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Th17 contro la testardaggine dello stafilococco

Combattere Staphylococcus aureus è difficile per la sua resistenza agli antibiotici. Sarebbe utile un vaccino, che ancora non c'è: che altre carte abbiamo da giocare?
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Combattere Staphylococcus aureus è difficile per la sua resistenza agli antibiotici. Sarebbe utile un vaccino, che ancora non c'è: che altre carte abbiamo da giocare?
 
Le prime avvisaglie di epidemia risalgono a più di un decennio fa, ma ci sono voluti anni perché la comunità scientifica accettasse l’evidenza: un nuovo ceppo di stafilococco era uscito dalle mura degli ospedali (dove in genere si riscontrano infezioni di questo tipo, chiamate in gergo infezioni nosocomiali) ed era in grado di infettare anche persone senza particolari problemi di salute.
 
 

S. aureus al microscopio elettronico: l'iimagine mette in risalto la carattristica forma a sfera dei singoli batteri (tipica del gruppo batterico dei cocchi) (Immagine: Wikimedia Commons)


Il responsabile di queste infezioni era un ceppo di Staphylococcus aureus resistente all’antibiotico meticillina, chiamato anche MRSA (dall’inglese methicillin-resistant Staphylococcus aureus). Lo sconcerto tra i medici fu notevole: questo tipo di infezioni si verifica di norma tra i pazienti che rimangono per molto tempo in ospedale. Il fatto che queste infezioni comparissero ora anche al di fuori dell’ambiente ospedaliero era un chiaro campanello d’allarme: da nosocomiali, le infezioni di MRSA si stavano forse trasformando in una vera epidemia?
 
S. aureus: amico o nemico?
Che S. aureus sia un batterio unico nel suo genere, gli scienziati lo hanno capito da tempo. Diversamente da altri patogeni, S. aureus è un batterio commensale: così vengono infatti chiamati i batteri che vivono a stretto contatto con l’uomo, come i batteri della flora intestinale. S. aureus si trova nella pelle e nelle prime vie aeree (narici) di quasi un terzo delle persone, senza comprometterne la salute. Questo significa che molti hanno già anticorpi contro S. aureus, proprio perché vivono a stretto contatto con esso. Sfortunatamente questo non è però sinonimo di garanzie e neppure gli individui che hanno già avuto infezioni di S. aureus sono protetti dal contrarne altre. In poche parole, è davvero difficile capire che cosa caratterizzi un individuo che sia «veramente» immune a S. aureus: una domanda tutt’altro che banale, proprio perché su questo si basa lo sviluppo di un vaccino davvero funzionante.
 
Proteggersi da S. aureus
Nei soli Stati Uniti, le stime parlano di circa quindicimila morti riconducibili ogni anno ad infezioni causate da MRSA. Un’epidemia a cui molte case farmaceutiche hanno rinunciato a far fronte: inutile investire nella creazione di nuovi antibiotici, vista la velocità con cui il ceppo è in grado di acquisire resistenze. A questo punto non rimane la strada dei vaccini. Nel caso di S. aureus, quella che devono affrontare gli scienziati è però una strada in salita. Numerosi sforzi sono infatti stati fatti in questo senso negli anni passati, con risultati purtroppo deludenti. La tecnica normalmente utilizzata nelle vaccinazioni consiste nell’introdurre nell’organismo umano un pezzettino dell’organismo patogeno (come, ad esempio, una proteina): questa viene riconosciuta dal nostro sistema immunitario come estranea e un esercito di anticorpi viene prodotto contro di essa, rendendoci «immuni» all’infezione. Questo approccio non ha tuttavia funzionato nel caso di S. aureus: un primo tentativo fatto alla fine degli anni Novanta fallì miseramente, quando ci si accorse che le persone vaccinate producevano anticorpi, ma questi non erano in grado di proteggerli dall’infezione. Neppure gli approcci che si basano sulla combinazione di diversi antigeni (o proteine) batteriche sembrano purtroppo in grado di dare risultati degni di nota.
 

Una coltura su agar di S. aureus (mmagine: Wikimedia Commons)

 
Cambiare strategia
L’impressione di alcuni immunologi è che, piuttosto che potenziare le vecchie strategie, sia necessario cambiare completamente approccio. Per farlo, è necessario coinvolgere altri protagonisti del sistema immunitario: fermarsi agli anticorpi non è più sufficiente. L'idea è quella di reclutare le cellule TH17, i linfociti responsabili della produzione di interleuchina-17, una proteina che gioca un ruolo fondamentale nell’innescare la miccia della risposta immunitaria. Queste cellule svolgono una funzione chiave nella memoria immunitaria, vale a dire la capacità del sistema immunitario di «ricordare» le infezioni a cui è andato incontro nel corso della vita e di evitare che ci ammaliamo una seconda volta della stessa malattia (sempre che l’agente patogeno non sia, nel frattempo, mutato).
 
La produzione di anticorpi è stata, da sempre, considerata il cardine delle memoria immunologica, ma la storia potrebbe essere più complicata di così. In particolare, i linfociti TH17 potrebbero essere proprio la chiave di volta – a lungo ignorata – che tiene in piedi l’immunità a S. aureus. Nel 2009, uno studio condotto nei topi ha dimostrato che un vaccino in grado di stimolare la produzione di interleuchina-17 può proteggere da infezioni di S. aureus e Candida albicans. Ora, la grande sfida è verificare se lo stesso meccanismo funziona anche nell’uomo, ma non solo. Un simile vaccino sarà in grado di proteggere da tutte le manifestazioni cliniche associate a S. aureus: polmonite, infezioni della pelle, ascessi? Fino a che punto un vaccino efficace potrà proteggere da MRSA, senza compromettere troppo la popolazione di batteri commensali che convive pacificamente con l’uomo? Di nuovo, per gli immunologi che lottano con MRSA la strada è tutta in salita, ma almeno sembrano essere usciti dal vicolo cieco in cui girovagavano da decenni.

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