I resti dei nostri progenitori, trovati nella grotta di Denisova nel 2008, continuano a fornire nuovi dettagli sulla loro storia e sul nostro albero genealogico. Grazie a una nuova e sofisticata tecnica di sequenziamento, la rilettura del genoma dei Denisova, con relativa datazione dei resti, apre nuovi dibattiti tra gli antropologi molecolari. Allo stesso tempo, uno studio apparso su Nature su fossili ritrovati in Kenya, scompagina le certezze tassonomiche finora raggiunte. Ripercorriamo allora le ultime importanti ricerche di antropologia molecolare e di paleoantropologia di questi ultimi mesi estivi.
Nel 2010 la scienza ha aggiunto un’altra fogliolina all’albero della famiglia umana. I poveri resti (un frammento di falangetta del mignolo e un molare) di due individui ominini trovati nel 2008 nella grotta di Denisova (tra i monti Altai, in Siberia), non sono stati certo un ostacolo per gli antropologi molecolari: oggi bastano infatti pochi frammenti per estrarre il DNA per distinguere una nuova forma umana e cominciare a ricostruire la sua storia. E il clima rigido della zona ne ha consentito una buona conservazione.
Non è ancora chiaro se si tratti o meno di una nuova specie, ma già dalle prime letture del genoma di DNA mitocondriale e di quello nucleare (pubblicate nel 2010 su Nature) era stato chiaro che, assieme ai Neanderthal e a Homo sapiens esisteva un’altra «tribù» nel paleolitico del Nord dell’Eurasia.
La ricerca sui resti di Denisova è proseguita e ora ne sappiamo molto di più: lo scorso agosto Science ha pubblicato una nuova versione del genoma nucleare.
I dati sono entusiasmanti per due motivi. Il primo é il modo con cui sono stati ottenuti: il genoma di un organismo vissuto decine di migliaia di anni fa, ricavato da pochi picogrammi estratti da un minuscolo frammento di mignolo (come si vede nella foto qui sopra) è estremamente dettagliata. Il coverage è infatti pari a 30 x, ovvero ogni nucleotide della sequenza è stato letto, in media, 30 volte. La precisione della sequenza ricavata è quindi paragonabile a quelle ottenibili da campioni attuali. La nuova tecnica sviluppata al Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology dal postdoc Matthias Meyer è in grado di amplificare il DNA per la lettura partendo da singoli filamenti della doppia elica.
"Un enorme vantaggio quando si lavora con DNA antico " - spiega l'antropologo John Hawks, che non ha partecipato alla ricerca e ha commentato nel suo blog la pubblicazione - "poiché danni nella sequenza spesso impediscono al DNA a doppio filamento di essere amplificato."
Poi ci sono i dati, e la loro interpretazione negli anni a venire sarà motivo di accesi dibattiti.
La «ragazza di Denisova», come viene soprannominato l’esemplare che ha «donato» il proprio DNA agli antropologi, risulta più strettamente imparentata ai Neanderthal, ma rispetto a questi, i Denisova avevano una variabilità genetica più bassa, segnale inequivocabile di una contrazione della popolazione (forse in seguito all’espandersi dei Sapiens?). Ciò che ha più stupito gli scienziati è stato che le popolazioni aborigene della Melanesia possiedono alte percentuali di DNA riconducibile ai denisoviani (fino al 6% negli indigeni della Nuova Guinea), mentre le attuali popolazioni asiatiche ne sono prive: com’è possibile che l’incrocio tra le due forme non abbia lasciato tracce proprio dove si assume provengano gli antichi colonizzatori dell’Oceania?
E ancora, per quale motivo i Denisova, come i loro fratelli Neanderthal, si sono estinti, escludendo quei geni che ancora sopravvivono in noi? Il team del Max Planck (anche se i risultati sono da prendere con le molle) ha notato che tra le peculiarità genetiche presenti negli esseri umani, ma assenti in Denisova-Neanderthal, ci sono geni implicati nello sviluppo del cervello.
Il genoma di Denisova è talmente dettagliato che, grazie ai principi dell’orologio molecolare, è stato possibile tentare una datazione: tra i 74.000 e gli 82.000 anni fa. Anche se l’incertezza è elevata, e in leggero conflitto con le inferenze archeologiche che proponevano 30.000-50.000 anni fa, è la prima volta che è possibile datare un fossile con mezzi molecolari.
Ma ci sarà ancora molto lavoro da fare prima che la comunità scientifica si possa esprimere in modo compatto, e sicuramente la nuova tecnica sarà presto utilizzata per analizzare più dettagliatamente gli altri paleo-DNA sinora in nostro possesso.
Una situazione simile, anche se in misura minore, si sta delineando nella paleoantropologia. Con una pubblicazione su Nature, nella quale spicca tra gli autori Louise N. Leakey, si annuncia una piccola rivoluzione tassonomica: come già molti sospettavano da tempo, nuovi fossili trovati in Kenya dimostrerebbero che, assieme a Homo erectus, esistevano almeno due specie di Homo nel Pleistocene dell’Africa orientale, e che quindi fossili prima attribuiti a H. habilis sarebbero ora da attribuire a questa nuova forma.
Purtroppo in ambito paleoantropologico non è possibile contare sul DNA e la tassonomia si basa esclusivamente su caratteri morfologici. Per alcuni studiosi i nuovi fossili presentati da Leakey e colleghi sono troppo pochi e frammentati per azzardare una nuova classificazione.
Il dibattito quindi prosegue. E come scrisse Darwin alla fine di L’Origine delle specie: "Luce si farà sull’origine dell’uomo e la sua storia. Forse nemmeno lui si aspettava così tanti colpi di scena".