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Speciale Antropocene

La de-estinzione non è la soluzione per la perdita di biodiversità

Riportare in vita specie estinte è un sogno della fantascienza, accarezzato oggi dall’ingegneria genetica, ma probabilmente destinato a restare tale

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Ricreare creature che credevamo perdute per sempre è possibile? Da sogno della fantascienza, la de-estinzione, ovvero la ricostruzione di specie estinte, è oggi un’opzione sempre più presa sul serio. L'ultima proposta arriva da un'azienda texana che vorrebbe riportare in vita il tilacino (o lupo della Tasmania), un marsupiale australiano, estinto dal 1936 a causa dell’essere umano. Ma c'è chi progetta di ricostruire anche mammut, dodo e altre specie scomparse. L’idea è che la biotecnologia possa in qualche modo “rimediare” all’estinzione, riportando indietro la crisi di biodiversità in atto, se non addirittura ricostruendo interi ecosistemi. Ma, nonostante il loro fascino, questi scenari si scontrano con enormi problemi, sia pratici, sia etici.

I primi tentativi

L’idea di far risorgere specie estinte risale alla Germania degli anni Trenta del XX secolo, quando i fratelli Lutz e Heinz Heck decisero di far risorgere l’uro (Bos primigenius), l’antenato selvatico del bue domestico attuale, il cui ultimo esemplare morì nel 1627 in Polonia. Gli Heck decisero di usare una serie di incroci mirati - una tecnica nota come backbreeding - per cercare di ricostruire, dalle mucche attuali, una razza bovina che si avvicinasse il più possibile all’antenato. Il tentativo dei fratelli Heck fu un fallimento: i loro buoi somigliavano superficialmente a un uro, ma non avevano più a che fare con l’animale estinto di una qualsiasi altra razza di buoi. Dal 2008, però, il progetto Tauros sta ritentando lo stesso approccio.

Per arrivare ai primi tentativi veri e propri di de-estinzione dobbiamo arrivare al 2003, con la clonazione dello stambecco dei Pirenei (Capra pyrenaica pyrenaica). Questa specie abitava da millenni le vette al confine tra Francia e Spagna e si estinse a causa della caccia indiscriminata; il suo ultimo esemplare, una femmina di nome Celia, morì il 6 gennaio del 2000. Pochi mesi prima, però, i ricercatori del Parco Nazionale di Ordesa e Monte Perdido, in Spagna, avevano raccolto campioni di tessuto dall’orecchio di Celia e lo avevano congelato, nella speranza di poterlo usare per ricostruire la specie. Da ben 497 embrioni clonati dalle cellule di Clelia nacque solo un cucciolo, che morì sette minuti dopo la nascita a causa di una malformazione ai polmoni. La clonazione dello stambecco dei Pirenei non è mai più stata ritentata, ma ha dimostrato che è possibile clonare specie estinte, se si hanno cellule vive della specie a disposizione.

Qualcosa di simile, ma con successo, è avvenuto invece per la pianta Cylindrocline lorencei, nativa delle Isole Mauritus. Estinta in natura dal 1982, di Cylindrocline lorencei non restavano che alcuni semi custoditi in un erbario di Brest, in Francia, che però non riuscivano a germinare. Nel 2001 alcune cellule ancora vitali vennero estratte dai semi e propagate in vitro fino ad ottenere cloni di nuove piante, che nel 2006 vennero reintrodotte nel loro ambiente naturale.

Ricostruire il Pleistocene

Fin qui si tratta di specie estinte in tempi estremamente recenti, di cui erano ancora disponibili tessuti vivi. La vera sfida è la ricostruzione di specie perse da secoli o millenni. L’idea di recuperare DNA antico e usarlo per clonare animali di tempi remoti inizia a farsi strada già tra gli anni Settanta e Ottanta del XX secolo. Nella fantascienza, dove spesso ci si focalizza sulla resurrezione dei dinosauri, con la pubblicazione per esempio del fumetto The Cursed Earth del 1978 o del romanzo Carnosaur del 1984, fino al celeberrimo Jurassic Park di Michael Crichton, nel 1990. Ma anche nella comunità scientifica: è nel 1983, alla Conferenza sul DNA Estinto di Bozeman, in Montana (Stati Uniti), che per la prima volta si parla della possibilità estrarre DNA da insetti fossili nell’ambra.

Si trattava di una falsa pista: oggi sappiamo che nella resina, da cui deriva l’ambra, il DNA dura meno di un secolo: il DNA dei dinosauri è perso per sempre. È però possibile davvero recuperare il DNA di specie antiche. Già nel 1984 Allan Wilson e colleghi pubblicarono sequenze di DNA del quagga, una sottospecie della zebra, estinta nel 1883. Ma è con il lavoro di Svante Pääbo, vincitore nel 2022 del Premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina, che nasce davvero la disciplina della paleogenomica. Siamo così riusciti a ottenere i genomi non solo di specie come il quagga, il tilacino o il dodo, estinte decenni o secoli fa, ma anche di organismi risalenti fino a un milione e 600.000 anni fa come i mammut, i rinoceronti lanosi o l’uomo di Neanderthal.

Somiglianti, ma non identici

C’è però un problema per la de-estinzione. Questi genomi esistono, di fatto, solo nei nostri computer, non in cellule vive. Il DNA antico, infatti, è estremamente frammentato, e le sequenze vere e proprie vengono assemblate al calcolatore come nella ricostruzione di un complesso mosaico. I biologi molecolari hanno quindi ipotizzato una strada alternativa. Possiamo usare come base di lavoro il genoma della specie vivente più vicina a quella estinta - nel caso del mammut, per esempio, l’elefante indiano - e modificarlo nei punti in cui sono diversi, fino a farlo coincidere con quello della specie desiderata.

Seguire fedelmente questo approccio significa modificare milioni di “lettere” del DNA; per intenderci, ci sono circa un milione e 400.000 nucleotidi di differenza tra il genoma del mammut e quello dell’elefante indiano, con oltre 1.600 geni modificati. Nonostante oggi tecnologie come Crispr abbiano reso relativamente facile questo tipo di “trova-e-sostituisci” genetico, modificare in modo accurato milioni di lettere del genoma resta al di là di ogni possibilità pratica ed economica.

Di fatto, quindi, almeno nel prossimo futuro, non potremmo ottenere la specie estinta, ma una sorta di suo simulacro biologico, in cui avremmo inserito alcuni geni che codificano le differenze ritenute da noi più importanti tra le due specie. Nel caso del mammut per esempio si potrebbe ricostruire la crescita della pelliccia e la tolleranza al freddo. Si tratterebbe però, di fatto, di elefanti adattati al clima artico, con alcune sequenze genetiche analoghe a quelle del mammut, non di mammut veri e propri. Non è chiaro quindi se si possa parlare veramente di de-estinzione o semmai della costruzione biotecnologica di specie somiglianti, ma non identiche, a quelle estinte.

I motivi per de-estinguere

I proponenti della de-estinzione argomentano che questa è, innanzitutto, una questione etica. Come ha detto il paleontologo australiano Michael Archer, «Se è chiaro che abbiamo sterminato una specie, allora penso che non solo abbiamo un obbligo morale di riportarla in vita, ma un imperativo. Dobbiamo fare qualcosa, se possiamo». La de-estinzione permetterebbe non solo di  recuperare la biodiversità perduta, ma anche di rafforzare ecosistemi esistenti messi in crisi dall’assenza di specie che una volta erano fondamentali; o addirittura ricostruire ecosistemi passati.

Un esempio è la ricostruzione degli ecosistemi siberiani del Pleistocene, ipotizzata dall’ecologo russo Sergey Zimov nel 1988. La megafauna che abitava l’Eurasia fino a poche decine di migliaia di anni fa - mammut, ma anche rinoceronti lanosi, bisonti, buoi muschiati - creava le condizioni per l’esistenza della cosiddetta “steppa dei mammut”, una enorme prateria artica di erbe alte e salici che oggi è stata quasi completamente sostituita dai muschi e licheni della tundra.

Sappiamo che la steppa permetterebbe di abbassare la temperatura del suolo artico e quindi di mantenere il permafrost - lo strato di suolo perennemente sotto zero nelle zone polari - oggi messo a rischio dal riscaldamento globale. A sua volta, impedire lo sciogliersi del permafrost permetterebbe di evitare il rilascio dei gas serra, come il metano, intrappolato in esso. In sostanza, ricostruire la fauna del Pleistocene sarebbe una possibile soluzione alla crisi climatica.

Perché è una falsa soluzione

Buona parte della comunità scientifica è però assai scettica. Nel 2017 uno studio ha stimato che - anche ignorando i costi iniziali per ricreare specie estinte con l’ingegneria genetica - mantenere e propagare queste creature costerebbe enormemente di più del proteggere specie in via d’estinzione ancora esistenti. Al punto che finanziare progetti di de-estinzione potrebbe portare a una perdita netta di biodiversità. In altre parole, potremmo trovarci un giorno nella situazione paradossale di riavere i mammut, ma avendo lasciato estinguere gli elefanti. Nell’agosto 2022 l’azienda biotecnologica Colossal ha raccolto 75 milioni di dollari di fondi per la ricostruzione del tilacino e del mammut, ma non vi sono ancora passi concreti significativi, e non è chiaro quanto denaro dovrà essere speso.  

Specie estinte da molto tempo, inoltre, si troverebbero a vivere in habitat che, nel frattempo, sono cambiati rispetto a quelli a cui erano adattate. La steppa dei mammut, per esempio, non esiste più, e non è chiaro se i mammut potrebbero prosperare nell'attuale tundra siberiana. Viceversa, quando scompare una specie, scompaiono anche i predatori, parassiti e patogeni che servivano a tenere sotto controllo la popolazione di queste specie. Una specie de-estinta con successo, priva di nemici naturali, potrebbe diventare invasiva e mettere a repentaglio ecosistemi non più adattati alla sua presenza. Infine, molte specie di uccelli e mammiferi che si pensa di de-estinguere vivevano in comunità molto ampie. Perlomeno nelle prime fasi sarebbe molto difficile far vivere questi animali in condizioni che ne garantiscano il benessere. Molto probabilmente le specie de-estinte finirebbero per vivere in zoo o piccole riserve, cioè in condizioni artificiali.

Oggi i progetti di de-estinzione sono ancora allo stadio teorico o poco più. Tuttavia non è impossibile che nei prossimi anni i laboratori ricostruiranno forme di vita più o meno simili a specie estinte. Dal punto di vista ecologico però è assai probabile che convenga concentrare i nostri sforzi sulla conservazione delle oltre 40.000 specie che, secondo la Lista Rossa della IUCN, sono ancora tra noi ma rischiano di scomparire. La de-estinzione è un tour de force di ingegneria genetica che soddisfa di certo il nostro sogno romantico di rivedere creature perdute che popolano la nostra fantasia, ma non sembra una soluzione pratica per ripristinare la diversità di forme di vita sulla Terra.

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Un esemplare di tilacino fotografato nel 1936 nello zoo di Beaumaris, in Australia. Foto di Ben Sheppard. (fonte: Wikimedia Commons)

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Scheletro di mammut colombiano (Mammuthus columbi) al Page Museum di Los Angeles, Stati Uniti. (Wikimedia Commons)

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“Lyuba”, una cucciola di mammut di 42.000 anni fa, preservata grazie al permafrost nel nord della Siberia. Grazie a campioni come questi è stato possibile ottenere il genoma del mammut, condizione essenziale per la sua possibile de-estinzione. (Wikimedia Commons)

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L’altopiano di Ukok, uno degli ultimi resti dell’ambiente noto come “steppa dei mammut”, che nel Pleistocene occupava gran parte dell’Eurasia. Con la scomparsa della megafauna del Pleistocene anche la steppa è scomparsa. (Wikimedia Commons)

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Un dipinto dello stambecco dei Pirenei (Capra pyrenaica pyrenaica), estinto nel 2000 e clonato nel 2003; il clone è sopravvissuto solo pochi minuti. (fonte: Wikimedia Commons)

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La pianta Cylindrocline lorencei, estinta in natura dal 1990, sopravvissuta solo grazie alla clonazione di cellule degli ultimi semi rimasti. È al momento l’unico esempio di de-estinzione di successo. (fonte: Wikimedia Commons)

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Una zanzara inclusa nell’ambra. Da fossili simili si pensava, negli anni Ottanta del XX secolo, di poter ricavare DNA per clonare specie estinte da decine o centinaia di milioni di anni, come nella saga di fantascienza Jurassic Park. Oggi sappiamo che il DNA non sopravvive nell’ambra. (Wikimedia Commons)

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Mammut lanosi (Mammuthus primigenius) in un paesaggio del tardo Pleistocene nel nord della Spagna. (Wikimedia Commons)