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Speciale Antropocene

L’impatto ambientale dei nostri consumi di carne

La crescita della popolazione mondiale e della produzione di proteine animali ci impone una riflessione sui rischi ecosistemici degli allevamenti intensivi

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Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura (FAO), nel corso di questo decennio l’aumento della popolazione sul pianeta e la maggior disponibilità economica faranno risalire sia il costo della carne (crollato durante la pandemia di COVID-19), sia la sua abbondanza sulle tavole, in particolare nei Paesi in via di sviluppo. In quelli ad alto reddito, invece, il consumo si stabilizzerà e si sposterà su tagli più pregiati, forte delle raccomandazioni degli esperti, che soprattutto per la carne rossa invitano alla moderazione: non più di 500 grammi a settimana, in una dieta bilanciata ricca di frutta e verdura.

Come produrremo tutta questa carne? La risposta sembra obbligata: negli allevamenti intensivi, in cui l’obiettivo è massimizzare il profitto che deriva dall’allevamento degli animali, controllando e ottimizzando le condizioni nelle quali crescono (nutrizione, cure veterinarie, luce, temperatura, umidità, ecc.) per garantire una vasta produzione di carne a basso costo, da immettere sul mercato rapidamente.

E le proteine artificiali, cioè sintetizzate in laboratorio? Difficilmente vedremo presto la cosiddetta “carne in provetta” nei supermercati. Gli esperti sono ancora cauti, non solo per quanto riguarda l’accoglienza da parte dei consumatori, scoraggiati da un cibo percepito come “innaturale”, ma anche per la reale capacità di produrne abbastanza da avere un effetto concreto sui consumi.

La zootecnia nel mondo

Molti Paesi non forniscono dati dettagliati, rendendo difficile quantificare gli allevamenti che possiamo definire intensivi. Sappiamo però che la zootecnia è legata a doppio filo con la sicurezza alimentare: secondo la FAO, già nel 2009 il 70% delle persone in condizioni di estrema povertà (circa un miliardo e mezzo) dipendeva dall’allevamento. Ma per i piccoli produttori è sempre più difficile competere con l’economia di scala degli allevamenti intensivi, dove l’elevato volume di produzione consente di ridurre i costi. E così, mentre il numero di aziende diminuisce – in Cina, tra il 1996 e il 2005, hanno chiuso quasi sette allevamenti di pollame su dieci – quello degli animali resta stabile o addirittura aumenta, ma solo negli allevamenti industriali.

A detenere il record è proprio la Cina con i due più grandi allevamenti intensivi al mondo: Mudanjiang City Mega Farm e China Modern Dairy, che contano rispettivamente 100.000 e 230.000 bovini, mentre nella provincia di Hubei un altro progetto mastodontico punta a una capacità di 650.000 scrofe. Negli Stati Uniti, invece, alla fine del 2020 le cosiddette “Concentrated Animal Feeding Operations” (CAFOs) erano quasi 21.500.

Spostandoci in Europa, nel Regno Unito la stima più recente parla di oltre mille mega-farms, mentre in Spagna le macrogranjas di polli e maiali sono quasi 3.400. Nel Paese iberico, che da tempo è al centro di accese discussioni sugli impatti ambientali della zootecnia, vivono anche circa sette milioni di bovini. Nella piccola cittadina di Noviercas, a Nord di Madrid, stava per entrare in attività un’azienda zootecnica che, con 23.000 capi di bestiame, puntava a diventare il più grande allevamento di bovini europeo, ma lo scorso dicembre il governo spagnolo ha imposto per decreto un tetto massimo al numero di animali allevati, pari a 725 vacche adulte, bloccando così il progetto.

Gli allevamenti in Italia

Secondo la Banca Dati Nazionale dell'Anagrafe Zootecnica (BDN), gli allevamenti in Italia sono oltre 370.000 e la regione che ne conta di più è il Lazio, seguita da Lombardia e Campania. Ci vivono oltre sei milioni tra bovini e bufalini, quasi sette milioni di pecore, oltre un milione di capre e quasi otto milioni e mezzo di maiali.

Più difficile è stabilire quanti di questi allevamenti possano essere definiti intensivi. Possiamo usare come riferimento le emissioni inquinanti, considerando che gli impianti industriali sono monitorati dall’E-PRTR (European Pollutant Release and Transfer Register), il registro integrato per le emissioni e i trasferimenti di inquinanti. Vi sono inclusi solo gli stabilimenti che ospitano oltre 40.000 polli, più di 2.000 maiali o di 750 scrofe, e che hanno l'obbligo di comunicare i dati sulle proprie emissioni.

Una recente inchiesta di Greenpeace Italia ha incrociato questi dati con quelli dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), per identificare gli allevamenti italiani più inquinanti che ricevono fondi pubblici dalla Politica Agricola Comune (PAC): ne è emerso che sono 894, quasi tutti in Pianura Padana, e che rappresentano il 90% delle aziende zootecniche su scala industriale del nostro Paese.

Il costo per l’ambiente

Tra le aziende tenute a comunicare le emissioni al registro europeo non compaiono le realtà più piccole e mancano in toto gli allevamenti di bovini, nonostante globalmente siano responsabili del 65% delle emissioni del settore. Complessivamente, nel triennio 2018-2020 le emissioni di gas serra dovute alla produzione di carne rappresentavano oltre il 50% di quelle del settore agricolo.

Inoltre, il 94% dell’ammoniaca e il 55% delle emissioni di metano nell’Unione Europea derivano dal settore agricolo. L’ammoniaca, l’inquinante più monitorato, è un precursore delle polveri sottili PM 2.5, un particolato molto dannoso per la salute umana. Il metano, invece, è un precursore dell’ozono troposferico (un inquinante presente negli strati più bassi dell’atmosfera) e un potente gas serra: il suo contributo ai cambiamenti climatici è secondo solo a quello del diossido di carbonio (CO2), e nel momento in cui viene rilasciato è fino a 80 volte più efficace nell’intrappolare il calore.

Arrivati al 2030, inoltre, non sapremo più che fare con il letame prodotto negli allevamenti, circa cinque miliardi di tonnellate l’anno. Solo una parte potrà diventare fertilizzante o biometano e già oggi i danni provocati dalla cattiva gestione sono incalcolabili: l’enorme quantità di nutrienti presente nel letame, quando viene sversato nei fiumi o contamina le acque sotterranee, è responsabile dell’eutrofizzazione, ovvero la crescita incontrollata di alghe che consumano l’ossigeno e causano alla lunga la scomparsa di molte specie ittiche.

Una minaccia per le foreste

Gli allevamenti e le coltivazioni destinate alla produzione di mangimi hanno un impatto rilevante anche sulle foreste e sulla biodiversità. Già oggi, infatti, un quarto della superficie del pianeta è occupata da pascoli, e un terzo delle colture è destinato alla produzione di mangime. Inoltre, l'ulteriore espansione del settore agricolo è la causa del 90% della deforestazione sul pianeta. Solo nell’Amazzonia brasiliana, negli ultimi 30 anni, oltre 780.000 chilometri quadrati di foreste sono andati perduti per sempre.

Non è però tutta colpa delle attività intensive: tra il 2000 e il 2010 l’agricoltura su larga scala (pascoli, coltivazione di soia e palme da olio, ecc.) è stata responsabile del 40% della deforestazione nelle zone tropicali, ma quella di sussistenza (la cui produzione basta solo a nutrire il contadino e la sua famiglia) ne ha causato un ulteriore 33%. Come possiamo rinunciare agli allevamenti intensivi, se una zootecnia "più sostenibile” richiede inevitabilmente più aree di pascolo e altra deforestazione?

Non esiste una risposta semplice, ma tra i suggerimenti (in particolare per l’Amazzonia) c’è quello di sfruttare in regime intensivo le aree già disboscate per massimizzare la produzione. Secondo diversi scienziati, l’impatto ambientale tra uso di fertilizzanti, aumento del bestiame e irrigazione sarebbe comunque accettabile se confrontato con quello di un’ulteriore deforestazione. L’unica alternativa davvero sostenibile, tuttavia, sarebbe ridurre i consumi eccessivi di carne, e quindi anche il numero di animali allevati e la quantità di mangimi necessari per nutrirli, con evidenti benefici sia per l’ambiente, sia per la nostra salute, individuale e collettiva.

Il rischio di zoonosi

La maggior parte delle malattie infettive emergenti sono zoonosi, cioè patologie trasmesse agli esseri umani dagli animali. Spesso derivano da virus che vivono nelle specie domestiche, come bovini, polli e maiali, ma anche in primati e chirotteri, che in Asia e Africa vengono mangiati (la cosiddetta bush meat, tra gli elementi chiave della terribile epidemia di ebola del 2014).

Diverse epidemie recenti, dall’influenza aviaria dovuta al virus H5N1 alla cosiddetta influenza suina, causata dal virus H1N1, hanno avuto origine negli allevamenti di polli e maiali. Il basso livello di benessere degli animali allevati in regimi intensivi e il loro frequente trasporto su lunghe distanze giocano un ruolo importante nella diffusione di zoonosi e patologie veterinarie, ma non è da meno il contatto accidentale con la fauna selvatica. Nelle zone deforestate, infatti, bestiame e allevatori si trovano molto vicini a popolazioni di animali selvatici potenzialmente vettori di virus, e in pessime condizioni demografiche e di benessere a causa della perdita del proprio habitat.

Sono solo gli allevamenti industriali a contribuire a questi rischi? In realtà, nei sistemi intensivi lavorano meno persone ed è più semplice rispettare le norme di biosicurezza (quarantene, disinfezione, ridotto contatto tra operatori e animali), ma al contempo vengono prodotte enormi quantità di reflui carichi di patogeni e ci sono le condizioni adatte – come la scarsa diversità genetica e il contatto fra molti animali costretti a vivere in spazi ristretti – per diffondere e far adattare un virus. Eppure non mancano gli sguardi critici, secondo cui non abbiamo dati sufficienti per poter additare gli allevamenti intensivi come unici colpevoli. Ancora non siamo certi di quali siano i principali punti di ingresso dei patogeni, e per rispondere alla crescente domanda di carne con sistemi non intensivi servirebbero più pascoli, che aumenterebbero la deforestazione e le occasioni di contatto con la fauna selvatica.

Il futuro della zootecnia

Nell’aprile 2022 l’Unione Europea ha avanzato delle proposte per modificare l’Industrial Emissions Directive (IED), il principale strumento regolatorio europeo per le emissioni industriali, che intende includere gli allevamenti intensivi di bovini tra quelli le cui emissioni verranno monitorate. Ma tra le novità l’European Environmental Bureau (EEB) sottolinea anche importanti criticità.

Si parla infatti in modo vago di inquinanti, si lascia totale libertà agli Stati membri rispetto alle ispezioni e si propone di alleggerire gli obblighi per le aziende, compresi parte del monitoraggio della qualità del suolo e delle acque sotterranee: un passo indietro che l’EEB definisce “inaccettabile”. Mancano inoltre reali valutazioni economiche e tecnologiche, per una transizione che diversifichi la zootecnia e non la forzi verso i sistemi industriali.

Come possiamo dunque costruire un futuro in cui il consumo di carne globale sia meno impattante? Secondo la FAO serviranno investimenti in ricerca e sviluppo, migliore gestione dei pascoli affinché assorbano più CO2, ma anche incentivi finanziari come crediti verdi, maggiori tassazioni per chi inquina di più e prestiti facilmente accessibili per chi investe nell’adozione di pratiche meno impattanti.

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Secondo i dati ISTAT, a fine 2021 negli allevamenti italiani vivevano oltre 8.400.000 suini. Fotografia di Suzanne Tucker, via Unsplash

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La produzione di carne sul pianeta, quantificata in milioni di tonnellate di proteine (fonte: FAO)

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Il processo di eutrofizzazione in uno stagno nel Regno Unito (fotografia di Kolforn, CC BY-SA 4.0; Wikimedia Commons)

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Alcuni esempi di zoonosi e delle specie animali che le trasmettono agli esseri umani. Da un’analisi GAO (U.S. Government Accountability Office) (immagine: Wikimedia Commons)