Lo sversamento di petrolio dalla piattafroma petrolifera Deep Water Horizon nel Golfo del Messico è stato fin da subito considerato uno dei più grossi disastri ambientali causati da incidenti di questo tipo. Continuano a susseguirsi le ricerche sulla quantificazione dei danni, con risultati poco rassicuranti.
Tra pochi giorni, il 20 aprile, ricorre un anniversario, ma c'è poco festeggiare. Due anni fa un incidente (secondo le ricostruzioni, in gran parte evitabile) a bordo della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon di proprietà della British Petroleum, oltre a uccidere undici persone e a ferirne diciassette, dà il via a uno sversamento di petrolio nel Golfo del Messico che terminerà solo a fine luglio dello stesso anno con l'installazione di un tappo di cemento. A fine settembre verrano poi dichiarati conclusi i lavori di messa in sicurezza.
Nel frattempo però si stima che siano usciti 4.9 milioni di barili di petrolio (780 milioni di litri), e va alla Deepwater Horizon il triste primato dell'incidente più grave della storia delle piattaforme petrolifere.
Danno ambientale ancora da quantificare
Come da previsioni, il danno ambientale non si riduce solo alle coste imbrattate che, per breve tempo, furono protagoniste nei telegiornali: diversi gruppi di ricerca hanno già pubblicato diversi studi per quantificare la reale portata dell'incidente.
L'ultimo lavoro su Geophysical Research Letters, conferma di nuovo i timori: il petrolio della Deepwater è entrato, immediatamente, nelle reti trofiche dell'ecosistema.
Un team di quattordici ricercatori da quattro diverse istituzioni (University of Maryland Center for Environmental Science, Oregon State University, Georgia Institute of Technology, e U.S. Geological Survey) ha analizzato mesoplancton campionato tra agosto e settembre 2010, trovandovi tracce di idrocarburi policiclici aromatici (IPA), una classe tra le tante che compongono la miscela di composti che forma il petrolio.
Questo però non bastava a indicare come responsabile la piattaforma, poiché il plancton poteva aver assorbito i composti anche da altre fonti (gli IPA sono tra gli inquinanti organici più comuni). Così gli scienziati hanno analizzato anche le proporzioni relative tra i diversi IPA (in particolare fluorantene e pirene) in modo da ricavare una sorta di "firma" da confrontare con quella del petrolio della Deepwater. E le due firme corrispondono.
Inquinanti organici persistenti
Le implicazioni sono notevoli: gli IPA infatti sono riconosciuti come inquinanti organici persistenti (POPs, Persistent Organic Pollutants), e pertanto sono soggetti al processo di biomagnificazione: da un livello trofico all'altro queste sostanze si accumulano nei tessuti degli organismi (in particolare nei lipidi) e lì restano. Quindi, man mano che si sale nella piramide alimentare gli inquinanti nei tessuti raggiungono concentrazioni elevatissime, fino a diventare tossiche e, nel caso l'organismo sia utilizzato commercialmente (ad esempio pesce), questo può diventare anche un rischio diretto per la salute umana.
Il plancton del Golfo del Messico è quindi solo il primo gradino di una inevitabile scalata.