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Cos’è il greenwashing e come riconoscerlo

Le pubblicità green di molte aziende nascondono spesso un ambientalismo di facciata, una nuova forma di negazionismo climatico da fronteggiare

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Sempre più spesso le pubblicità promettono ai consumatori prodotti sostenibili e rispettosi dell’ambiente, persino quando sponsorizzano aziende con grandi responsabilità nella crisi ecologica e climatica: colossi del gas e del petrolio, case automobilistiche, compagnie aeree, multinazionali di bibite e acque minerali vendute in bottiglie di plastica. In molti casi non è altro che greenwashing, ovvero l’impiego di tecniche di marketing per mostrarsi più green di quanto non si sia davvero. Nei casi peggiori, è un modo per distogliere l’attenzione dalle proprie responsabilità ambientali e continuare a inquinare.

Secondo la definizione dell’Enciclopedia Treccani, il greenwashing è una «strategia di comunicazione o di marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo». Il termine inglese, che in senso letterale significa «lavaggio verde», richiama il verbo whitewash, ovvero «dare la calce, imbiancare» o, in senso lato, l’intenzione di coprire o nascondere qualcosa. In italiano viene perciò spesso tradotto con l’espressione «ambientalismo di facciata»

Dagli asciugamani alla sostenibilità

La parola greenwashing venne coniata nel 1986 dall’ambientalista statunitense Jay Westerveld, ricordando un episodio avvenuto alcuni anni prima, quando era ancora studente. Westerveld si trovava in un resort delle Fiji, dove si era intrufolato per rubare degli asciugamani puliti, quando notò un biglietto lasciato dal personale dell’albergo che invitava i clienti a non cambiare troppo spesso la biancheria, così avrebbero contribuito a proteggere gli oceani e la barriera corallina. Negli anni successivi la stessa pratica si sarebbe diffusa tra le catene alberghiere di mezzo mondo. Ma dietro le buone intenzioni – evitare lavatrici inutili riduce i consumi di acqua, energia e detersivi dispersi nell’ambiente – Westerveld sospettò che il vero intento fosse risparmiare sulle spese e quindi guadagnare di più, dato che l’impatto ecologico di quel resort di lusso e in continua espansione a scapito del litorale andava ben oltre qualche lavatrice in più.

A partire dagli anni Novanta il ricorso al greenwashing non ha fatto che estendersi, di pari passo con la crescente attenzione dell’opinione pubblica nei confronti dell’ambiente. Le aziende hanno infatti compreso che mostrarsi green è un vantaggio sia in termini di immagine che di vendite, perché sempre più consumatori scelgono cosa acquistare valutando anche l’impatto ecologico dei prodotti. Qualcosa di simile è avvenuto nel dialogo tra istituzioni e cittadini sullo sviluppo sostenibile, in cui si intrecciano questioni ambientali e sociali. Da qualche anno aziende e governi hanno incrementato gli impegni – più o meno genuini – verso la sostenibilità e la responsabilità sociale. Al punto che oggi persino le multinazionali del gas e del petrolio possono arrivare a sostenere che le fonti fossili, contribuendo allo sviluppo economico, avrebbero un impatto positivo sulle comunità più discriminate, favorendo l’emancipazione delle minoranze e la riduzione delle ingiustizie. Questa tendenza è stata battezzata da alcuni ricercatori wokewashing, cioè attivismo di facciata.

Perché è difficile riconoscerlo

Sebbene la tentazione di ricorrere al greenwashing sia molto diffusa, non significa che non esistano aziende e istituzioni realmente impegnate nella sostenibilità. Il Corriere della Sera, in collaborazione con la piattaforma digitale Statista, che gestisce una delle più ampie banche dati di statistiche in ambito economico, ha provato a stilare una classifica delle cento realtà italiane più attente al clima. Per i consumatori, tuttavia, non è sempre facile riconoscere il greenwashing né distinguere tra l’impegno genuino di un’azienda verso la sostenibilità e chi si limita a sfruttare il marketing per rifarsi un’immagine green. Spesso il greenwashing non si basa su affermazioni smaccatamente false bensì, in modo più subdolo, su mezze verità enfatizzate ad arte per mettere in luce quel che di buono (spesso assai poco) è stato fatto e occultare il resto.

Negli ultimi anni sono state pubblicate numerose linee guida per smascherare l’ambientalismo di facciata. Possibili indizi di greenwashing sono:

  • l’eccessiva enfasi su aspetti minoritari della propria attività, scelti ad arte per mostrarsi più verdi di quel che si è;
  • affermazioni vaghe o generiche che possono essere facilmente fraintese dai consumatori;
  • l’assenza di informazioni verificabili a supporto di quanto viene dichiarato;
  • il ricorso a certificazioni fornite da organi non indipendenti o affidabili.

Gli esperti suggeriscono anche di diffidare delle pubblicità e dei packaging che sfruttano immagini di ambienti naturali incontaminati che nulla hanno a che fare con il prodotto, si tratti di un suv o di un distributore di benzina.

Pubblicità ingannevoli e sponsorizzazioni

In Italia non esiste ancora una legislazione specifica per il greenwashing e ci si affida all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) e al Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, che possono sanzionare la cosiddetta pubblicità ingannevole. Nel Codice di Autodisciplina si afferma infatti che «la pubblicità deve evitare ogni dichiarazione o rappresentazione che sia tale da indurre in errore i consumatori, anche per mezzo di omissioni, ambiguità o esagerazioni palesemente non iperboliche». Alcuni spot di acque minerali sono già stati giudicati pubblicità ingannevoli perché promettevano miglioramenti positivi per l’ambiente assai lontani dalla realtà.

Il caso italiano più noto ha invece coinvolto il colosso energetico ENI per alcune pubblicità del carburante ENIdiesel+, presentato come bio, green e rinnovabile, nonché in grado di ridurre i consumi e le emissioni di CO2 fino al 40%. Nel 2020 l’AGCM ha giudicato «pratica commerciale ingannevole» le pubblicità di ENI in base a uno studio condotto dalla Commissione Europea sugli additivi vegetali presenti nel prodotto, che non riducono né i consumi né l’impatto ambientale. L’azienda è stata costretta a ritirare lo spot e a pagare una multa di 5 milioni di euro.

Ma il greenwashing non si limita alle pubblicità ingannevoli. Può avvenire anche in modo del tutto legale mediante le sponsorizzazioni. Ha fatto scalpore la decisone di includere la Coca-Cola tra gli sponsor del vertice mondiale sul clima di Sharm el-Shiek (COP27). L’azienda leader delle bibite gassate è infatti considerata tra i principali responsabili dell’inquinamento da plastica e non è esente da responsabilità anche verso la crisi climatica: si stima infatti che immetta in commercio 120 miliardi di bottigliette di plastica usa e getta all’anno, che al 99% sono prodotte a partire da combustibili fossili e che in gran parte non vengono riciclate. Le sponsorizzazioni di grandi eventi scientifici, sportivi e culturali, insieme al finanziamento di mass media, musei e persino scuole sono considerati un altro modo con cui alcune delle aziende più inquinanti possono ripulirsi l’immagine e conservare la cosiddetta licenza sociale a operare nonostante le ferite inferte all’ambiente.

Le raccomandazioni delle Nazioni Unite

Nei giorni della COP27, le Nazioni Unite hanno presentato un importante rapporto che contiene dieci raccomandazioni rivolte a investitori, aziende e amministrazioni di città e regioni per evitare il greenwashing. Il rapporto illustra i criteri di trasparenza e responsabilità per tutti i soggetti non statali, pubblici e privati, che intendono davvero raggiungere le «emissioni nette zero» entro il 2050. In primis, gli esperti delle Nazioni Unite sentenziano che nessuna azienda e nessun governo può sostenere di essersi realmente impegnato nella sostenibilità se continua a investire nello sfruttamento dei combustibili fossili, contribuisce alla deforestazione o persevera in altre attività distruttive per l’ambiente.

Del resto, il gruppo di esperti delle Nazioni Unite era stato creato proprio per rispondere al greenwashing delle principali compagnie petrolifere che, come dimostra una recente inchiesta del quotidiano britannico The Guardian, mentre promettono di azzerare le emissioni, continuano a investire in nuovi progetti di estrazione e sfruttamento delle fonti fossili che rischiano di portare il riscaldamento del pianeta ben oltre la soglia di sicurezza di 1,5°C stabilita dall’accordo di Parigi.

E poiché per limitare l’aumento della temperatura media globale entro 1,5°C è necessario ridurre le emissioni globali del 45% entro il 2030, gli esperti delle Nazioni Unite sottolineano che gli impegni per ridurre i gas serra – affinché non siano, ancora una volta, solo greenwashing – devono essere adottati subito e non rinviati ai prossimi decenni, quando potrebbe essere troppo tardi per scongiurare gli scenari peggiori dei cambiamenti climatici. Aziende e governi dovrebbero quindi pubblicare rapporti annuali che illustrino in dettaglio i progressi raggiunti, con informazioni verificabili da enti indipendenti.

Il rapporto raccomanda inoltre di ridurre effettivamente le emissioni anziché limitarsi a compensarle mediante l’acquisto di crediti di carbonio o finanziando progetti di riforestazione che molti esperti ritengono di dubbia efficacia e di scarsa affidabilità. La cosiddetta compensazione delle emissioni è una delle strategie preferite dalle aziende inquinanti, che possono affermare di essere impegnate nella riduzione dei gas serra in qualche luogo remoto, senza in realtà modificare il proprio modello produttivo inquinante.

Dal negazionismo al greenwashing

Nel presentare il rapporto, il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha promesso «tolleranza zero» nei confronti del greenwashing. Queste parole evidenziano l’importanza attribuita al fenomeno nel contrasto alla crisi climatica, che Guterres ha sempre posto al centro della sua agenda diplomatica. Oltre all’inganno nei confronti dei consumatori, l’ambientalismo di facciata è infatti considerato una minaccia concreta agli sforzi per limitare il riscaldamento globale perché può ritardare la transizione energetica e la riduzione dei gas serra. In un certo senso, il greenwashing ha sostituito il negazionismo climatico nelle strategie delle aziende e dei governi maggiormente responsabili del riscaldamento globale, a partire dalle compagnie petrolifere e dei Paesi esportatori di gas, petrolio e carbone, interessati a rinviare la fine dell’era dei combustibili fossili.

Oggi che la solidità delle conoscenze scientifiche e gli impatti ormai tangibili degli eventi climatici estremi impedisce di negare le cause antropiche del riscaldamento globale, la strategia prevalente di chi non intende rinunciare ai combustibili fossili è fingere di ridurre le emissioni per guadagnare altro tempo. Tuttavia, come avverte l’ultimo rapporto sul clima del Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite (UNEP), il tempo che resta per non oltrepassare la soglia di 1,5°C è ormai agli sgoccioli.

Oggi che la coscienza ambientale è sempre più diffusa e il greenwashing è ormai sotto i riflettori, l’ambientalismo di facciata potrebbe però trasformarsi in un boomerang per le aziende che vi fanno ricorso. Diversi studi mostrano infatti che, una volta che si viene smascherati, la reputazione aziendale e la fiducia dei consumatori, capitali preziosi per ogni realtà economica, vengono irrimediabilmente perdute. Serviranno tuttavia anche strumenti normativi più rigorosi per evitare che il greenwashing abbia la meglio e riesca ancora una volta a procrastinare gli interventi di cui abbiamo urgente bisogno per affrontare la crisi ecologica e climatica.

Giancarlo Sturloni ha dedicato un webinar nell’ambito della Formazione Zanichelli a negazionismo, greenwashing ed evidenze scientifiche del cambiamento climatico. Per guardarlo clicca qui

immagine in apertura: Tanaonte/istockphoto

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Confronto fra la percentuale di annunci pubblicitari che contengono messaggi green e la percentuale di investimenti in progetti a basse emissioni di carbonio delle principali compagnie petrolifere (fonte: Big Oil’s Real Agenda on Climate Change 2022)

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L’annuncio ufficiale su Twitter che Coca-Cola sarebbe stato sponsor della COP27 (Credito: Twitter)