Esiste la “dipendenza da videogiochi”? Secondo i manuali diagnostici, la risposta è sì. Nell’ICD-11, pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), la dipendenza da videogiochi è il gaming disorder (GD) inteso come gioco online e offline, ed è trattata come una dipendenza comportamentale. Nel DSM-5-TR dell’American Psychiatric Association (APA), troviamo invece l’internet gaming disorder (IGD), ovvero dipendenza da giochi online, inserita tuttavia tra le condizioni per le quali sono necessari ulteriori studi.
Si considera dipendenza quando, per almeno un anno, la videogiocatrice o il videogiocatore non ha più il controllo sul tempo che trascorre a giocare, a discapito di rapporti sociali, passioni, lavoro, educazione, finanze e salute. La giornata viene organizzata intorno al gioco, che è un pensiero quasi ossessivo nel resto del tempo. I dati sulla prevalenza variano moltissimo in base alla fascia d’età, al genere, al Paese analizzato e ai criteri usati per effettuare la diagnosi: si parla del 7% della popolazione mondiale, ma l’assenza di strumenti standardizzati a livello internazionale rende difficile mettere a punto interventi di salute pubblica e capire le reali sfumature del fenomeno.
Le storie estreme esistono, come persone che giocano per diversi giorni senza quasi interrompersi per riposare, bere o mangiare, con gravi conseguenze per la salute. Ma si tratta di casi isolati ed è importante ricordarlo, per non demonizzare un’attività già poco socialmente accettata rispetto ad altri tipi di intrattenimento, ma che per la maggior parte delle videogiocatrici e dei videogiocatori è positiva. È passione, divertimento, un’occasione per socializzare e rilassarsi, per usare la propria creatività e per esprimersi in un contesto controllato, libero dallo stress e dalle tensioni della vita di ogni giorno.
Per qualcuno, come ha mostrato l’imperdibile documentario “La vita straordinaria di Ibelin”, giocare può diventare per necessità di salute l’unico modo per trovare una voce, un senso di appartenenza, crearsi una comunità propria laddove la realtà lo renda quasi impossibile.
Una diagnosi accettata?
I videogiochi hanno un potenziale additivo, ma diversi esperti non concordavano con la decisione di includere questa specifica dipendenza nei manuali (nel 2013 per il DSM e nel 2019 per l’ICD), definendo i criteri troppo vaghi per una diagnosi formale, l’intero processo affrettato e non supportato da sufficienti evidenze scientifiche. La dipendenza da videogiochi si può considerare multifattoriale: molte persone che rientrano nella dipendenza da videogiochi hanno ADHD, soffrono di ansia, depressione, fobia/ansia sociale o disturbo ossessivo compulsivo e per capire la natura di questa associazione serviranno altri studi.
Un sondaggio del 2020 mostrava che difficilmente si può parlare di consenso: solo il 50% dei professionisti intervistati riteneva validi i criteri usati per la diagnosi di IGD, salendo di poco (56%) per il GD (che emerge come più valido anche secondo altri studi). Molti si dicevano preoccupati che fosse in corso una sovra-patologizzazione, e che l’inclusione nei manuali avesse contribuito a “precipitare il panico morale riguardo ai videogiochi”.
Gli stessi esponenti dell’OMS ritengono che servano ulteriori studi, ma pensano che l’aver inserito il GD nei manuali servirà proprio a questo: incoraggiare altri ricercatori a studiare il fenomeno, per capirlo meglio. Non è la prima volta che una diagnosi “controversa” viene supportata con queste basi, ovvero attirare interesse, dunque più risorse per i pazienti e nuova letteratura. Inserendo l’IGD tra le condizioni per le quali ritiene necessarie ulteriori ricerche, l’APA si dimostra più cauta: oltre al gioco d’azzardo patologico, infatti, quella da videogiochi sarebbe l’unica altra dipendenza riconosciuta che riguarda un’attività e non una sostanza come tabacco, oppioidi o alcol.
Come già anni fa sottolineava un gruppo di esperti, guidato dallo psicologo clinico Anthony M. Bean, «gli attuali approcci per capire la “dipendenza da videogiochi” si basano sulla ricerca sull’abuso di sostanze e non necessariamente si applicano al consumo di media». Patologizzare il comportamento di gioco, inoltre «ha ricadute che vanno oltre il contesto terapeutico».
La responsabilità dei comitati che revisionano i manuali diagnostici è dunque enorme: è sulla base delle loro indicazioni che medici, governi, compagnie assicurative e scienziati prendono decisioni che impattano sulla vita delle persone, stabiliscono quali trattamenti possono ricevere gratuitamente, pesano sullo stigma attribuito a determinate condizioni, diversità e, in questo caso, passatempi.
Il contesto del gioco compulsivo
Tra i timori degli esperti che l’OMS ha smentito c’era anche che a spingere l’inclusione della dipendenza da videogiochi nei manuali diagnostici siano state pressioni politiche. Soprattutto nell’Asia orientale, il gaming è visto da molti decisori politici come una minaccia per la salute pubblica: qui si stima che la dipendenza riguardi il 12% della popolazione ed esistono numerose cliniche, pubbliche e private, che si propongono di trattarla.
La Cina, che oggi vanta il mercato di giochi online più redditizio al mondo, si porta anche dietro dagli anni ‘90 l’idea che siano “oppio spirituale”, ostacolo agli studi e alla carriera. Negli ultimi anni ha imposto politiche per limitare il tempo speso da bambini e ragazzi davanti agli schermi, un “coprifuoco digitale”, (come aveva già provato a fare la Corea del Sud nel 2011) e altri provvedimenti che hanno sollevato preoccupazioni, da etica e privacy fino al potere decisionale arbitrario esercitato da un governo.
In Italia l’approccio è più ragionevole: le linee guida dei neuropsichiatri infantili incoraggiano i genitori a non demonizzare i videogiochi, a riconoscerne il potenziale positivo anche come attività da fare insieme ai figli, ma soprattutto ad avere un ruolo attivo per moderare l’uso degli schermi, prevenendo così l’abuso di device, console di gioco e PC.
Negli USA esistono diverse iniziative di supporto, gruppi e cliniche che approcciano il problema basandosi sulle ultime evidenze scientifiche. Al contempo, la dipendenza da videogiochi ha trovato il suo posto anche nei cosiddetti campi terapeutici per adolescenti problematici, un’industria controversa che si propone di curare (in genere attraverso isolamento, privazione e disciplina) un po’ di tutto, dai disturbi del comportamento alimentare fino all’ansia.
La terapia per moderare il gioco
Nel Regno Unito troviamo il National Centre for Gaming Disorders fondato da Henrietta Bowden-Jones, dottoressa e neuroscienziata, famosa per gli studi sulla dipendenza da gioco d’azzardo. Nel 2008 ha fondato la prima clinica pubblica specializzata in gioco d’azzardo patologico, e ricorda ancora lo scetticismo dei colleghi. «Ci sono voluti anni perché fosse preso sul serio», racconta in un’intervista.
L’esperienza con la clinica per la dipendenza da videogiochi è stata differente, a causa della pandemia. Le persone in lockdown bevevano di più e giocavano di più, e il centro ha iniziato subito a lavorare a pieno ritmo, in videochiamata: 12 incontri settimanali di terapia cognitivo-comportamentale, non volti a far smettere di giocare del tutto, ma a riprendere il controllo sull’attività.
Al giugno 2024 erano più di mille le persone, di età media 17 anni ma arrivando fino ai 70, per cui medici di famiglia e psicoterapeuti avevano chiesto supporto alla clinica, che si basa sui criteri dei manuali diagnostici per stabilire quando la passione ha preso una piega estrema e la persona ha bisogno di un aiuto esterno per moderarsi. Oggi, 15 centri della sanità pubblica nel Regno Unito si occupano anche di dipendenza da videogiochi.
Bowden-Jones sottolinea che le dipendenze derivano da molti fattori, e che in tanti casi i videogiochi sono un'ancora di salvezza, soprattutto per ragazze e ragazzi:
Molti odiavano la loro realtà quotidiana, molti non vedevano l’ora di crescere. Altri erano estremamente ansiosi per il matrimonio o la salute dei genitori. Questo conferma quanto sia multifattoriale la dipendenza, e che il gaming disorder non è che un’ulteriore manifestazione di eventi avversi.
Non un problema isolato, ma la conseguenza di difficoltà più profonde, come un disturbo d’ansia o depressione.
Loot box: azzardo o no?
Nella creazione dei videogiochi vengono usate strategie psicologiche che spingono a continuare a giocare, paragonabili al gioco d’azzardo, ma anche alle tecniche di marketing che ci convincono a comprare oggetti non necessari. Ma i videogiochi non sono tutti uguali, né condividono lo stesso potenziale additivo. Nel 2020 il Parlamento europeo, come già successo da anni in altri Paesi, ha preso atto della somiglianza tra le dinamiche delle loot box e quelle di una slot machine, che vari studi scientifici segnalano da tempo.
Le loot box sono “casse misteriose” che contengono ricompense casuali, e i giocatori comprano con denaro reale. In alcuni casi, le ricompense più rare possono essere a loro volta rivendute per denaro. Per molti giochi free to play (gratuiti) le loot box e altre microtransazioni sono l’unica forma di monetizzazione, e si prevede che nel 2025 faranno guadagnare quasi 20 miliardi di dollari ai produttori di videogiochi. Ma c’è un ma: fino al 95% dei ricavi viene da una piccola percentuale di giocatori ossessionati, chiamati in gergo whales (balene), ovvero le persone più vulnerabili che spendono senza controllo.
Tomomichi Hamano della Harvard Business School e i colleghi hanno effettuato delle simulazioni, e pensano che un primo passo sia introdurre un tetto massimo di spesa per tutelare questi giocatori senza azzerare una fonte importante di guadagno per i produttori di videogiochi. Nel 2023, intanto, il Parlamento europeo ha chiesto che venga adottato un approccio comunitario, soprattutto per proteggere bambini e minorenni. Tra le proposte: pretendere trasparenza sui meccanismi di probabilità, e che i giochi mostrino in modo chiaro e comprensibile cosa comporta l’acquisto delle loot box, prima di ogni singola transazione.
La regolamentazione è a discrezione dei singoli Paesi, e in Europa quello del Belgio è il caso più noto: i giochi con loot box sono considerati gioco d’azzardo e non si possono vendere senza licenza, ma il provvedimento non sembra aver funzionato. In Australia, da settembre 2024 i nuovi giochi con loot box hanno la classificazione MA15+, sopra i 15 anni, ma la legge non è retroattiva. È chiaro che la regolamentazione delle loot box sarà lunga e complessa, ma i provvedimenti in corso in tutto il mondo sono riassunti annualmente qui dal ricercatore Leon Y. Xiao, che si occupa di giurisprudenza applicata ai videogiochi.
I prossimi passi
È chiaro che serviranno diversi anni di studi per capire meglio il fenomeno, non solo approfondendo i meccanismi di dipendenza da videogiochi, ma anche la presenza simultanea di problemi di salute mentale, come ansia e depressione. Se sono depressa e per stare meglio gioco, la priorità è limitare i videogiochi o trattare la depressione? E se la mia ansia sociale mi rende pressoché impossibile socializzare dal vivo, ma ogni giorno gioco online con degli amici “virtuali”?
Dal punto di vista dei professionisti sanitari, trattare un problema multifattoriale come questo significa guardare al paziente come un tutt’uno e non mettere sotto la lente di ingrandimento solamente la sua dipendenza. Quando rifugiarsi nei videogiochi in modo ossessivo è la conseguenza di problemi in altre aree della vita, per sfuggire a traumi, isolamento sociale, stress o scarsa salute mentale, è importante ampliare lo sguardo e lavorare anche su quelli.
L’obiettivo: riportare la persona ad avere controllo, a non trascurare la salute, i rapporti umani, il lavoro o l’istruzione mentre si gode gli aspetti positivi e funzionali del gioco, che si tratti di un titolo gestionale, un gioco di ruolo o qualsiasi altro genere amato. La possibilità di vivere tante vite differenti, sperimentare, godersi una sana competitività ed emozionarsi grazie a musiche, storie e ambientazioni incredibili. Oggi, sul pianeta, lo fanno oltre 2,5 miliardi di persone.
immagine di copertina: tonbluemonkey / 123RF
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L’apertura di una loot box in un videogame (immagine Wikipedia)