Una volta programmata per una certa identità e funzione, è difficile che una cellula torni indietro. Il caso più emblematico è quello dei neuroni del sistema nervoso centrale. Un nuovo studio sfata questo dogma, dimostrando che in certe condizioni anche un neurone può, di fatto, "cambiare idea".
Una volta programmata verso l’acquisizione di una certa identità e funzione, è difficile che una cellula torni indietro. Il caso più emblematico è quello dei neuroni del sistema nervoso centrale: le caratteristiche di queste cellule vengono definite molto precocemente durante lo sviluppo e la possibilità dei neuroni di cambiare specializzazione è sempre stata ritenuta impossibile. Almeno fino ad oggi: un studio dello Stem Cell and Regenerative Biology Center dell'Università di Harvard dimostra che un cambio di funzione è possibile anche in un cervello già formato e che un neurone può, di fatto, trasformarsi in un altro.
Differenziamento neuronale: non è detta l’ultima parola
Quello della maturazione delle cellule in entità con precise funzioni all’interno di un tessuto è un percorso che scende lungo uno scivolo ripido: impossibile tornare indietro. Non a caso, questo processo viene spesso definito come “differenziamento terminale”.
Quello dei neuroni del sistema nervoso centrale è il più classico degli esempi. Prendete un qualsiasi libro di fisiologia e troverete scritto che i neuroni sono cellule differenziate in modo stabile ed irreversibile e che la generazione di nuovi neuroni subisce un blocco irreversibile alle primissime settimane di vita. In altre parole, non avremo mai più neuroni di quelli con cui siamo nati, vista l’impossibilità di generarne di nuovi.
Lo studio pubblicato sulle pagine di Nature Cell Biology da Caroline Rouaux e Paola Arlotta va in parte a scalfire questo dogma della biologia: secondo le ricercatrici di Harvard «il cervello non è così immutabile come pensavamo: esiste una piccola finestra temporale all’interno della quale è ancora possibile riprogrammare un neurone in un altro».
L’avventura della riprogrammazione cellulare
Uno dei massimi successi nella riprogrammazione cellulare si è avuto con le cellule iPS (induced Pluripotent Stem cells), la cui scoperta è valsa nel 2012 il premio Nobel allo scienziato giapponese Shinya Yamanaka, come abbiamo raccontato anche nel nostro Speciale sui Premi Nobel 2012. Partendo da cellule già differenziate, è possibile – attraverso l’espressione di particolari geni – riprogrammare cellule adulte e riportarle ad uno stadio più precoce, quello appunto di pluripotenza. Ma non sempre è necessario spingersi così indietro nel differenziamento. La cura di certe patologie, come ad esempio le malattie neurodegenerative, può passare anche attraverso riprogrammazioni più blande: ad esempio, istruendo un neurone a fare appena un passo indietro e riprogrammare il proprio navigatore GPS differenziativo verso una meta poco più distante.
Come convincere i neuroni a cambiare idea?
Per convincere i neuroni a cambiare idea, le ricercatrici di Harvard hanno utilizzato il gene Fezf2. Questo gene codifica per un fattore di trascrizione, vale a dire una proteina in grado di controllare l’espressione di altri geni. Tra i geni controllati da Fezf2 ve ne sono diversi importanti per lo sviluppo embrionale di neuroni cortico-spinali: questo ha reso Fezf2 il candidato ottimale per controllare il destino di un neurone.
In particolare, le ricercatrici hanno preso neuroni del corpo calloso, la struttura che mette in collegamento i due emisferi del cervello, e proprio grazie all’espressione di Fezf2 li hanno trasformati in neuroni con caratteristiche simili a quelle dei neuroni motori corticospinali.
Già questo basterebbe a rendere la scoperta sensazionale. Ma c’è di più. La riprogrammazione di un neurone in un altro non è stata ottenuta semplicemente in cellule coltivate in vitro in una piastra Petri, ma direttamente in topolini vivi, facendo intravedere la possibilità di un’applicazione terapeutica futura.
Quando i neuroni muoiono: le malattie neurodegenerative
Molto dell’entusiasmo legato a questa scoperta è dovuto al tipo di neuroni ottenuti dalla riprogrammazione. I neuroni cortico-spinali sono infatti una delle due popolazioni di cellule distrutte da una delle malattie neurodegenerative più aggressive, la Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA). «In molte malattie neurodegenerative» spiega Paola Arlotta «sono solo alcuni specifici tipi di neuroni a venire distrutti, mentre altri rimangono del tutto sani». Ad esempio, nella SLA sono i neuroni motori cortico-spinali nel cervello e i neuroni motori del midollo spinale a venire colpiti in modo selettivo. Ed è proprio qui che l’idea della riprogrammazione entra in gioco: «E se fossimo in grado di prendere i neuroni che sono stati preservati dalla malattia e convertirli nel tipo di neuroni che è andato scomparendo?» continua la ricercatrice. «Nella SLA, anche la generazione di una piccola percentuale di neuroni motori cortico-spinali sarebbe probabilmente sufficiente ad un recupero delle funzioni perdute».
Riprogrammazione neuronale: il primo passo di un viaggio ancora lungo
La sfida rimane ora cercare di applicare lo stesso sistema di riprogrammazione anche ad altri tipi di neuroni e soprattutto verificare che anche i neuroni umani rispondano allo stesso modo. Ma il punto davvero cruciale rimane il "fattore tempo": dopo che un neurone è giunto a maturazione terminale, quanto tempo abbiamo a disposizione per invertire la rotta e riconvertirlo in un altro neurone? Quando diventa impossibile risalire lo scivolo del differenziamento? In questo studio, gli esperimenti sono stati infatti condotti su topi neonati, uno stadio in cui i neuroni, seppure già differenziati in modo definitivo, potrebbero essere più sensibili ad un’inversione di rotta rispetto a neuroni di un individuo adulto, in cui il programma differenziativo si è ormai sedimentato da anni. Le malattie neurodegenerative colpiscono soprattutto le persone adulte: perché i neuroni trasformisti possano avere anche una minima possibilità di impiego terapeutico sarà indispensabile rispondere a queste domande.