Che cosa rende i capelli della Venere di Botticelli così luminosi? Qual è il segreto del meraviglioso blu oltremare usato da Giotto per affrescare la Cappella degli Scrovegni? Che relazione c'è tra il diabete di Cézanne e il verde smeraldo (acetoarsenito di rame) usato nei suoi quadri? Come mai il celebre quadro Girasoli di Van Gogh, conservato nell’omonimo museo di Amsterdam, col tempo si è imbrunito, mentre la versione della National Gallery di Londra no?
Queste e molte altre curiosità sono contenute nel libro del chimico Adriano Zecchina Alchimie nell’arte. Dalle pitture rupestri del Paleolitico all’arte digitale contemporanea, l’autore ci accompagna in un viaggio affascinante alla scoperta dei materiali e delle tecniche usati dagli artisti nelle varie epoche. E ci fa riflettere sull’intreccio indissolubile che esiste tra qualità estetiche e aspetti scientifici della creatività. Arte e scienza, così lontane nell’immaginario comune, condividono infatti lo stesso metodo: ogni nuova scoperta mette in discussione le conoscenze precedenti, e apre così la strada a nuove sperimentazioni.
Fin dalle prime testimonianze artistiche, l’evoluzione delle tecniche e degli stili pittorici ha sempre marciato al passo con lo sviluppo delle conoscenze sui materiali. La storica dell’arte Anthea Callen ha scritto che «ogni opera d’arte è determinata in primo luogo e soprattutto dai materiali a disposizione dell’artista e dalla sua abilità nel manipolarli». Se gli artisti non avessero avuto a disposizione i minerali rari, le sostanze create dalla chimica del loro tempo e le tecniche per usarli al meglio, oggi non potremmo ammirare i loro capolavori.
Più di 30 000 anni fa gli umani usavano già pigmenti di colore rosso e ocra a base di ossidi del ferro, facilmente reperibili in natura, per decorare il corpo, i monili e le pareti delle grotte. Poi, con l’avanzare della civiltà e delle conoscenze alchemiche, i pigmenti inorganici e i coloranti organici si sono progressivamente evoluti e diversificati. La nascita della chimica moderna, nella metà del Settecento, ha arricchito la tavolozza dei pittori di un’incredibile varietà di tinte, capaci di rappresentare l’abbondanza cromatica del mondo reale e del loro immaginario. Grazie alla moderna sintesi chimica la struttura delle molecole può essere variata a piacere, attraverso un’opportuna progettazione, per ottenere pigmenti stabili praticamente di ogni colore.
Nel celebre dipinto Girasoli del Museo Van Gogh di Amsterdam (a sinistra), la presenza di impurità ha facilitato la degradazione del cromato di piombo per effetto della luce, provocando un imbrunimento del giallo. La stessa sorte non è toccata alla versione conservata alla National Gallery di Londra (a destra); probabilmente il pigmento giallo usato nei due casi proveniva da fornitori differenti e conteneva concentrazioni diverse di impurezze. Il cromato di piombo, molto amato dall'artista, ha un'elevata tossicità e potrebbe aver peggiorato i suoi problemi neurologici (Immagine: Wikimedia Commons).
Come ricorda l’autore, «l’assorbimento della luce (e quindi il colore che ne deriva) è un fenomeno quantistico, strettamente legato alla struttura atomica o molecolare dei singoli pigmenti. Emerge così un fatto che può apparire paradossale: i colori che rendono la natura tanto meravigliosa sono in realtà una manifestazione della meccanica dei quanti, una scienza considerata difficile e astrusa, ma che ha effetti così pervasivi e onnipresenti da determinare l’aspetto stesso del mondo che ci circonda.»
Dai pittori alchimisti ai pittori digitali
Anche se nelle botteghe rinascimentali i pittori-alchimisti macinavano e preparavano i propri colori, la maggior parte degli artisti sono rimasti per secoli del tutto ignari delle loro proprietà ottiche o chimiche, limitandosi ad apprezzarne il risultato estetico. Per non parlare dei rischi per la salute: nell’Ottocento, la disponibilità di pigmenti contenenti metalli pesanti già confezionati in tubetti, insieme al declino delle tradizionali "botteghe" dove il rischio era suddiviso tra più lavoranti, ha in realtà accresciuto l’esposizione degli artisti agli agenti tossici. A nulla è servita, da questo punto di vista, la diffusione delle nuove conoscenze scientifiche. Solo sul finire del secolo la sintesi dei primi pigmenti organici, che gradualmente si sono aggiunti a quelli inorganici e spesso li hanno sostituiti, ha ridotto fortemente il problema della tossicità.
Ma per quanto intuitivo o poco consapevole fosse il loro approccio, di sicuro gli artisti di ogni epoca hanno saputo cogliere al meglio ogni opportunità espressiva e ogni innovazione che la scienza forniva loro. Oggi il pittore digitale ha a disposizione strumenti del tutto nuovi: una tavolozza virtuale di milioni di colori, la possibilità di correggere gli errori senza ricominciare da capo e una varietà quasi infinita di effetti bi- e tridimensionali. Il processo creativo trova sempre nuove strade, anche quando tutte sembrano già esplorate.