Il prossimo novembre la città scozzese di Glasgow ospiterà la COP26, un vertice sul clima molto atteso. Avrebbe dovuto svolgersi un anno fa, ma la pandemia ha costretto a rinviare i negoziati internazionali per ridurre le emissioni di gas serra. Come spesso accade, si parla di «ultima chiamata» per evitare gli scenari peggiori del riscaldamento globale. Ma le conferenze sul clima hanno una lunga storia di successi parziali e aspettative deluse: ripercorrerla può essere molto utile per comprendere la posta in gioco a Glasgow e quel che accadrà nei prossimi anni.
L’ambiente entra nell’agenda politica
Nel corso degli anni Sessanta diversi problemi ambientali come l’inquinamento, la scomparsa delle specie o l’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali sono diventati oggetto di una discussione pubblica sempre più ampia e articolata, riuscendo gradualmente a imporsi all’attenzione dei mass media e a condizionare l’agenda politica delle nazioni industrializzate.
Nel 1972 i tempi erano già maturi per organizzare la prima conferenza mondiale sull’ambiente umano, che si svolse a Stoccolma sotto egida delle Nazioni Unite. Ai lavori parteciparono i delegati di oltre cento governi, nella crescente consapevolezza che i problemi ambientali hanno una natura globale e perciò possono essere affrontati solo con l’impegno della comunità internazionale.
Da allora le iniziative per cercare soluzioni condivise alla crisi ecologica si sono moltiplicate, di pari passo con l’aggravarsi dei problemi ambientali, dalla perdita di biodiversità ai rischi di uno sviluppo giudicato insostenibile, fino agli impatti del riscaldamento globale.
La convenzione sui cambiamenti climatici
Un momento cruciale per i negoziati sull’ambiente fu la Conferenza di Rio de Janeiro, in Brasile, passata alla storia anche come il Summit della Terra, che nel 1992 riunì i rappresentanti di quasi tutte le nazioni del mondo. Al termine dei lavori furono sottoscritte due importanti convenzioni sulla biodiversità e sui cambiamenti climatici, alimentando la convinzione che la cooperazione internazionale avrebbe permesso di trovare rimedi efficaci al degrado ambientale.
Dal 1994, in particolare, i Paesi firmatari della Convezione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici si incontrano con cadenza annuale durante le cosiddette Conferenze delle Parti (o COP, dall’acronimo del termine inglese Conferences of the Parties). Quest’anno Glasgow, in Scozia, ospiterà la 26esima Conferenza delle Parti, o COP26, con l’obiettivo di riuscire a ridurre le emissioni di gas serra a livello globale.
Se da un lato la regolarità di questi vertici, a cui partecipano i governi di tutto il mondo, testimonia l’elevata attenzione per i cambiamenti climatici, dall’altro molte aspettative sono andate deluse perché, a conti fatti, finora gli accordi internazionali non sono riusciti a mitigare il riscaldamento del pianeta.
In effetti, la storia delle conferenze sul clima è costellata da un alternarsi di successi e fallimenti. Nel 2005, per esempio, gli sforzi negoziali furono premiati con l’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto, un importante trattato che per la prima volta impegnava tutti i Paesi a economia avanzata a ridurre i gas serra. Purtroppo, però, molti degli impegni assunti all’epoca sono stati in seguito disattesi, lasciando che le emissioni continuassero ad aumentare.
Perché è così difficile invertire la rotta?
Eppure in qualche occasione gli accordi internazionali sull’ambiente hanno portato anche a risultati concreti. Nel 1987, per esempio, il Protocollo di Montereal riuscì nell’intento di mettere al bando i clorofluorocarburi (o CFC), una classe di composti artificiali di largo impiego come refrigeranti dei frigoriferi o come propellenti spray, consentendo di porre un freno all’assottigliamento della fascia stratosferica di ozono che protegge gli organismi viventi dalla radiazione solare ultravioletta.
Il riscaldamento globale, tuttavia, è un problema assai più complesso da risolvere perché i gas serra, a differenza dei CFC, sono composti naturali, e quindi non possono essere eliminati vietandone semplicemente la produzione. Inoltre, l’industria ha potuto trovare alternative ai CFC senza dover rinunciare ai frigoriferi e agli spray; ridurre in modo drastico le emissioni di gas serra impone invece di mettere in discussione l’intero modello economico delle società industriali, fortemente dipendente dai combustibili fossili.
Infine, raggiungere un accordo condiviso è complicato dal fatto che non tutti i Paesi contribuiscono in uguale misura al riscaldamento globale. Se da una parte le responsabilità storiche ricadono sulle nazioni che per prime hanno raggiunto l’industrializzazione (Stati Uniti, Europa, Giappone, Russia), oggi la rapida crescita economica di Paesi emergenti e densamente popolati come Cina e India ha modificato la classifica dei principali emettitori, al punto che dal 2015 il primato spetta alla Cina.
D’altro canto, questo primato è anche conseguenza del fatto che molte produzioni inquinanti sono state delocalizzate in Cina e in altri Paesi asiatici, oggi diventati la «fabbrica del mondo». Proprio alla difficoltà di garantire un’equa ripartizione degli impegni per ridurre le emissioni, capace di tenere conto anche delle diverse responsabilità storiche, si può imputare il fallimento della Conferenza di Copenhagen (COP15), che nel 2009 segnò una drastica battuta d’arresto nei negoziati sul clima.
L’accordo di Parigi
Nonostante le difficoltà, nel dicembre 2015, al termine dei negoziati della Conferenza sul clima di Parigi (COP21) è stato possibile raggiungere un nuovo accordo che, per la prima volta, impegna tutte le nazioni, e non solo quelle industrializzate, a fissare degli obiettivi di riduzione delle emissioni. L’accordo è entrato in vigore il 4 novembre 2016 con l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale «ben al di sotto» di 2°C rispetto ai livelli preindustriali, e possibilmente entro la soglia di sicurezza di 1,5°C.
Secondo il Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite (UNEP), tuttavia, gli impegni assunti finora dai Paesi firmatari non sono abbastanza ambiziosi: perfino se fossero rispettati, infatti, la temperatura media globale salirebbe di circa 3°C entro fine secolo, più del doppio rispetto alla soglia di sicurezza. Gli esperti dell’UNEP hanno calcolato che per limitare l’aumento delle temperature a 1,5°C sarebbe necessario tagliare le emissioni globali di oltre il 7,5% ogni anno, altrimenti supereremo la soglia di sicurezza già entro questo decennio.
Occorre notare che parliamo all’incirca della stessa riduzione delle emissioni causata nel 2020 dalle restrizioni imposte per contenere la pandemia di COVID-19, che hanno colpito soprattutto i trasporti e la produzione industriale. Questo evidenzia l’enormità della sfida posta dalla crisi climatica, dato che per scongiurare gli scenari peggiori del riscaldamento globale dovremo conseguire un’analoga riduzione delle emissioni per ogni anno a venire, ma grazie alle politiche climatiche e non per colpa di una pandemia. Con la ripresa economica, infatti, le emissioni di gas serra sono già tornate ad aumentare. Del resto, l’80% dell’energia consumata nel mondo continua a essere fornita dalla combustione di gas, petrolio e carbone, cosicché l’unico modo per conseguire un calo duraturo e non soltanto temporaneo dei gas serra è accelerare la transizione già in corso verso le fonti rinnovabili.
Le aspettative della COP26 di Glasgow
La conferenza sul clima di Glasgow, che si terrà dal 30 ottobre al 12 novembre 2021, ha il compito di rendere operativi gli accordi di Parigi e tracciare la strada per decarbonizzare l’economia mondiale. Il vertice si sarebbe dovuto tenere l’anno scorso, ma di fronte al dilagare della pandemia è stato necessario posticiparlo, facendone un appuntamento ancora più atteso. Più il tempo passa, infatti, più si affievoliscono le possibilità di riuscire a contenere l’aumento delle temperature globali entro la soglia di sicurezza di 1,5°C.
Nello specifico, a Glasgow i governi dovranno presentare impegni di riduzione delle emissioni molto più ambiziosi di quelli assunti finora per riuscire a raggiungere l’obiettivo delle emissioni nette zero entro il 2050 e rispettare così l’accordo di Parigi. Si tratta in sostanza di conseguire la cosiddetta «neutralità climatica», cioè un livello di emissioni antropiche che possa essere compensato dall’assorbimento naturale dei gas serra da parte degli ecosistemi terrestri (e, in futuro, forse anche con l’aiuto di tecnologie in grado di rimuovere una parte del CO2 immesso nell’atmosfera, su cui però al momento non possiamo contare perché si trovano ancora in fase sperimentale).
Al di là degli impegni solenni e dei traguardi a lungo termine, tuttavia, sarà cruciale che i governi presentino un piano dettagliato per spiegare come intendono ridurre subito le emissioni, con obiettivi a breve termine credibili e verificabili. Come ha sottolineato l’attivista Greta Thunberg di Fridays For Future durante i lavori della Pre-COP26 che si è svolta a Milano, le giovani generazioni sono stanche del «bla bla bla» dei governi e si attendono iniziative urgenti e concrete. Il successo o il fallimento delle misure di mitigazione del riscaldamento globale dipenderà dai negoziati sul clima che si terranno a Glasgow e dalla pressione dell’opinione pubblica affinché i leader del mondo adottino finalmente misure efficaci per ridurre i gas serra, l’unica via d’uscita dalla crisi climatica.