La microscopia crioelettronica ha aumentato la risoluzione con cui è possibile studiare le molecole (Immagine: Nobelprize.org).
Guardare le biomolecole per scoprirne la funzione
Conoscere la struttura tridimensionale delle biomolecole è il lasciapassare per capire la loro funzione. Questo è vero soprattutto nel caso delle proteine, la cui conformazione 3D è spesso un indizio della loro capacità di interagire con altre proteine o con il DNA, della loro localizzazione all’interno della membrana oppure della capacità di catalizzare reazioni enzimatiche. Questo tipo di indagine è però molto difficile: non solo per le dimensioni delle molecole, dell’ordine dei nanometri, ma anche per la delicatezza con cui i campioni devono essere preparati per evitare artefatti.La lunga strada verso l'imaging 3D delle molecole della vita
Deluso dalla scarsa flessibilità della cristallografia ai raggi-X, Richard Henderson fu tra i primi a testare l’uso del microscopio elettronico per lo studio di una proteina di membrana e nel 1975 pubblicò la ricostruzione della struttura della batteriorodopsina. Un’immagine notevole per quei tempi, ma ancora troppo acerba per svelare la struttura nei minimi dettagli. Nel frattempo, dall’altra parte dell’oceano Joachim Frank stava lavorando da anni a un sistema per ricostruire la struttura 3D di una molecola partendo dalle immagini bidimensionali al microscopio. Dopo anni di tentativi, Frank riuscì a mettere a punto un sistema computazionale in grado di farlo: le prime basi della microscopia crioelettronica erano state poste. I problemi tecnici di lavorazione dei campioni però erano tutt'altro che risolti. E qui entra in gioco Jacques Dubochet che alla fine degli anni Settanta trovò il modo per evitare che i campioni biologici venissero danneggiati quando esposti al vuoto del microscopio elettronico. La soluzione era raffreddare i campioni in modo così veloce da far assumere all'acqua uno stato vetroso. La vitrificazione permetteva di risolvere due problemi: innanzitutto, evitava la formazione di cristalli di ghiaccio, deleteri per le cellule e i tessuti; in secondo luogo, consentiva al fascio di elettroni di attraversare il campione senza intralci e quindi senza creare artefatti difficili da interpretare. Nel 1984, Jacques Dubochet pubblicò finalmente le prime immagini delle sue scoperte: un’affascinante fotografia di diversi virus, la cui forma rotondeggiante o esagonale era ben visibile sullo sfondo uniforme e pulito dell’acqua vitrificata. Da quel momento Dubochet è diventato un punto di riferimento per la microscopia crioelettronica, detta anche cry-EM.
Alcune delle proteine di cui la microscopia crioelettronica ha permesso di identificare la struttura: (a) uno dei complessi proteici che regola il ritmo circadiano, (b) un sensore di pressione dell'apparato uditivo, (c) il virus Zika (Immagine: Nobelprize.org).
Indagini biochimiche a tempo di record
Le ricadute pratiche più importanti della cry-EM sono oggi sotto gli occhi di tutta la comunità scientifica: aumentare la qualità dell’imaging molecolare permette infatti di accelerare i tempi delle indagini biochimiche e di indirizzare la ricerca verso gli obiettivi più promettenti. Un esempio di queste applicazioni arriva dal virus Zika, che nel 2016 ha causato in Brasile una grave epidemia di encefalopatia nei neonati. Appena pochi mesi dopo l'aggravarsi dell'epidemia, grazie alla microscopia crioelettronica i ricercatori hanno ricostruito in dettaglio la struttura 3D del virus Zika e hanno identificato a tempo di record i bersagli molecolari da colpire con nuovi farmaci.
Per chi volesse sapere qualcosa di più sulle tappe che hanno portato allo sviluppo della microscopia crioelettronica, sul sito Nobelprize.org è disponibile un file di approfondimento, scaricabile liberamente da questo link.
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