzima terapeutico è riuscito in un’impresa finora impossibile per gli enzimi non modificati: sfuggire ai controlli e raggiungere i neuroni e gli astrociti malati in modo proporzionale alla dose. 
 

Uno schema della barriera emato-encefalica (Immagine: Wikimedia Commons)
 

I ricercatori riferiscono anche che le cellule cerebrali dei topi trattati presentano livelli normalizzati di glicosaminoglicani e dell’enzima lisosomiale beta-esosaminidasi. Inoltre, prolungando il trattamento con terapia genica tramite cellule staminali ematopoietiche, i valori normalizzati sono durati fino al termine di un periodo di osservazione di cinque mesi.

Gli scienziati continueranno gli studi preclinici, consapevoli che il passaggio da un modello animale a pazienti umani comporterà nuove sfide. Ma sono fiduciosi che il loro cavallo di Troia, caricato con diversi agenti neuroterapeutici, riuscirà ancora a scavalcare la barriera emato-encefalica per curare altre malattie del cervello come Parkinson e Alzheimer.

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