L’acqua dolce è la nostra risorsa naturale più preziosa. Costituisce il 3% di tutte le riserve idriche presenti sulla Terra, ma poiché per due terzi è intrappolata nei ghiacciai e nelle calotte polari, in realtà possiamo usarne meno dell’1%. Si tratta dunque di una risorsa limitata e sempre più scarsa a causa dei consumi eccessivi e dell’inquinamento, a cui si aggiungono i cambiamenti climatici, che stanno intensificando i periodi di siccità in diverse regioni del pianeta, Italia inclusa. L’ultimo allarme è stato lanciato nel 2023 da un rapporto delle Nazioni Unite: due miliardi di persone, pari a un quarto della popolazione mondiale, non hanno accesso a fonti sicure d’acqua potabile.
Eppure molto spesso non siamo consapevoli dell’enorme quantità di acqua che consumiamo – e talvolta sprechiamo – per soddisfare le nostre necessità, anche perché la gran parte dell’acqua che usiamo non serve per bere, lavarci, sciacquare i piatti o innaffiare le piante, bensì per produrre il cibo che mangiamo, i vestiti che indossiamo e tutti gli altri beni materiali che fanno parte della nostra vita quotidiana. Coltivare un’arancia, ad esempio, richiede circa 50 litri d’acqua, mentre per fabbricare un paio di jeans possono servirne fino a 8.000 litri.
L’acqua virtuale e l’impronta idrica
Per svelare il consumo di risorse idriche nella produzione e nel commercio dei beni materiali, il geografo inglese John Anthony Allan coniò nel 1993 il concetto di acqua virtuale. Un decennio più tardi, nel 2002, Arjen Hoekstra, esperto di gestione delle acque dell’Università di Twente, nei Paesi Bassi, perfezionò questo concetto definendo l’impronta idrica (in inglese water footprint) come la quantità di acqua dolce impiegata per produrre beni e servizi, in analogia all’impronta ecologica che, più in generale, misura l’impatto umano sulle risorse naturali.
L’impronta idrica può indicare il consumo di acqua dolce da parte di un individuo, di una comunità di persone, di un’intera popolazione o di un sistema produttivo. Per esempio, l’impronta idrica di una maglietta di cotone tiene conto dell’acqua consumata e inquinata nell’intero processo di fabbricazione, a partire dalla coltivazione del cotone, passando per le diverse fasi di lavorazione (filatura, tintura, taglio, cucito, stampa), fino al trasporto e alla vendita al dettaglio.
Impronta idrica verde, blu e grigia
L’impronta idrica ha tre componenti: verde, blu e grigia. L’impronta idrica verde considera l’acqua piovana che viene assorbita dal suolo e dalle piante, o che evapora e traspira, ed è particolarmente importante per l’agricoltura e la silvicoltura. L’impronta idrica blu si riferisce ai consumi di acqua prelevata da risorse superficiali (fiumi e laghi) o sotterranee (falde acquifere), che può essere usata per irrigare i campi coltivati, per l’uso domestico o per l’industria. Infine, l’impronta idrica grigia è la quantità di acqua dolce necessaria per diluire gli inquinanti emessi nei processi produttivi e ripristinare standard adeguati di qualità dell’acqua.
Nel loro insieme, le tre componenti dell’impronta idrica offrono un quadro completo del consumo umano di acqua dolce e delle sue conseguenze ambientali. L’impatto, infatti, non dipende solo dal volume di acqua sottratta all’ambiente o inquinata, ma anche dalla sua origine: per esempio, se è stata prelevata da un territorio con scarse riserve idriche, le conseguenze ecologiche e sociali saranno maggiori.
Infine, l’impronta idrica consente di valutare sia i nostri consumi diretti (cioè l’impiego di acqua dolce per le necessità quotidiane) sia i consumi indiretti (cioè l’acqua virtuale necessaria alla produzione dei beni che possediamo). La somma dei consumi diretti e indiretti restituisce l’impronta idrica, ma di norma i primi diretti sono assai inferiori ai secondi. In Italia, per esempio, il consumo diretto di acqua è in media di 236 litri al giorno a persona, ma tenendo conto anche dei consumi indiretti si arriva a un’impronta idrica media di 6.300 litri al giorno a persona.
L’iniqua geografia dei consumi
Secondo l’organizzazione non profit Water Footprint Network, nel mondo l’impronta idrica media procapite è pari a 1.385 metri cubi all’anno, l’equivalente di 8.650 vasche da bagno. Ma esistono grandi differenze fra i Paesi, dovute soprattutto agli stili di vita. Negli Stati Uniti, per esempio, l’impronta idrica procapite è di 2.842 metri cubi all’anno, oltre il doppio della media mondiale. L’Italia è tra le nazioni con la più elevata impronta idrica procapite, pari a 2.332 metri cubi all’anno. Si tratta di consumi insostenibili: se tutte le nazioni del mondo avessero la stessa impronta idrica degli Stati Uniti o dell’Italia non avremmo acqua per tutti.
Questi dati si riferiscono a un’importante studio sull’impronta idrica che ha preso in considerazione i consumi globali di acqua nel periodo 1996-2005. Lo studio è stato pubblicato nel 2011 sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences svelando che la produzione agricola contribuisce per ben il 92% all’impronta idrica dell’umanità. La ricerca ha inoltre mostrato l’enorme flusso di acqua virtuale che accompagna i commerci internazionali, pari a un quarto dell’impronta idrica globale. L’Italia spicca tra i maggiori importatori di acqua virtuale (101 miliardi di metri cubi all’anno), superata solo da Stati Uniti (234), Giappone (127), Germania (125) e Cina (121).
Le risorse idriche sono distribuite in modo inuguale nelle diverse regioni geografiche del pianeta e questa iniquità può aggravarsi quando l’acqua virtuale fluisce nella direzione sbagliata, cioè dalle regioni aride a quelle ricche d’acqua, come accade per esempio nel commercio di frutta e verdura coltivate nelle regioni del Mediterraneo ed esportate nei Paesi nordeuropei. John Anthony Allan aveva coniato il concetto di acqua virtuale proprio per illustrare come gli scambi commerciali di prodotti agricoli avessero per effetto lo spostamento di grandi quantità d’acqua da una parte all’altra del mondo, con il rischio di aggravare la siccità nei Paesi esportatori.
La gestione dell’acqua
Gestire in modo equo e sostenibile le risorse idriche è un problema sempre più urgente. Secondo un recente rapporto dell’OCSE, infatti, entro il 2030 la domanda globale di acqua dolce potrebbe eccedere del 40% la disponibilità, causando gravi crisi idriche in diverse parti del mondo. Gli esperti che hanno condotto lo studio hanno esortato i governi a intervenire urgentemente, smettendo di sovvenzionare i consumi eccessivi di acqua con sussidi agricoli mal indirizzati, e costringendo i settori industriali che impiegano più risorse idriche, dall’estrazione mineraria all’industria manifatturiera, a rivedere i loro processi produttivi.
Negli ultimi anni, il concetto di impronta idrica ha contribuito a diffondere una maggiore consapevolezza sulle conseguenze sociali e ambientali dei consumi eccessivi di acqua dolce, offrendo al tempo stesso strumenti di valutazione e strategie per ridurre gli impatti ambientali. Un settore cruciale su cui intervenire è l’agricoltura, che secondo la FAO, a livello mondiale, consuma il 70% delle risorse idriche e, come anticipato, è responsabile del 92% dell’impronta idrica globale. Anche in Italia l’agricoltura è il settore produttivo che consuma più acqua dolce, contribuendo all’85% dell’impronta idrica nazionale. Per effetto di questa consapevolezza, oggi si stanno diffondendo pratiche più virtuose come la coltivazione di varietà vegetali che richiedono meno acqua o la riduzione degli sprechi con sistemi di irrigazione più efficienti.
Per quanto riguarda il nostro Paese, inoltre, gli esperti concordano sulla necessità di interventi strutturali per gestire in modo più efficiente il nostro patrimonio idrico e ridurre gli sprechi. A causa dell’usura e della scarsa manutenzione, infatti, la rete idrica nazionale perde oltre il 42% dell’acqua immessa nelle condutture, causando la dispersione di 3,4 miliardi di metri cubi di acqua, sufficienti a soddisfare i bisogni annuali di oltre due terzi degli italiani.
L’acqua in etichetta
Il Water Footprint Network esorta anche le aziende a fare la loro parte, evitando anzitutto gli sprechi d’acqua nei processi produttivi e ogni forma di inquinamento delle risorse idriche. È inoltre fondamentale che le imprese riducano l’impronta idrica della catena di approvvigionamento, stipulando accordi di fornitura che assicurino standard di sostenibilità e la massima trasparenza verso i consumatori.
Secondo gli esperti si potrebbe garantire una maggiore trasparenza se l’impronta idrica dei prodotti in commercio fosse riportata in etichetta. A detta del Water Footprint Network questo consentirebbe al consumatore di scegliere prodotti più sostenibili e premierebbe le aziende che si sono impegnate a consumare meno acqua. Non è semplice da realizzare perché l’etichettatura richiede accordi internazionali, ma si potrebbe cominciare dai prodotti con una maggiore impronta idrica, come il cotone, il riso o lo zucchero.
Cosa possiamo fare noi
Sebbene un impiego più sostenibile delle risorse idriche necessiti di interventi strutturali nei settori economici che consumano più acqua, a partire dall’agricoltura e dall’industria, anche i nostri comportamenti individuali possono contribuire a preservare di questa preziosa risorsa. Possiamo agire anzitutto sulla nostra impronta idrica diretta riducendo i consumi d’acqua per uso domestico, ad esempio installando servizi igienici a risparmio idrico, riparando rubinetti o sciacquoni che sgocciolano, facendo docce brevi, usando la lavatrice e la lavastoviglie solo a pieno carico e smaltendo in modo corretto medicinali, oli usati, vernici e altre sostanze chimiche che possono inquinare le riserve idriche.
Pur essendo gesti importanti, con concreti vantaggi economici e ambientali, occorre però ricordare che l’impronta idrica indiretta è molto maggiore e dipende soprattutto dalle nostre scelte alimentari e di consumo. In particolare, mangiare più frutta e verdura e meno carne – oltre a proteggere la nostra salute – è la scelta individuale più efficace per ridurre la nostra impronta idrica, visto che per produrre alimenti vegetali serve molto meno acqua rispetto agli alimenti di origine animale (latte, uova, formaggi), usata per lo più nella produzione dei mangimi.
Coltivare una mela, per esempio, richiede circa 70 litri d’acqua, l’equivalente di una doccia, mentre per un hamburger di manzo da 150 grammi servono circa 2.400 litri d’acqua, pari alla capacità di 16 vasche da bagno. Uno studio condotto dalla Commissione Europea e pubblicato nel 2018 sulla rivista scientifica Nature Sustainability ha mostrato che mangiare meno carne rossa può ridurre l’impronta idrica dall’11% al 35%. Sostituendo la carne con il pesce o adottando una dieta vegetariana si arriva a una riduzione compresa tra il 33% e il 55%.
L’impronta idrica del cibo
Per aumentare la consapevolezza dei consumatori, il Water Footprint Network ha realizzato una pagina interattiva che consente di confrontare l’impronta idrica dei diversi alimenti. Si può così scoprire che non tutte le carni sono uguali: mentre produrre un chilogrammo di carne bovina richiede circa 15.400 litri, per la stessa quantità carne di maiale servono 6.000 litri, per quella di pollo 4.300 litri. In ogni caso, la carne ha sempre un’impronta idrica di gran lunga maggiore rispetto alla verdura, che in media può essere coltivata con appena 300 litri al chilogrammo. La conclusione non cambia confrontando i consumi di acqua a parità di calorie fornite: l’impronta idrica per caloria della carne è in media 20 volte maggiore di quella dei cereali o delle patate.
La carne non è però l’unico alimento che consuma grandi quantità di risorse idriche. Produrre un chilogrammo di caffè tostato, per esempio, richiede quasi 19.000 litri di acqua dolce e una sola tazzina ne sottrae all’ambiente 130 litri. Peggio ancora avviene con le fave di cacao da cui si ricava il cioccolato, che hanno un’impronta idrica di 20.000 litri al chilogrammo. Tutto questo mostra quanto sia importante evitare ogni spreco alimentare: buttare via anche una sola fetta di pane significa infatti gettare anche i circa 40 litri d’acqua impiegati per produrla.
L’impronta idrica dell’abbigliamento
Anche i nostri vestiti hanno un’elevata impronta idrica. Occorrono 10.000 litri di acqua per coltivare un chilogrammo di cotone, mentre confezionare una singola t-shirt con questo materiale, tenendo conto delle successive lavorazioni, richiede 2.700 litri d’acqua, circa la stessa quantità che una persona beve in due anni e mezzo. Nel suo complesso, l’industria tessile consuma ben 93 miliardi di metri cubi di acqua all’anno, pari a circa il 4% delle risorse idriche usate a livello globale.
Preferire indumenti di fibre sintetiche a quelli in cotone non è però una buona idea perché le fibre artificiali come il nylon e il poliestere sono prodotte a partire dagli idrocarburi e perciò contribuiscono sia alla crisi climatica che all’inquinamento da plastica. Dal punto di vista della sostenibilità, la scelta migliore è non acquistare vestiti nuovi se non se ne ha davvero bisogno, evitando così sprechi di acqua e di altre materie prime, emissioni di gas serra e la contaminazione delle risorse idriche dovuta ai pesticidi, ai fertilizzanti e ai coloranti impiegati nel settore tessile.
Calcola la tua impronta idrica
Sul sito web del Water Footprint Network è possibile stimare la propria impronta idrica mediante due strumenti interattivi: nel primo, più semplificato, basta inserire il Paese in cui si vive, il tipo di dieta e il reddito annuale per farsi un’idea dell’acqua richiesta dal nostro stile di vita; il secondo, più complesso, tiene conto anche del consumo settimanale dei diversi alimenti e dell’impiego domestico di acqua.
In alternativa si può ricorrere al calcolatore del WWF, che consente di riempire un carrello virtuale con i nostri prodotti preferiti e, arrivati alla cassa, di scoprire a quanto ammonta il conto ambientale della nostra spesa in termini di impronta idrica e di impronta di carbonio.
immagine in copertina: Stoppe, Wikipedia
I flussi di acqua virtuali importati in Europa espressi in miliardi di metri cubi all’anno (immagine: Water Footprint Network)
L’impronta idrica di alcuni alimenti comuni nella nostra dieta (immagine: Zanichelli)
Una dieta a base di alimenti vegetali è molto più sostenibile (immagine: silviarita via pixabay)
Un campo di piante di cotone (immagine: Trisha Downing via unplash)