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Andar per funghi, andare a vita

Più vicini agli animali che alle piante, i funghi sono fondamentali per il mantenimento della vita sulla Terra. Due libri ci accompagnano alla scoperta di porcini, ovuli, prataioli e della natura in generale, in un mondo immerso negli odori del bosco e buono per la tavola, ma anche e soprattutto per l'anima.
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Vivo di sciocchezze, come un fanciullo Il male che sento mi si addice Eppure i miei pensieri, come germogli nel bosco, Crescono e danno fiori, là dove possono.

John Clare, L'involo

    Litt è un’antropologa malese. Ha sposato Eiolf e con lui vive da molti anni a Oslo, in Norvegia. Ma Eiolf si ammala gravemente e in breve tempo muore. Litt, incapace di intravedere la fine di quel dolore così intenso e devastante, si chiude completamente in sé stessa. Finché un giorno, pur di fare qualcosa, riesce a trovare la forza per iscriversi a un corso di micologia per principianti (dal greco mýkēs, ‘fungo’). Poco alla volta Litt esce da quell’invalidante luttuosa apatia e, obbligata a camminare nel bosco in cerca di funghi, ritrova se stessa e il piacere di stare nel mondo. Questi, in breve, i fatti e le premesse da cui prende le mosse il bel libro La via del bosco. Una storia di lutto, funghi e rinascita (Iperborea, 2019, 272 pp., euro 18,50, traduzione di Alessandro Storti) scritto da Long Litt Woon (1958). Autobiografia narrativa e scientifica insieme che alterna le pagine dedicate ai funghi alle pagine – con caratteri stampati in un diverso colore – dedicate alla morte del marito, al dolore, alle difficoltà di ricominciare una vita normale. Di facile e appagante lettura, è consigliato a chi ama i funghi, a chi ama la natura in generale, ma anche a chi ha subito un grave lutto, evento che purtroppo, prima o poi, colpisce tutti.    

Il regno dei funghi

Il caso vuole che siano proprio i funghi a costringere Litt a uscire da se stessa e dalla propria bolla di autocommiserazione e dolore. I funghi, che non sono “né carne né pesce”, cioè né piante né animali, anche se – sorprendentemente – sono più vicini agli animali… Fungi costituisce un regno a sé stante fra i sette regni esistenti oggi e raggruppa un numero imprecisato di specie (più di 800.000, con stime fino ai 3 milioni). Si va dagli organismi monocellulari, alle muffe, ai lieviti che usiamo per la panificazione, fino ad arrivare ai tartufi e soprattutto ai funghi mangerecci che amiamo ritrovarci nei risotti o nelle tagliatelle. Ciò che mangiamo però non è “il fungo”, bensì il corpo fruttifero del micelio, detto carpoforo, così come una mela non è un melo. Insomma, ciò che vediamo spuntare nel terreno fra le foglie in decomposizione è meno della punta dell’iceberg: la vita del micelio avviene soprattutto sottoterra, in una rete impressionante di ife, cioè di filamenti biancastri che costituiscono il corpo vegetativo, in relazione con altri organismi.  
Un'immagine delle ife che si diramano nel terreno
La loro scienza è la micologia e ci dice un po’ di cose interessanti, per esempio che:
  • I funghi non possono vivere da soli, hanno bisogno di altri organismi. Basti pensare ai funghi mangerecci che troviamo nel bosco, il cui micelio (composto dalle ife) è intimamente connesso con molti altri organismi, primi fra tutti gli apparati radicali delle piante (alimentazione eterotrofa). Da notare un curioso paradosso: i funghi possono anche essere nemici mortali degli alberi, se attaccano la parte aerea (vedi recensione al libro di Peter Wohlleben).
  • I funghi si riproducono tramite le spore, cioè cellule riproduttrici che germinando dai carpofori produrranno nuovi miceli (riproduzione sessuata).
  • Non sono costituiti da cellulosa e amido, ma da polisaccaridi come il glicogeno e da chitina (la stessa che compone l’esoscheletro degli insetti), il che, appunto, li rende più vicini agli animali che non alle piante.
 
I funghi che ho studiato sono stati piccoli luoghi di sosta che mi hanno dato ristoro e riposo, per poi spedirmi verso la prossima tappa di una viaggio di scoperta interiore. (…) I funghi mi hanno offerto prospettive inedite, anche nella costruzione di una nuova ragione di vita. Via via che mi si presentava un’immagine più strutturata del loro regno apparentemente incommensurabile, riuscivo allo stesso tempo a mettere più ordine nella baraonda delle mie emozioni. [p. 51-52]
  Fra i funghi protagonisti del libro ce ne sono alcuni che è decisamente meglio non toccare… ma soprattutto ci sono tutti i funghi che amiamo trovare nei nostri piatti. Per esempio il prezioso ovulo (Amanita caesarea, dai romani definito “cibo degli dei”), la spugnola, il gallinaccio, il prataiolo, la trombetta dei morti, il lattario, il prugnolo e naturalmente il “Re Boleto” o Boletus edulis, il porcino forse più buono e sicuramente più importante dal punto di vista commerciale.  
«Il porcino è molto pregiato. C’è chi lo considera il re dell’universo dei funghi mangerecci.» [p. 60]
   

Il bosco

La nuova intensa passione di Litt diventa un'àncora di salvezza dai danni dell’intenso dolore per la perdita subita, e successivamente assume valore in sé, fino a condurre l’autrice a superare il difficilissimo esame per diventare ispettore micologo. Studiarli, camminare nel bosco, cercare nel sottobosco con sguardo nuovo e concentrato, e intanto respirare i profumi e ascoltare i suoni della natura, salvano l’autrice dal baratro, cosa non banale che rende questo libro ancora più prezioso, visto il periodo difficile che abbiamo attraversato tutti a causa della pandemia di Covid-19, con il conseguente e netto incremento della mortalità rispetto allo stesso periodo 2015-2019 (vedi report Istat). Cercare funghi dunque obbliga a conoscere anche il bosco, inteso come complesso e affascinante insieme di organismi (viene in mente il bel libro di David Haskell che abbiamo recensito):  
Conoscere i buoni posti è utile, ma per aumentare le possibilità di un colpo di fortuna si può imparare quali alberi sono «simbionti» – «soci», per così dire – di certi funghi, dato che molti miceti instaurano con le piante un’associazione simbiotica, la cosiddetta «micorriza». (…) Quasi tutte le piante verdi hanno con i funghi un rapporto di scambio di sostanze nutritizie, nel quale il micete provvede all’80 per cento del loro fabbisogno di azoto. Dunque non è un’esagerazione affermare che questa simbiosi costituisce il presupposto della vita sulla Terra. [p. 65]
  In tutto questo andar per funghi in cerca di vita emerge anche l’importante concetto di «zona di flusso», che accomuna gli atleti di qualsiasi sport a chi pratica zen, ovvero «la massima concentrazione e l’attenzione su un unico punto», che «danno gioia e appagamento.» [p. 32]. «Ricominciare a sentire il mondo è stato come svegliarmi da un sonno di cent’anni. Percepire significa esserci.» [p. 184]    

Un esercizio difficile: descrivere gli odori

Oltre alla zona di flusso, questo libro ci avvicina anche alla zona dei chemorecettori olfattivi del nostro naso, cioè l’universo di odori che incontra chi deve annusare un fungo per riconoscerlo, poiché per l’identificazione sono necessari tutti i sensi, non solo la vista. Descrivere gli odori, però, è forse l’impresa più difficile per tutti noi che ci esprimiamo con le parole (dette o scritte, poco cambia), perché raramente esiste una parola specifica per descrivere un odore così com’è. Una palla può essere rossa, è abbastanza facile descriverla e immaginarla. Ma un porcino, come un Sangiovese… che odore ha? Come fare a descriverlo se non ricorrendo a una gamma di odori che con il porcino non hanno nulla a che fare? Questo aspetto occupa pagine molto interessanti del libro e ci fornisce l’idea per uno spunto didattico a cavallo tra italiano e scienze: tentare di descrivere in parole gli odori, magari dopo aver letto le pagine che vanno dalla 149 alla 167 di questo libro.  
La questione olfattiva mi tormentava. Trovavo assai più facile descrivere l’aspetto di un fungo, anziché il suo odore. Ho letto da qualche parte che la nostra percezione visiva è «sintetica», mentre quella olfattiva è «analitica». Questo significa che quando il nostro occhio coglie una somma di due segnali cromatici, uno blu e uno giallo, la interpreta come un segnale unico, che difatti indichiamo con una parola a sé («verde»). Quel che captiamo con il naso, invece, somiglia piuttosto a un mosaico: le varie componenti restano distinte. L’odore complessivo viene disaggregato e le sue parti minime vengono confrontate con lo «schedario olfattivo» che abbiamo nel cervello. [p. 154]
     

La cultura dei funghi

Nel mondo che l'autrice ci restituisce è importante anche la dimensione culturale, oltre a quella naturale, scientifica e culinaria, e ciò significa conoscere la comunità di fungaioli che si muove attorno a lei. Persone esperte capaci di insegnarle alcuni dei segreti custoditi più gelosamente, fino alla suprema prova di stima e fiducia che un fungaiolo potrà mai dare a un collega: condividere il proprio “posto segreto” dove raccogliere funghi, con la tacita promessa che l’ospite non utilizzerà mai più quel posto, né lo condividerà mai con altri. Fra gli insegnamenti trasmessi dagli esperti ai novellini come Litt, quello più importante: l’unico modo per sapere se un fungo è velenoso oppure no, è conoscerli tutti. Finché il cercatore di funghi non raggiungerà quel livello di conoscenza, la regola numero uno è: «Se non sei completamente sicuro della commestibilità di un fungo, non mangiarlo.» E se sei solo abbastanza sicuro, fai sempre controllare l’intero cestino agli esperti dell’ispettorato micologico delle AUSL presenti su tutto il territorio nazionale (qui, come esempio, quelli della provincia di Bologna).  
«Regola n. 4: Mai tenere funghi sconosciuti insieme ad altri di cui si è sicuri. Sarebbe un peccato dover buttare via tutto il cestino, se gli ispettori trovassero anche soltanto un esemplare letale in mezzo a tanti altri funghi mangerecci.» [p. 256]
 

Natura come cura

Grazie a La via del bosco viene in mente un altro ottimo libro, purtroppo fuori catalogo ma reperibile nel mercato online dei libri usati oppure in una delle 190 biblioteche pubbliche italiane che lo possiedono. Si tratta di Natura come cura. Un viaggio fuori dalla depressione (Einaudi, 2010, 243 pp., traduzione di Luigi Civalleri), dello scrittore naturalista britannico Richard Mabey (1941), del quale fra l’altro Zanichelli pubblicò nel 1990 L’enciclopedia delle erbe. Natura come cura è un libro straordinario e il suo senso è già tutto nel titolo: uccelli, insetti, mammiferi, erbe, alberi e tutto ciò che di naturale può venirvi in mente sono (anche) uno strumento preziosissimo per risollevarci. Qui ritroviamo per esempio Roger Deakin, la «biofilia» di E.O. Wilson, la depressione e soprattutto la presa di coscienza che «nel tentativo di capire chi siamo, facciamo ricorso di continuo al mondo naturale. La natura è la fonte più ricca di metafore con cui descrivere sentimenti e azioni umane» [p. 23]. E come fare per conoscere la natura? Con i libri, certo, ma soprattutto standoci dentro, nella «zona di flusso».  
L’idea di «natura come cura» è antica quanto la civiltà. Secondo i nostri antenati, esporsi all’aria salubre della campagna era sufficiente a «lavare via» ogni malanno. I romani dicevano solvitur ambulando, cioè «tutto si può risolvere (anche i problemi psicologici, aggiungo io) con una bella passeggiata». [p. 232]
  Quindi auguri a tutti per un’estate piena di letture e passeggiate appaganti. Arrivederci a settembre per nuove “pagine di scienza” e per un anno scolastico, si spera, migliore di quello appena concluso. Buona vacanze!
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