Quella del fossile di Piltdown fu una delle più sensazionali truffe nella storia della scienza. Oggi, a distanza di un secolo, i falsi reperti verranno riesaminati per dare finalmente un nome al colpevole.
Doveva essere il ritrovamento più importante nella storia della paleontologia: l’anello mancante nella linea evolutiva che dai primati portava all’uomo. Doveva mostrare il momento preciso in cui elementi morfologici delle scimmie e dell’uomo erano coesistiti nella stessa persona, un nostro antenato vissuto nella piana di Piltdown, in Inghilterra, circa cinquecentomila anni fa. Doveva essere perfetto e lo era, anche troppo. Purtroppo per noi era anche una colossale truffa.
A distanza di un secolo, gli scienziati hanno riaperto le teche che contengono il cranio fossile di Piltdown e altri reperti sospetti. Sono stati tutti riconosciuti come falsi, ma oggi vengono studiati ancora una volta con uno scopo ben preciso: dare un nome, una volta per tutte, al truffatore che per anni ha tenuto in scacco schiere di antropologi e paleontologi.
L’uomo di Piltdown: la truffa del secolo
Quella dell’Uomo di Piltdown verrà per sempre ricordata come uno dei più grandi inganni nella storia della Paleontologia: una truffa architettata in modo così fine da prendere per il naso anche gli studiosi più eminenti. Era il Dicembre del 1912 – un secolo esatto fa – quando Arthur Smith Woodward (curatore della sezione di geologia del Natural History Museum di Londra) diede l’annuncio di una scoperta sensazionale ad opera di Charles Dawson, un collezionista e amateur dell’archeologia: il ritrovamento, insieme ad alcuni utensili e fossili di animali, i resti di un cranio in cui si potevano apprezzare la presenza di caratteristiche morfologiche sia umane che scimmiesche. La scatola cranica, la mandibola, la disposizione dei denti: tutto puntava ad indicare che si trattava del tanto cercato anello mancante tra la specie umana e i primati. Finalmente era stato portato alla luce e tutto il mondo lo poteva ammirare: Eoanthropas dawsoni (come venne ribattezzato in onore dello scopritore) era entrato ufficialmente nella storia.
Troppo bello per essere vero
Per quasi quarant’anni archeologi e antropologi credettero di avere davvero per le mani il tanto agognato anello mancante. Tuttavia, come sottolinea Chris Stringer del Natural History Museum di Londra nella ricostruzione che fa sulle pagine di Nature: «in ambito scientifico, se qualcosa sembra essere troppo bello per essere vero, forse lo è». E L’uomo di Piltdown era davvero troppo bello per essere vero.
Fin dal ritrovamento un piccolo gruppo di scienziati sollevò dubbi sull’autenticità dei reperti, ma la cosa rimase per lo più nell’ombra fino a quando non fu possibile analizzare i fossili con tecniche di datazione più precise. Solo allora la truffa emerse nella sua colossale grandezza: il cranio dell’uomo di Piltdown, che si pensava risalire a circa cinquecentomila anni fa, era in realtà un collage di reperti molto più recenti e, per di più, appartenenti a due specie diverse: la teca cranica era chiaramente umana, mentre la mandibola apparteneva ad un primate, con tutta probabilità un orango. I denti mostravano inoltre graffi microscopici, un chiaro indice del tentativo di manipolarli in modo da renderli più simili a denti umani. Finiva così la breve gloria del fossile di Piltdown: quello che doveva essere uno dei ritrovamenti paleontologici più importanti si rivelò essere niente più di una bella presa in giro.
Chi è stato? Si apre la caccia al truffatore
Possiamo quasi immaginare la scena: il gruppo di eminenti scienziati che, a quarant’anni dalla scoperta, solleva lo sguardo infuriato dai risultati delle ultime indagini e ha negli occhi la medesima domanda: «chi è stato?».
Nel corso degli anni diversi nomi si sono susseguiti sul banco degli imputati: da Arthur Smith Woodward (che non solo annunciò la scoperta, ma ne condivise anche la paternità) a Teilhard de Chardin, il prete che riportò alla luce un altro reperto rivelatosi poi falso (il “dente di Piltdown”). In alcune ricostruzioni si trova menzionato addirittura lo scrittore Sir Arthur Conan-Doyle (ricordate Sherlock Holmes?), che all’epoca viveva vicino alla zona dei ritrovamenti sospetti. Ma i dubbi maggiori si concentrano soprattutto su Charles Dawson, il collezionista che mai arrivò a ricoprire incarichi accademici (ma ai quali forse aspirava molto): colui che riportò alla luce non solo il cranio fossile dell’uomo di Piltdown, ma anche una serie di altri reperti rivelatasi poi falsi o misteriosamente scomparsi dopo l’annuncio del ritrovamento. Un’accusa che traspare anche dalle parole di Miles Russell, archeologo dellUniversità di Bournemouth e autore di un libro sulla truffa di Piltdown: «è ormai chiaro che nel corso della sua vita [Charles Dawson] mise in piedi 38 diversi ritrovamenti dubbi, tutti con lo scopo di impressionare curatori di musei e ottenere l’accesso a diverse società scientifiche». Tra le accuse rivolte a Dawson vi è quella di aver colorato artificialmente molti dei reperti falsi, in modo da renderli di colore simile a quello del terreno del ritrovamento. Ritrovamenti che, guarda caso, avvennero tutti nel raggio di 15 miglia dall’abitazione di Dawson.
Nonostante molti indizi puntino verso Dawson, gli esperti tuttavia ammettono che, a distanza di un secolo, una risposta chiara alla domanda "chi è stato?" ancora non c’è. Ecco il perché delle nuove indagini promosse dal Natural History Museum di Londra: scoprire una volta per tutte l’identità del truffatore e verificare se abbia agito da solo o con l’aiuto di complici.
Speranze nell'analisi del DNA
Le speranze di un chiarimento sono riposte nell’analisi del DNA dei frammenti ossei (per capire da quali specie siano stati ottenuti) e nella caratterizzazione dei coloranti utilizzati per falsificare i reperti. L’ipotesi è che se tutti i reperti falsi hanno un’origine comune a quella dell’uomo di Piltdown (nonostante siano stati rinvenuti da persone diverse), è molto probabile che dietro ci sia la mano di Dawson, il comune denominatore di tutti questi rinvenimenti sospetti. Forse non sapremo mai la verità in modo definitivo: è troppo tardi per una confessione scritta, ma almeno potremo scoprire se dietro alla truffa c’è un unico responsabile e assolvere quindi altri nomi dalle accuse. Il caso di Piltdown, ricorda Chris Stringer, rimarrà comunque un esempio dell’efficacia del metodo scientifico e della necessità di verificare tutte le scoperte. Il fossile di Piltdown era una truffa architettata in modo magistrale: era un reperto perfetto sotto ogni punto di vista ed era facile per tutti credere che fosse autentico. C’è voluto il dubbio di altri scienziati per rimettere in gioco tutto e dimostrare che quel cranio non era un reperto unico nel suo genere: era semplicemente un falso.
Le speranze di un chiarimento sono riposte nell’analisi del DNA dei frammenti ossei (per capire da quali specie siano stati ottenuti) e nella caratterizzazione dei coloranti utilizzati per falsificare i reperti. L’ipotesi è che se tutti i reperti falsi hanno un’origine comune a quella dell’uomo di Piltdown (nonostante siano stati rinvenuti da persone diverse), è molto probabile che dietro ci sia la mano di Dawson, il comune denominatore di tutti questi rinvenimenti sospetti. Forse non sapremo mai la verità in modo definitivo: è troppo tardi per una confessione scritta, ma almeno potremo scoprire se dietro alla truffa c’è un unico responsabile e assolvere quindi altri nomi dalle accuse. Il caso di Piltdown, ricorda Chris Stringer, rimarrà comunque un esempio dell’efficacia del metodo scientifico e della necessità di verificare tutte le scoperte. Il fossile di Piltdown era una truffa architettata in modo magistrale: era un reperto perfetto sotto ogni punto di vista ed era facile per tutti credere che fosse autentico. C’è voluto il dubbio di altri scienziati per rimettere in gioco tutto e dimostrare che quel cranio non era un reperto unico nel suo genere: era semplicemente un falso.