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Mutazioni lasciate in eredità

Alcuni farmaci chemioterapici potrebbero indurre mutazioni anche nella progenie dei topi trattati. Quali le ricadute per il trattamento dei tumori nell’uomo?
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Alcuni farmaci chemioterapici potrebbero indurre mutazioni anche nella progenie dei topi trattati. Quali le ricadute per il trattamento dei tumori nell’uomo?
 
Gli effetti delle terapie anti-tumorali sul nostro DNA rappresentano per i ricercatori ancora un grosso punto interrogativo. Uno studio apparso sulla rivista PNAS dimostra, però, che alcuni farmaci chemioterapici potrebbero avere effetti che vanno oltre lo scopo per cui sono usati: talmente oltre, che le conseguenze potrebbero presentarsi persino nella progenie.
 
Un genoma in equilibrio instabile
Lo studio si è focalizzato su tre comuni farmaci chemioterapici: ciclofosfamide, mitomicina C e procarbazina. Quando somministrati ai topi, questi farmaci hanno prodotto mutazioni nel DNA delle loro cellule. L’effetto è quello di una destabilizzazione del genoma, i cui effetti si possono presentare molto tempo dopo l’esposizione al farmaco. In particolare, queste mutazioni hanno interessato anche oociti e spermatozoi, le cellule responsabili della trasmissione dell’informazione genetica alla progenie, come dimostrato dall’analisi del DNA dei figli di genitori esposti al farmaco. Questo risultato dimostra che è di fatto possibile la trasmissione di mutazioni indotte da un farmaco alle generazioni successive.
 

Ciclofosfamide, mitomicina C e procarbazina: questi i farmaci i cui effetti a lungo termine sul DNA sono stati studiati nel topo (Immagine: Wikimedia Commons)


Un effetto simile a quello descritto con i chemioterapici era già noto da tempo per un altro tipo di terapia antitumorale, la radioterapia. L’esposizione a radiazioni ionizzanti ha un potente effetto mutageno, che nel caso dei tumori ha proprio lo scopo di destabilizzare le cellule tumorali al punto da farle morire. La radioterapia viene tuttavia eseguita su aree limitate del corpo, in modo da focalizzare il più possibile la sua azione sul tumore, risparmiando (per quanto possibile) gli altri tessuti. Non è però così per la chemioterapia: il farmaco viene in genere somministrato per via sistemica (ad esempio, attraverso un’iniezione in vena): una volta entrato in circolo, il farmaco andrà a colpire le cellule tumorali, ma sarà purtroppo libero di agire anche sui tessuti sani o, peggio ancora, sugli organi riproduttivi.
 
Quali conseguenze per le terapie nell’uomo?
In casi come questo, è inevitabile chiedersi quali siano gli effetti a lungo termine per l’uomo. Gli stessi visti nei topolini e nella loro progenie? Yuri Dubrova, il genetista che ha guidato lo studio nei topi, invita alla cautela. Ci sono molti elementi che distinguono il decorso terapeutico nel topo e nell’uomo, così come le eventuali conseguenze. Innanzitutto, molte delle persone che vengono sottoposte a chemioterapia sono generalmente oltre l’età riproduttiva, mentre altri diventano purtroppo sterili proprio a causa del trattamento. C’è però un gruppo di pazienti che meriterebbe, in questo contesto, di essere seguito con attenzione: si tratta dei pazienti pediatrici, bambini che sono stati curati con farmaci chemioterapici quando molto piccoli ma che, una volta guariti e cresciuti, possono essere nelle condizioni di avere figli. Un recente studio epidemiologico sembra calmare almeno parte dei timori: in 4699 bambini esaminati (figli di persone curate con radioterapia o chemioterapia in età pediatrica), non c’è stato alcun aumento di difetti genetici alla nascita.
Anche la tempistica potrebbe giocare un ruolo nell’interpretazione dei risultati: nello studio di Dubrova i topi sono stati fatti riprodurre pochi mesi dopo l’esposizione al farmaco, cosa che normalmente non avviene nell’uomo. Già ora, viene consigliato ai pazienti di attendere almeno un anno dopo il termine delle terapie prima di tentare di avere figli, un intervallo di tempo che si dilata ancora di più nel caso di pazienti pediatrici.
 
Attenzione ai vicini: l’effetto bystander
Per ora, quindi, niente panico. Ma non c’è dubbio che il fenomeno mostrato nello studio di PNAS meriti di essere investigato a fondo, soprattutto perché gli effetti di radiazioni e farmaci sul nostro DNA potrebbero essere più vasti di quelli finora conosciuti. Va ricordata, in proposito, l’ipotesi dell’effetto bystander, secondo la quale non è solo la cellula colpita direttamente dal chemioterapico o dalla radiazione ionizzante a risentirne gli effetti. Le conseguenze si avvertirebbero anche nelle cellule vicine, molto probabilmente per effetto di molecole segnale liberate dalla cellula colpita.

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