In un mondo sempre più globalizzato e interdipendente, ogni crisi locale porta inevitabilmente con sé delle ricadute a cascata su tutta l’economia mondiale. Figurarsi poi se sono coinvolti due giganti produttivi del calibro di Russia e Ucraina.
La prima fornisce all’Unione Europea il 40% del gas che importa e il 25% del petrolio, la seconda registra da sola quasi il 50% delle esportazioni mondiali di olio di girasole, un semilavorato fondamentale per svariate filiere produttive. L’Ucraina è poi il terzo Paese esportatore di cereali, la Russia il primo. In un battito di ciglia l’Europa si è scoperta dipendente dal gas e dal grano russi, così come a metà dell’anno scorso gli Stati Uniti si erano accorti di quanto la loro economia si basasse ormai su microchip e semiconduttori fatti arrivare da Cina e Taiwan.
L’inanellarsi di crisi pandemica, energetica e infine geopolitica ha scoperchiato il vaso di Pandora, e ciò che prima era abbondante ed economico adesso non si trova più facilmente o lo si paga una fortuna. In borsa le quotazioni di grano, mais e soia sono alle stelle, fertilizzanti come l’urea costano tre volte di più rispetto a un anno fa, le auto di seconda mano vanno a ruba per i ritardi nella consegna di quelle di nuova immatricolazione e persino la PlayStation 5 pare diventata un bene introvabile. Un disallineamento così forte tra domanda e offerta genera sempre inflazione, vale a dire crescita generalizzata dei prezzi, perdita del potere d’acquisto, speculazioni finanziarie e aumento delle disuguaglianze. Una spirale economica perversa da cui non è mai facile uscire.
Cosa fare se aumenta il prezzo dell’energia?
In Italia, ad esempio, tra settembre 2021 e gennaio 2022 il prezzo medio di un kilogrammo di pasta venduto al supermercato è salito da 1,10 a 1,52 euro (+38%). Si tratta di un aumento che impoverisce soprattutto le fasce di popolazione più povere e che riflette l’impennata del costo di materie prime come grano e oli vegetali, di imballaggi e plastica, fertilizzanti e trasporti. Ma risalendo ancora più a monte la spirale dell’inflazione, è soprattutto il prezzo vertiginoso dell’energia a trainare con sé gli altri. Prendiamo il gas naturale che alimenta le industrie: rispetto all’ultimo trimestre del 2020, il costo al metro cubo è quasi quadruplicato (+379%).
Sulla rivista Internazionale, l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz ha ricordato come, con i prezzi dell’energia e delle materie prime così alti e in rapida crescita, in genere chi vende se la cava meglio di chi compra. Le aziende colpite dalla crisi delle materie prime e dal rincaro dell’energia possono infatti scaricare gli aumenti sui consumatori finali; sono soprattutto le imprese più piccole, quelle che se alzano troppo il prezzo dei loro prodotti perdono clienti e competitività, a rischiare di finire fuori mercato per via dell’inflazione. E, come spesso accade, a subire gli effetti peggiori sono i soggetti più deboli: il rincaro dell’energia e dei generi alimentari grava soprattutto sui redditi più bassi.
L’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) ha suggerito all’Unione Europea di puntare su politiche che possano arginare l’emergenza energetica nel breve termine e, al tempo stesso, rendere i singoli Paesi meno dipendenti dalle importazioni di combustibili fossili nel lungo periodo. Come osservato da Antonio Scalari su Valigia Blu e da Bill McKibben sul Guardian, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia dovrebbe anzitutto accelerare i piani di investimento in fonti rinnovabili: la transizione energetica è infatti anche una transizione geopolitica perché, una volta realizzata, renderà i Paesi europei più autonomi sullo scacchiere internazionale. L’Italia, in particolare, basa oggi la propria economia su un mix energetico fortemente dipendente dall’importazione di gas dalla Russia, anche per la generazione di elettricità, che potrebbe ottenere facilmente dal sole o dal vento. In buona sostanza, noi italiani dalla transizione energetica abbiamo da guadagnarci più che chiunque altro in Europa.
La transizione energetica come soluzione
Negli ultimi cinquant’anni, i progressi tecnologici delle fonti rinnovabili hanno superato ogni immaginazione: i pannelli solari, ad esempio, sono diventati due volte più efficienti e al tempo stesso mille volte meno costosi. Il potenziale produttivo dell’energia rinnovabile è enorme: la IEA stima che soltanto l’eolico offshore (cioè le pale eoliche installate in mare aperto) potrebbe produrre in futuro una quantità di elettricità pari a 18 volte gli attuali consumi mondiali. Ma l’energia ottenuta da fonte eolica o solare è già la soluzione più conveniente in molte parti del mondo e, combinata all’elettrificazione dei consumi (auto elettriche, pompe di calore, piani di cottura a induzione e quant’altro non funzioni a petrolio, gas, carbone o biomasse), potrebbe ridurre sensibilmente gli sprechi dell’energia fossile.
Saul Griffith, esperto di energie rinnovabili e autore di Electrify. An Optimist's Playbook for Our Clean Energy Future (2021), ha calcolato che la completa elettrificazione degli Stati Uniti ridimensionerebbe i consumi nazionali di energia del 57%, semplicemente per il fatto che i combustibili fossili dissipano circa i due terzi dell’energia che contengono tra estrazione, raffinatura, trasporto e combustione. Il futuro è quindi elettrico, ma siamo solo all’inizio della transizione: l’ultimo rapporto dell’IPCC ci ha ricordato per l’ennesima volta quanto sia importante realizzarla con urgenza, e non è escluso che le materie prime necessarie alla decarbonizzazione subiscano in futuro gli stessi squilibri di domanda e offerta che investono oggi il mercato dei combustibili fossili. Sono dinamiche in parte già osservabili nell’attuale crisi delle materie prime.
I minerali critici per la transizione energetica
L’unico vero limite delle tecnologie per l’energia rinnovabile risiede nel loro impiego considerevole di minerali critici come litio, tellurio, germanio e altri metalli rari. Sempre secondo i calcoli della IEA, un’automobile elettrica contiene in media sei volte la quantità di minerali necessaria a fabbricare un’automobile termica, mentre un impianto eolico onshore (cioè sulla terraferma) richiede nove volte la quantità presente in una centrale a gas con la stessa capacità. La Banca Mondiale, la IEA e altri organismi internazionali stimano che per rispettare l’Accordo sul clima di Parigi (cioè limitare al di sotto di 2 °C il riscaldamento medio globale rispetto al periodo preindustriale), il fabbisogno complessivo dei minerali utili alla transizione energetica dovrebbe crescere di quattro volte entro il 2040 e di sei volte per raggiungere l’obiettivo delle emissioni-zero entro il 2050.
La domanda sempre maggiore di pannelli solari, turbine eoliche e sistemi di accumulo sta già innescando una corsa internazionale all’approvvigionamento dei minerali critici e un incremento sensibile dei loro costi. Il cobalto, per esempio, è un materiale fondamentale per le batterie agli ioni di litio perché serve, tra le altre cose, a evitare che prendano fuoco: nel corso dell’ultimo anno il suo prezzo è più che raddoppiato. Il rischio è che la produzione di minerali critici possa non tenere il ritmo della richiesta di energia rinnovabile, determinando instabilità nelle catene della fornitura, eccessiva volatilità dei prezzi e un rallentamento della transizione verso le fonti pulite.
Nuove soluzioni e vecchie ingiustizie
Fortunatamente, i dati raccolti dalla IEA mostrano che le riserve disponibili di molti di questi minerali sono diverse volte superiori alla richiesta attuale, e cresceranno ancora in futuro grazie al miglioramento dei metodi di localizzazione, estrazione e riciclo. Un’altra buona notizia è che quasi nessuno di questi minerali critici è davvero insostituibile, e ovunque nel mondo si stanno sperimentando soluzioni innovative per rendere le tecnologie meno mineral-intensive.
Ad ogni modo, estrarre minerali per la transizione energetica ha e avrà comunque un impatto ambientale inferiore che continuare ad alimentarsi di combustibili fossili. Lo stesso Griffith ha calcolato che un cittadino statunitense medio consuma ogni anno 6200 chili di combustibili fossili, equivalenti a un monte di energia che sarebbe possibile ottenere con soli 50 kg di minerali critici impiegati in turbine eoliche, moduli solari e batterie. Il problema è che molti di questi minerali sono geograficamente concentrati in poche aree del pianeta e il più delle volte vengono estratti in condizioni che mettono a rischio la salute della manodopera o inquinano l’ambiente.
I siti di estrazione e raffinamento sono poi quasi interamente controllati dalla Cina, che domina l’industria delle rinnovabili ricorrendo anche a pratiche documentate di lavoro forzato degli uiguri, un’etnia di religione islamica che vive nel nord-ovest del Paese. C’è il serio pericolo che noi europei, per realizzare la transizione energetica e dispensarci dal dispotismo dei Paesi produttori di combustibili fossili, finiremo per alimentare nuove e vecchie forme di sfruttamento sociale e ambientale. Servirà tutta la nostra attenzione per salvare il nostro piccolo angolo di mondo senza distruggere quello altrui.
Le riserve di litio, nichel e cobalto (linea in rosso) superano l’attuale produzione mondiale
(fonte: IEA, The Role of Critical World Energy Outlook Special Report Minerals in Clean Energy Transitions, 2022, p. 123)
I maggiori Paesi produttori di rame, litio, nichel e cobalto e terre rare nel 2019 e una proiezione nel 2025
(fonte: IEA, The Role of Critical World Energy Outlook Special Report Minerals in Clean Energy Transitions, 2022, p. 121)
La Cina controlla la produzione mondiale di rame, litio, nichel e cobalto e terre rare
(fonte: IEA, The Role of Critical World Energy Outlook Special Report Minerals in Clean Energy Transitions, 2022, p. 31)
L’impiego dei minerali “critici” nelle fonti energetiche alternative a petrolio e carbone
(fonte: Banca Mondiale, The Mineral Intensity of the Clean Energy Transition, 2020, p. 37)