La comunità scientifica mondiale oggi non ha più dubbi: è in corso un cambiamento del clima terrestre caratterizzato da un riscaldamento globale dovuto all’aumento dell’effetto serra nell’atmosfera; questo aumento, a sua volta, è provocato dalle emissioni di gas-serra dovute alle attività umane.
I governi di tutto il mondo dichiarano di voler agire con urgenza per scongiurare le possibili conseguenze disastrose dell’emergenza climatica.
Le iniziative sul clima sono parte dell’impegno per il perseguimento di un obiettivo ancora più ambizioso, la sostenibilità dello sviluppo.
Ma che cosa si sta facendo in concreto, e che cosa occorre ancora fare?
I negoziati internazionali
Il problema del cambiamento climatico è, per sua natura, globale, perciò nessuna singola nazione può affrontarlo da sola: sono necessari accordi internazionali.
I negoziati per questi accordi si concentrano su due tipi di azioni: la mitigazione per ridurre l’entità del riscaldamento globale e l’adattamento per far fronte alle sue conseguenze che sono già inevitabili.
Nel 1992 a Rio de Janeiro, in Brasile, quasi tutti gli Stati del mondo hanno concordato di affrontare insieme il problema, creando la Convenzione delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico o UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change).
L’organismo che prende le decisioni è la COP (Conference of the Parties, cioè Conferenza dei partecipanti), che si riunisce ogni anno in una diversa città per valutare i progressi fatti e le nuove iniziative da intraprendere.
Nel 2015 la riunione COP 21 in Francia ha portato all’Accordo di Parigi, che mira a limitare l’aumento della temperatura media globale rispetto ai livelli preindustriali, così che resti al di sotto dei 2 °C (e idealmente intorno a 1,5 °C).
Questo trattato internazionale raccomanda di ridurre il più presto possibile le emissioni di gas-serra, però non impone limiti specifici, lasciando ai singoli Stati il compito di stabilirli.
Mitigare il cambiamento climatico = azzerare le emissioni
Se vogliamo sperare di riuscire a frenare il riscaldamento globale, dobbiamo per prima cosa smettere di aggiungere gas-serra all’atmosfera (e poi trovare il modo per rimuovere parte dei gas-serra che essa già contiene).
Tra i gas prodotti dalle nostre attività, quello maggiormente responsabile dell’aumento dell’effetto serra è l’anidride carbonica o CO2.
Il primo traguardo da raggiungere è allora la «neutralità del carbonio», detta in inglese anche net-zero carbon: le nostre emissioni non dovranno superare la quantità di CO2 che viene assorbita dagli oceani e dalle piante.
L’Unione Europea ha deciso di fare da apripista impegnandosi con un Green Deal («Patto verde») che prevede due obiettivi precisi: una riduzione delle emissioni del 55% rispetto al 1990 entro il 2030, poi l’azzeramento delle emissioni nette entro il 2050.
Se questi obiettivi saranno raggiunti e se il resto del mondo seguirà la stessa strada, nella seconda metà del secolo si raggiungerà un equilibrio tra le emissioni antropogeniche di gas-serra e il loro assorbimento da parte dell’ambiente.
L’effetto serra allora cesserà di aumentare e ci si potrà concentrare sulle azioni dette climate-positive (o carbon-negative): la rimozione di CO2 dall’atmosfera per invertire il riscaldamento globale.
Da dove vengono le emissioni di gas-serra?
Come mostra il grafico seguente, le nostre emissioni di CO2 sono più che raddoppiate negli ultimi 50 anni e il loro aumento non mostra segni di rallentamento: sembra dunque, purtroppo, che ci stiamo avviando verso gli scenari futuri più pessimistici tra quelli esaminati dall’IPCC.
Il bordo superiore del grafico rappresenta il totale delle emissioni; l’area sottostante è suddivisa nei contributi parziali delle singole nazioni o aree geopolitiche.
Per identificare l’evoluzione nel tempo delle emissioni di una singola nazione, nel grafico bisogna osservare come cambia da sinistra verso destra lo spessore verticale della corrispondente area colorata.
Così, per esempio:
- tra il 1990 e il 2020 le emissioni europee sono diminuite del 25% circa;
- questa riduzione locale però ha ben poco effetto sul dato globale, che nello stesso periodo registra un aumento del 50% circa;
- sempre nel periodo 1990-2020 le emissioni degli USA sono rimaste pressoché costanti, mentre sono aumentate di quasi 3 volte quelle dei Paesi asiatici.
A prima vista i dati sembrano indicare che la Cina sia oggi il principale «colpevole» delle emissioni umane di gas-serra: sulla destra del grafico infatti la banda più ampia è quella rossa corrispondente alla Cina.
Ci sono però almeno due considerazioni importanti da fare al riguardo:
- le emissioni degli USA nel 2020 sono state circa la metà di quelle cinesi, ma gli Stati Uniti avevano un quarto degli abitanti della Cina (330 milioni contro 1,4 miliardi): il cittadino statunitense medio, perciò, produce ancora il doppio di emissioni rispetto al suo omologo cinese;
- ogni europeo (nella UE oggi siamo 450 milioni) produceva nel 2020 emissioni simili a quelle del cinese medio; tuttavia noi, come tutti gli occidentali, acquistiamo ogni giorno prodotti made in China e così facendo «appaltiamo» alla Cina una parte delle nostre emissioni: i processi industriali necessari per produrre le merci che importiamo avvengono in Cina, ma la corrispondente «impronta di carbonio» sull’ambiente è responsabilità nostra, tanto quanto dei cinesi.
Ciò detto, rimane vero che l’enorme popolazione della Cina – più di un quinto dell’intera umanità – aspira ancora a migliorare il proprio benessere materiale; se questo avverrà secondo le tradizioni del capitalismo, nei prossimi decenni i consumi della più grande nazione del mondo, e quindi anche le sue emissioni, continueranno ad aumentare.
La chiave sta nell’energia
Come si può sperare allora di ridurre le emissioni globali di gas-serra?
Lo si capisce osservando l’areogramma qui sotto: per quasi tre quarti le nostre emissioni sono dovute al modo in cui produciamo l’energia che serve per il funzionamento delle industrie, per i trasporti e per il condizionamento dell’aria nelle abitazioni e negli uffici.
Se si vuole cercare di mettere un freno al cambiamento climatico, il settore energetico è dunque quello su cui bisogna intervenire in modo prioritario.
Un imperativo per ognuno di noi è il risparmio energetico: l’uso dell’energia ha un forte impatto sull’ambiente, perciò dobbiamo evitare di sprecarla (per esempio, assicurandoci che le nostre case siano ben isolate termicamente e regolando d’inverno i termostati così che la temperatura delle stanze non superi i 20 °C).
Risparmiare l’energia però non sarà sufficiente: il nostro stile di vita ne richiede così tanta che dovremo comunque continuare a produrne quantità enormi.
Serve perciò un cambiamento radicale nel nostro modo di generare l’energia: è la rivoluzione che va sotto il nome di transizione energetica.
La transizione energetica
Fare una transizione energetica oggi significa abbandonare l’uso dei combustibili fossili a favore delle fonti di energia rinnovabili, che non producono emissioni di gas-serra e sono sostenibili, perché non si esauriscono quando le usiamo.
Le principali fonti rinnovabili sono l’energia solare diretta (la luce del Sole convertita in elettricità o calore) e indiretta (l’energia eolica e quella idroelettrica: il vento e il ciclo dell’acqua, infatti, sono prodotti dal riscaldamento solare dell’atmosfera).
Un contributo potrà venire anche dall’energia geotermica e da quella delle maree, se si riuscirà a sviluppare tecniche efficienti per sfruttarle.
La transizione energetica è indispensabile se vogliamo smettere di arricchire l’atmosfera di CO2 e quindi di provocare l’aumento dell’effetto serra. Si tratta però di un’impresa difficile e che richiederà molto tempo, perché l’economia mondiale oggi dipende ancora in modo predominante dai combustibili fossili.
Il caso dell’Italia, a cui si riferiscono i due diagrammi a torta qui sotto, è esemplare: l’energia che usiamo attualmente proviene per quattro quinti dalla combustione di gas, petrolio o carbone.
Le fonti rinnovabili danno un contributo significativo (circa il 30%) alla produzione dell’energia elettrica, ma questa è soltanto un quinto del totale dell’energia che consumiamo.
La prevalenza storica dei combustibili fossili si deve principalmente al fatto che offrono due grandi vantaggi: hanno un’alta densità energetica e sono facili da immagazzinare e trasportare.
Un tempo erano anche molto economici, ma oggi l’energia prodotta da fonti rinnovabili è diventata altrettanto conveniente (anche se è difficile confrontare i costi delle diverse fonti, perché sono «drogati» da sussidi e incentivi di vario tipo).
I combustibili fossili sono un tesoro che abbiamo trovato sottoterra e ha reso possibile l’impetuoso sviluppo della civiltà tecnologica nel Novecento. Non sono però rinnovabili, perché impiegano molti milioni di anni per formarsi. Se continueremo a usarli, perciò, si esauriranno: un’economia basata sui combustibili fossili non è dunque sostenibile.
Le fonti di energia rinnovabili invece sono sostenibili, perché derivano da forze della natura praticamente inesauribili, e sono anche molto abbondanti e ben distribuite sul globo (il che potrà aiutare a sfruttarle in modo equo, disinnescando pericolosi conflitti).
La sola luce che arriva dal Sole deposita ogni giorno sulla superficie terrestre un’energia più di mille volte superiore a quella che tutta l’umanità usa nella giornata: basta quindi riuscire a catturare meno di un millesimo dell’energia solare per soddisfare tutti i nostri bisogni energetici.
Sulla base dei dati appena visti, la transizione energetica richiederà due grandi cambiamenti rispetto all’organizzazione odierna del nostro sistema energetico:
- la sostituzione delle centrali termoelettriche, che bruciano combustibili fossili, con impianti solari o eolici; per esempio, tutte le grandi superfici oggi inutilizzate, come i tetti dei capannoni industriali, andranno ricoperte con pannelli fotovoltaici per diventare produttive dal punto di vista energetico;
- l’elettrificazione delle attività oggi basate sul calore: ciò significa, per esempio, sostituire i veicoli a motore termico con veicoli elettrici e le caldaie degli impianti di riscaldamento con pompe di calore.
Questa rivoluzione del sistema energetico è un’impresa complessa, che richiede massicci investimenti e un ripensamento di molte infrastrutture della nostra società. Tra le altre cose:
- la rete di distribuzione dell’energia elettrica dovrà diventare ancora più globale, elastica e resistente agli sbalzi di produzione nel tempo e nelle diverse aree geografiche;
- servirà un grande sforzo di ricerca e sviluppo nel campo dei sistemi di accumulazione dell’energia elettrica: abbiamo bisogno di nuove batterie che offrano maggiore capacità in volumi minori e che siano più facili da smaltire con il riciclo dei materiali.
Si tratta di una sfida molto impegnativa, ma non la si può eludere se vogliamo mantenere il nostro benessere attuale in modo sostenibile e senza emissioni di gas-serra.
Con la transizione energetica dovremo dunque smettere di estrarre combustibili fossili dal sottosuolo e di bruciarli, per evitare di arricchire ulteriormente l'atmosfera di CO2.
Questa rinuncia è necessaria per non aggravare il riscaldamento globale, ma a ben vedere ha anche una valenza etica: chi ci autorizza infatti a consumare oggi tutto il tesoro sotterraneo del pianeta, cancellando così una risorsa preziosa e limitata di cui le generazioni future potrebbero avere bisogno?
Perché il nucleare non ci può aiutare
Le centrali nucleari odierne sfruttano la fissione dell’uranio, un nucleo atomico pesante e instabile, che libera energia quando decade disgregandosi in nuclei più piccoli. Il processo riscalda il reattore e il calore è poi convertito in energia elettrica, in modo del tutto simile a ciò che avviene nelle centrali termoelettriche.
Una centrale nucleare durante il suo funzionamento non emette gas-serra. Inoltre la densità di energia dell’uranio è straordinariamente grande, molto maggiore rispetto a quella dei combustibili fossili.
A fronte di questi vantaggi, però, le centrali nucleari hanno numerosi punti deboli:
- sono grandi impianti molto costosi da costruire, in particolare perché devono rispettare criteri di sicurezza stringenti per garantire il contenimento delle radiazioni liberate nel reattore;
- in caso di grave incidente possono rendere inabitabili intere regioni; è quello che è successo nel 1986 a Černobyl', in Ucraina, e poi nel 2011 a Fukushima, in Giappone;
- producono in ogni caso scorie radioattive che rimangono dannose per la salute per migliaia di anni e che nessuno ancora sa come trattare o immagazzinare in modo sicuro;
- il combustibile nucleare e le scorie sono pericolosi anche perché li si può usare per costruire ordigni terrificanti; vanno perciò tenuti fuori dalla portata di terroristi e malintenzionati, il che impone ulteriori costose misure di sicurezza.
Il grafico che segue, prodotto dalla World Nuclear Association, illustra l’evoluzione storica dell’energia nucleare da fissione. La diffusione delle centrali si è interrotta dopo il disastro di Černobyl' e da allora il numero dei reattori nel mondo è rimasto pressoché costante.
Attualmente le centrali nucleari producono globalmente il 10% dell’energia elettrica, vale a dire il 2% circa dell’energia totale che usiamo.
Oggi però molti reattori esistenti si avvicinano alla fine della loro vita utile e ci sono poche nuove centrali in costruzione, perciò la curva è destinata a scendere nei prossimi decenni.
Il mancato successo dell’energia nucleare non è dovuto alle proteste degli ambientalisti, ma al fatto che nessuna impresa privata è più disposta a investire le proprie risorse in questo campo, perché il rischio economico e finanziario è percepito come troppo grande.
Le poche nuove centrali nucleari in costruzione sono finanziate dai governi, con fondi pubblici a garanzia di copertura di ogni futura perdita, quindi al di fuori delle regole dell’economia di mercato.
I sostenitori dell’energia nucleare spesso parlano di una «quarta generazione» che permetterà di superare i difetti delle centrali odierne, con «reattori modulari» di piccole dimensioni oppure con reattori che usano come combustibile il torio, un elemento diverso dall’uranio.
Queste nuove tecnologie però sono ancora in fase di studio, rimangono da dimostrare e, ammesso che funzionino, potranno diventare una fonte affidabile di energia soltanto tra decenni.
Lo stesso vale per la fusione nucleare, una tecnica alternativa alla fissione: si basa sulla reazione tra nuclei di idrogeno, che liberano energia quando si fondono a formare nuclei più pesanti di elio, come avviene nelle stelle.
Rispetto alla fissione, la fusione è attraente perché in teoria produce molte meno scorie radioattive, non può provocare incidenti come Černobyl' o Fukushima e non si presta alla proliferazione di armamenti.
La ricerca in questo settore procede da oltre cinquant’anni, ma realizzare la fusione in modo controllato è risultato estremamente difficile e saranno necessari come minimo ancora decenni di studio.
Così, anche nella migliore delle ipotesi, non esiste alcuna possibilità che la fusione nucleare sia sfruttabile come fonte di energia prima della seconda metà di questo secolo.
L’emergenza climatica però incombe già oggi e impone azioni immediate. Ecco perché non possiamo permetterci di aspettare gli eventuali nuovi sviluppi dell’energia nucleare: la transizione energetica deve iniziare basandosi sulle fonti rinnovabili, che già oggi sappiamo sfruttare con tecnologie mature.
L’equivoco dell’idrogeno
Spesso si sente parlare di «economia all’idrogeno» come possibile soluzione ai problemi della sostenibilità e del cambiamento climatico.
L’idrogeno (H2) rilascia energia quando reagisce con l’ossigeno (O2) formando acqua (H2O). I dispositivi chiamati celle a combustibile (fuel cell in inglese) sfruttano questa proprietà dell’idrogeno per produrre una corrente elettrica; possono quindi alimentare i motori elettrici, producendo come «scarto» soltanto acqua.
Per evitare fraintendimenti, però, bisogna tenere presenti due dati di fatto:
- l’idrogeno puro non esiste sulla Terra (sebbene sia l’elemento più comune nel resto dell’universo); per poterlo usare, perciò, bisogna prima estrarlo da composti come l’acqua;
- l’idrogeno dunque non è una fonte di energia: è invece un vettore, cioè un modo per trasportare l’energia prodotta con altre fonti.
L’idrogeno si può produrre attraverso l’elettrolisi, facendo passare nell’acqua una corrente elettrica che la separa nei suoi due costituenti. Per farlo, bisogna fornire (come minimo) la stessa quantità di energia che sarà poi rilasciata quando si usa l’idrogeno.
Dunque l’idrogeno non fornisce energia: serve soltanto per immagazzinarla e trasportarla altrove, dove si avrà bisogno di usarla.
Dal punto di vista degli effetti sul clima, allora, tutto dipende da come si produce l’energia usata per ottenere l’idrogeno:
- si parla di idrogeno verde quando l’energia proviene da fonti rinnovabili; in tal caso l’uso dell’idrogeno è effettivamente a zero emissioni;
- l’idrogeno blu invece è ottenuto usando combustibili fossili, in particolare il metano; in questo caso le emissioni di CO2 sono simili (o addirittura maggiori, secondo alcuni studi) a quelle che si produrrebbero bruciando direttamente il gas.
Un discorso del tutto analogo vale, per esempio, per le batterie con cui alimentiamo i veicoli elettrici: aiutano a combattere il cambiamento del clima soltanto se le produciamo e ricarichiamo usando fonti di energia rinnovabili.
Soltanto l’idrogeno verde può aiutare a frenare il riscaldamento globale. Chi propone di adottare l’idrogeno blu, invece, sta cercando una scusa per continuare a usare i combustibili fossili (e a produrre più effetto serra) sotto mentite spoglie.
Va notato inoltre che siamo ben lontani dal disporre di una rete di distribuzione che possa consentire l’uso dell’idrogeno su larga scala. E creare una rete del genere è tutt’altro che banale: l’idrogeno brucia subito a contatto con l’aria, perciò ogni perdita può avere effetti disastrosi.
Catturare la CO2: una soluzione tecnologica parziale
Una sigla spesso citata nei dibattiti sul clima è CCS, che sta per carbon capture and storage, cioè «cattura e sequestro/stoccaggio del carbonio».
L’idea è quella di filtrare i fumi degli impianti che emettono anidride carbonica così da catturare la CO2, per poi liquefarla e iniettarla sottoterra, in giacimenti di petrolio o di gas già svuotati, confidando che vi resti poi imprigionata a tempo indefinito.
Secondo i sostenitori del CSS questa tecnologia oggi è già matura e permette di evitare fino al 90% delle emissioni a un costo accettabile.
Nel 2019 gli impianti CSS nel mondo hanno catturato 30 milioni di tonnellate di CO2, meno di un millesimo delle nostre emissioni annuali: per ora si tratta quindi di un contributo modesto alla lotta contro il cambiamento climatico (equivale a piantare ogni anno 1 miliardo di alberi, pari a 1/400 della foresta amazzonica).
Siccome la transizione energetica non può avvenire dall’oggi al domani, dovremo usare ancora per decenni, in misura decrescente, i combustibili fossili. Una diffusione della tecnologia CSS potrà dunque essere utile durante questa fase, e anche in seguito per attività come la produzione del cemento, dove non esiste un modo alternativo per abbattere le emissioni.
Idealmente si potrebbero anche applicare metodi simili al CCS per rimuovere CO2 direttamente dall’atmosfera, così da ridurre la concentrazione dei gas-serra e rimediare alle nostre emissioni del passato. Sebbene esistano alcuni progetti-pilota, però, siamo purtroppo lontani dal giorno in cui un’applicazione del genere sarà disponibile su larga scala.
In ogni caso lo sviluppo di sistemi CCS non va usato come alibi per continuare a usare i combustibili fossili come se niente fosse, rinviando così la transizione energetica: quest’ultima rimane la strada maestra da seguire con urgenza, se si vuole affrontare seriamente l’emergenza climatica.
Le misure di adattamento
Se anche riusciremo ad azzerare le emissioni di gas-serra, le conseguenze del riscaldamento globale già innescato dureranno ancora a lungo, per via dell’inerzia intrinseca del sistema climatico.
Basti pensare al fatto che gli oceani, che hanno una massa 10 000 volte maggiore rispetto all’atmosfera, assorbono il calore e lo ridistribuiscono molto più lentamente; l’atmosfera terrestre si rimescola in pochi anni, ma gli oceani possono impiegare secoli.
L’atmosfera stessa ci dà una chiara indicazione se si considera che nel 2020, a causa della pandemia da coronavirus, il rallentamento delle attività umane ha provocato una diminuzione nelle emissioni stimata a -7% (e già «recuperata», purtroppo, nel 2021). Di questa riduzione però non si vede traccia nella curva di Keeling, che continua a misurare una concentrazione globale di CO2 in aumento.
L’inerzia del clima è tale che, secondo alcuni studiosi, i gas-serra già immessi dall’umanità nell'aria avranno l’effetto di ritardare di decine di migliaia di anni la prossima glaciazione.
Tutto ciò significa che, oltre alle azioni di mitigazione, bisogna prevedere azioni per adattarsi alle conseguenze ormai inevitabili del cambiamento climatico.
Alcuni esempi di misure di adattamento sono:
- usare in modo più efficiente le nostre risorse idriche, che sono scarse e preziose;
- sviluppare nuove colture più resistenti alla siccità;
- predisporre opere di difesa contro le inondazioni e l’innalzamento del livello del mare;
- piantare foreste con specie arboree meno vulnerabili alle tempeste e agli incendi;
- creare «corridoi» terrestri per le specie animali che avranno bisogno di migrare.
Le misure di adattamento sono complementari a quelle di mitigazione, ma non possono in alcun modo sostituirle: la riduzione delle emissioni di gas-serra, in particolare attraverso la transizione energetica, rimane l’imperativo prioritario per disinnescare il pericoloso cambiamento del clima.
Mettiti alla prova
Quanto ne sai sul cambiamento del clima?
- Che cos’è il clima e quali fenomeni lo influenzano?
- Quali sono le evidenze del riscaldamento globale?
- Che cos’è l’effetto serra e perché sta aumentando?
- Quali saranno le conseguenze del riscaldamento globale?
- Che cosa si sta facendo per frenare il riscaldamento globale?
La diffusione dell’energia nucleare si è bloccata dopo l’incidente di Černobyl’ del 1986.
L’energia usata in Italia nel 2018 (1 EJ = 1 esajoule = 1018 J = 1 miliardo di miliardi di joule) e le fonti energetiche adoperate per produrla: per l’80% circa si tratta di combustibili fossili. L’energia elettrica è soltanto il 20% del totale dell’energia usata. Fonte: International Energy Agency (IEA).
Uno schema del metodo CCS per catturare e stoccare l’anidride carbonica
L’evoluzione nel tempo delle emissioni di CO2 delle diverse parti del mondo. Il grafico include soltanto le emissioni dovute all’uso di combustibili fossili e alla produzione del cemento; qui dunque mancano, per esempio, le emissioni provocate dalla deforestazione Fonte: Our world in data/Global Carbon Project.
Le emissioni di CO2 dovute alle diverse attività umane (dati relativi al 2016 elaborati nel 2020 da Hannah Richie per Climate Watch, the World Resources Institute).