La storia della letteratura è piena di scrittori che hanno fatto uso di droghe o alcol e ne hanno scritto, a volte mettendo in scena i propri demoni, altre esaltando uno stile di vita “tossico”; ma esiste anche una categoria di autori che non ha fatto uso di droghe per il solo piacere di perdersi o per un’ansia di autodistruzione: piuttosto, lo ha fatto per osservarne da vicino gli effetti e provare a capire, per così dire in modo scientifico, se davvero le sostanze psicotrope sono utili per allargare la coscienza e aiutare la creatività, e se questa utilità – che è tutta da dimostrare – prevale oppure no sugli effetti negativi della dipendenza.
L’oppio e la memoria
In una sera dell’autunno del 1804, tormentato da un mal di denti che non gli dava tregua, il diciannovenne Thomas De Quincey, studente universitario e futuro grande scrittore britannico, pensò di anestetizzare il dolore immergendo la testa nell’acqua fredda e mettendosi a letto così, senza asciugarsi. Al mattino, dopo una notte complicata, il dolore si era trasformato in una nevralgia reumatica che sarebbe durata una ventina di giorni – finché un conoscente gli suggerì un rimedio medico efficace: il laudano. Il laudano era un antidolorifico a base di alcol e oppio: oggi è una sostanza illegale, ma all’epoca era, a tutti gli effetti, una medicina.
De Quincey cercò una farmacia, ne acquistò una boccetta, tornò a casa, lo prese e, scrive:
O cieli! Che rivoluzione! Come si sollevò, dalle più basse profondità, il mio spirito più intimo! (...) Che le mie pene fossero svanite, era una cosa da niente, ora, per me: questo effetto negativo era inghiottito dall’immensità di quegli effetti positivi che si erano aperti innanzi a me, dall’abisso di gioie divine che mi si rivelavano così improvvisamente.
Non ci è dato sapere se il giovane Thomas avesse esagerato con le gocce: è così però che descrive quelle ore nella sua autobiografia, pubblicata nel 1822 e ancora oggi considerata uno degli scritti autobiografici più importanti del XIX secolo. Questa fu per De Quincey la prima di migliaia di assunzioni di oppio: nei successivi cinquant’anni, lo scrittore arrivò ad assumere la vertiginosa dose di ottomila gocce di laudano al giorno (con un record di dodicimila, pare, probabilmente all’epoca della morte della moglie), dilapidando le sue finanze e rovinandosi la salute. Solo verso i sessant’anni – dunque quarant’anni dopo quel giorno del 1804 – pare che De Quincey riuscisse, se non a disintossicarsi, a ridurre il consumo di oppio fino a quantità ragionevoli: 150 gocce al giorno.
Il consumo di oppio fu per lui tanto importante da diventare una questione identitaria: l’autobiografia di cui ho riportato un breve estratto poco sopra porta, infatti, il titolo di Confessioni di un oppiomane. Contiene un capitolo che si chiama I piaceri dell’oppio in cui De Quincey fa un elenco ragionato delle cose buone della dipendenza. È un capitolo importante per vari motivi: anzitutto, all’epoca non erano stati poi molti gli autori occidentali che avevano esaltato l’abuso di sostanze – gli antichi lo avevano fatto: facendo riferimento ai miti e ai riti dionisiaci o ai baccanali, molti autori avevano parlato dell’estasi e dell’ebbrezza che davano il vino e certe sostanze psicotrope, ma si trattava di comportamenti legati a forme rituali o festività. Ora De Quincey scriveva, in un’autobiografia e dunque a mo’ di confessione, dell’uso quotidiano della droga in un contesto borghese e intellettuale. Soprattutto, analizzava gli effetti in modo lucido, razionale: a differenza del vino, che dà un picco di piacere e poi declina, la beatitudine indotta dall’oppio è costante, e dura molte ore; soprattutto, scrive De Quincey:
Mentre il vino disordina le facoltà mentali, l’oppio, al contrario, se preso a dovere, le ordina nel modo più squisito, le disciplina, le mette in armonia.
È un passo molto importante, perché dice per la prima volta una cosa che, nei due secoli a venire, la letteratura “tossica” ripeterà in ogni modo possibile: le droghe non ottenebrano, ma esaltano le facoltà mentali e, dunque, aiutano la creatività. Ancora De Quincey:
Ora l’oppio, aumentando grandemente l’attività della mente in generale, aumenta per forza quel particolare modo della sua attività per mezzo del quale possiamo ricavare, dalla materia prima del suono fisico, un elaborato piacere intellettuale.
Segue una pagina in cui l’autore esalta le facoltà percettive date dalla droga, e racconta di come, per esempio, sotto l’effetto un concerto diventi un’esplosione di suoni in grado di fargli rivivere, qui e ora, tutta la sua vita in un solo momento. In generale, il grande aiuto che l’oppio dà a De Quincey ha a che vedere con la memoria: egli lo assume e vede il mondo per come è stato, gli sembra di non dimenticare nulla della sua infanzia e della vita pregressa. Non è forse un caso, allora, che la sua opera capitale sia un’autobiografia.
C’è però anche il lato oscuro. I due capitoli successivi a quello sui piaceri sono dedicati, infatti, alle Pene dell’oppio. De Quincey ha avuto nel corso della sua vita molti problemi di salute collegati alla sua tossicodipendenza, e ne era consapevole: è per questo che, in età avanzata, lottò per disintossicarsi. Ma non era nel corpo il problema più grande: era proprio nelle stesse cose che gli davano piacere. I sogni, per esempio, che usava come base per scrivere, divennero via via sempre più pervasivi e spaventosi: egli aveva quasi tutte le notti incubi da cui non riusciva a liberarsi nelle ore di veglia, e che spesso diventavano ossessioni. Scrive De Quincey:
Ogni notte mi sembrava di scendere non metaforicamente, ma letteralmente scendere in voragini e abissi senza sole, sempre più giù, fino a una profondità dalla quale mi sembrava di non poter più sperare di risalire…
Ma il problema è anche contrario: ogni cosa che pensa, o che l’oppio gli fa pensare, durante la giornata, si ripresenta durante il sonno sotto forma di incubo, creando una sorta di circuito chiuso in cui ciò che si sogna alimenta l’immaginazione durante la veglia, e ciò che si pensa da svegli si fa sogno nella notte. In pratica, De Quincey non esce mai da uno stato di alterazione, e a volte ha la stramba sensazione, al risveglio, di essere invecchiato, o che gli edifici siano improvvisamente diventati enormi, smisurati. Insomma, il mondo si fa d’oppio e lui non riesce più a distinguere ciò che è vero da ciò non lo è. Il risultato è che egli vive in uno stato di sofferenza e ansia continue.
L’hashish e la bellezza
Nel 1860, il grande poeta francese Charles Baudelaire tradusse parte delle Confessioni di De Quincey e ne parlò in un capitolo di un saggio dal titolo fortunatissimo: I paradisi artificiali. In questo libro, elegante e provocatorio, Baudelaire, che nella vita era un consumatore di oppio e di hashish, analizza gli influssi che le sostanze psicotrope (tra cui la sua preferita, il vino) hanno sulla personalità e la creatività. Chi fa uso di hashish, scrive Baudelaire, accede a un’esperienza estetica molto più ricca di quella che può arrivare ad avere chi è sobrio e in pieno controllo delle sue facoltà. La droga spalanca le porte dell’immaginazione, della percezione del mondo, e regala quello che il poeta definisce un «gusto dell’infinito»: la droga toglie il senso del tempo, mette in contatto con l’assoluto e fa provare esperienze sinestetiche che sono fondamentali per la produzione artistica.
Ma Baudelaire non è un ingenuo: è un gaudente, semmai, qualcuno che vuole provare esperienze altre ma che, nel provarle, è in grado di mantenersi saldo e osservare anche cosa non va. E ciò che non va nell’hashish è che a lungo andare procura una certa mollezza, un torpore che finisce per ovattare i sensi e instupidire. Se, nei primi tempi dell’assunzione, la droga esalta i sensi e la volontà di comporre, a poco a poco le abbatte, rendendo chi la assume, per lo meno dal punto di vista della creatività, un inetto.
Tra i grandi studiosi e ammiratori di Baudelaire, nel Novecento ci fu un filosofo e pensatore tedesco, Walter Benjamin, che, a cavallo degli anni Trenta, si cimentò in uno strambo esperimento: consumare hashish senza nessun fine artistico, ma con lo scopo dichiarato di annotarne gli effetti. Quello che Benjamin cercava era un po’ diverso rispetto a ciò che perseguivano De Quincey e Baudelaire, dunque. Questi ultimi, infatti, cercavano nei paradisi artificiali dei modi per ampliare la loro creatività; Benjamin, invece, prese scrupolosamente nota, quasi come fosse un medico, dei modi, delle quantità e della frequenza con cui assumeva la sostanza e di quali fossero i suoi effetti sui sensi: se era vero, come avevano scritto altri, che l’hashish amplificava i sensi, voleva capire, per così dire scientificamente, com’era fatto il mondo se guardato con occhi altri.
La mescalina e la follia
La questione della percezione, ossia di come noi percepiamo il mondo e le persone che ci stanno intorno attraverso i sensi e di come questi possano essere amplificati dall’assunzione di sostanze psicotrope, è al centro della riflessione filosofico-letteraria del Novecento sulle droghe. Aldous Huxley, scrittore e filosofo inglese con anche una laurea in biologia, all’inizio degli anni Cinquanta cominciò a fare uso di mescalina, un allucinogeno che sarebbe stato in seguito soppiantato dall’LSD – che aveva più o meno gli stessi effetti ma costava meno. Era seguito da Humphry Osmond, psichiatra, che per tutta la vita fece ricerche sulle sostanze psicotrope e i loro effetti e che è, di fatto, l’inventore della parola «psichedelico».
Il proposito di questa indagine era, almeno originariamente, medico: Osmond aveva ipotizzato che gli effetti della mescalina fossero del tutto simili a quelli della schizofrenia. Per verificare questa ipotesi, lui per primo aveva cominciato a farne uso, nella convinzione che questo allucinogeno, opportunamente studiato, avrebbe potuto perfino essere usato durante le psicoterapie. Per verificare questa ipotesi, Osmond aveva bisogno di qualcuno che facesse la sperimentazione con lui. Così, come aveva fatto Benjamin vent’anni prima, Huxley assunse la droga in modo razionale e controllato, non allo scopo di sballarsi, ma di capirne gli effetti. Ben presto, il lavoro si ampliò, e non si trattò più soltanto di osservare le reazioni dal punto di vista medico, ma anche da quello sociale, filosofico e perfino religioso.
In seguito a queste ricerche, Huxley scrisse due piccoli libri: il primo, Le porte della percezione, è del 1954, prende il titolo da un verso del poeta inglese William Blake e sarà fonte di ispirazione per Jim Morrison quando, una decina di anni più tardi, formerà i Doors; il secondo, dal titolo parimenti blakiano, è Paradiso e inferno (1956).
In essi, Huxley sostiene che la mescalina rafforzi la capacità contemplativa di chi ne fa uso. Nelle conversazioni che i due studiosi registrarono, lo scrittore nega che gli effetti della droga siano simili a quelli della psicosi, e si dilunga invece raccontando di come senta la propria coscienza amplificata: vede i colori in modo diverso, e ha visioni che lo estasiano o lo turbano a seconda dei momenti. Lo prostra il fatto di sentirsi, durante le somministrazioni, impossibilitato all’azione e indifferente rispetto a cose e persone ma, a dire il vero un po’ ingenuamente, arriva al punto di credere che la mescalina possa essere un viatico per l’Assoluto, e paragona certi trip a un’esperienza mistica, sovrumana. Ecco, per esempio, e questa citazione valga come chiusa, come parla di un piccolo mazzo di fiori che si trova nel suo studio:
Nella loro luce viva mi sembrò di scoprire l’equivalente qualitativo del respiro, ma di un respiro senza ritorno al punto di partenza, senza riflussi ricorrenti, soltanto un flusso ripetuto, dalla bellezza a una bellezza più alta, da un profondo a un sempre più profondo significato. Parole come Grazia e Trasfigurazione mi vennero alla mente (...).
Immagine di copertina: Charles Baudelaire fotografato da Étienne Carjat nel 1863 (Wikipedia)
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La copertina di Confessioni di un oppiomane, nell’edizione Garzanti (immagine: Garzanti)
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Frontespizio della prima edizione di Paradisi artificiali di Charles Baudelaire (immagine: Wikipedia)
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Le porte della percezione e Paradiso e inferno di Aldous Huxley in una edizione Oscar Mondadori (immagine: Mondadori)