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L’impatto ambientale del mondo digitale

Email, messaggi, social network, ricerche e video online. La sostenibilità della rete è una sfida aperta. E l’AI è appena entrata nelle nostre vite

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Nel corso di una classica giornata di lavoro avrete probabilmente mandato qualche mail, fatto almeno un paio di ricerche online, inviato innumerevoli messaggi su WhatsApp, partecipato a una o due videoconferenze. E poi nel tempo libero avrete utilizzato i social network, visitato qualche sito d’informazione, ascoltato musica in streaming e guardato qualche film o serie tv usando Netflix o le altre piattaforme. 

A prima vista, sembrano tutti comportamenti sostenibili. In fondo, rispetto al passato, non abbiamo sprecato carta per le lettere o per i giornali e abbiamo anche azzerato l’uso della plastica per CD e DVD. Muoversi nel mondo digitale – e quindi immateriale – di internet dà l’impressione di avere un impatto zero sull’ambiente. Le cose, purtroppo, sono molto diverse. Dietro termini eterei come “cloud” (nuvola) si cela la realtà molto più prosaica dell’infrastruttura fisica di internet: costituita da interminabili cavi, colossali data center, router, switch e tutto ciò che serve per portare internet (quasi) ai quattro angoli del globo. L’impressionante quantità di energia necessaria ad alimentare l’infrastruttura e l’utilizzo di internet è ciò che causa l’inquinamento digitale.

Quanto inquina un messaggio su Whatsapp

Tutto l’ecosistema che ruota attorno alla rete (compresi i dispositivi utilizzati per navigare) causa il 4% del totale delle emissioni di gas serra del nostro pianeta, più di quelle causate dall’industria aerea. I soli data center in cui sono archiviate le nostre mail, i nostri post sui social network, i dati di qualunque banca, azienda o istituzione (e molto altro ancora) hanno consumato nel 2023 qualcosa come 7,4 gigawattora, il 55% in più rispetto all’anno precedente.

Com’è possibile che il digitale sia in realtà così pesante? È una questione di scala: per quanto una singola email consumi pochissimo – circa 4 grammi di CO2 se priva di allegati – questa piccola somma va moltiplicata per gli oltre 360 miliardi di email che vengono inviate e ricevute ogni giorno in tutto il mondo. Lo stesso vale per i 3,5 miliardi di ricerche quotidiane su Google o 100 miliardi di messaggi via Whatsapp (di cui 7 miliardi sono vocali). 

A causare il grosso dell’impronta ambientale del mondo digitale non sono però i messaggi, le email e le ricerche online. Secondo il più recente report di Ericsson, i video in streaming consumano oggi il 69% di tutto il traffico di banda del mondo: una percentuale destinata a raggiungere il 79% nei prossimi tre anni. Le piattaforme di film e serie tv, i video sui social network, siti come YouTube o Twitch: messi assieme, il loro inquinamento digitale continua a crescere anno dopo anno, mano a mano che aumenta la qualità e la definizione dei video e quindi la quantità di dati da spostare da una parte all’altra del globo. 

Ancora nel 2020, i dati inviati e ricevuti solo via mobile non superavano infatti i 50 exabyte al mese. Nel 2023 questa cifra era già triplicata e nel 2027 si prevede che supererà i 350 exabyte: un aumento del 700% in meno di un decennio. Nel complesso, secondo le stime dell’Agenzia Internazionale per l’Energia, le emissioni del mondo delle tecnologie digitali potrebbero arrivare a rappresentare il 14% del totale (poco meno di quanto consumano gli Stati Uniti d’America) entro il 2040.

Gli insostenibili consumi dell’intelligenza artificiale

L’aspetto più preoccupante è che queste previsioni non tengono conto del drastico aumento dei consumi provocato dalla tecnologia più importante degli ultimi anni: l’intelligenza artificiale. Uno studio di OpenAI (la società produttrice di ChatGPT), ha rivelato come dal 2012 a oggi la quantità di potere computazionale – e quindi di energia – richiesto per l’addestramento dei sistemi di intelligenza artificiale sia raddoppiata ogni 3,4 mesi.

Per capire come sia possibile un aumento del genere, basta osservare quanto i large language model (sistemi in grado di rispondere in linguaggio naturale ai nostri comandi, come lo stesso ChatGPT, Gemini di Google o Claude di Anthropic) siano cresciuti in dimensioni. Se nel 2019 il più grande modello sviluppato da Google possedeva 340 milioni di parametri (che possiamo considerare l’equivalente informatico delle nostre sinapsi), GPT-3 – che alimentava la prima versione di ChatGPT – ne possedeva invece 175 miliardi.

Fortunatamente, i consumi non crescono linearmente all’aumentare dei parametri. Sappiamo però che per addestrare nel 2019 il sistema di Google sono state emesse 280 tonnellate di anidride carbonica; cifra che è salita alle 550 tonnellate necessarie per addestrare GPT-3 (emissioni pari a quelle provocate da 200 voli da Milano a New York). Quante emissioni avrà prodotto, allora, l’addestramento di GPT-4, che possiede qualcosa come 1700 miliardi di parametri?

A provocare emissioni non è però soltanto la fase di addestramento delle intelligenze artificiali, ma anche il loro utilizzo. Una ricerca svolta usando ChatGPT consuma 100 volte l’energia richiesta per una ricerca su Google: quantità che sale enormemente quando si tratta invece di generare un’immagine con sistemi come Midjourney e ancora di più quando sarà possibile creare direttamente dei video (usando sistemi al momento sperimentali come Sora di OpenAI o Kling della cinese Kuaishou). Se davvero le intelligenze artificiali generative diventeranno un assistente che la maggior parte della popolazione avrà sempre a portata di mano per impiegarle in una miriadi di situazioni, dobbiamo veramente iniziare a chiederci quanto possa essere sostenibile un futuro di questo tipo.

Alla luce di tutto ciò che abbiamo visto finora, probabilmente non stupisce scoprire che i principali colossi della Silicon Valley stiano clamorosamente mancando gli obiettivi di sostenibilità che si erano dati soltanto pochi anni fa e che prevedevano di raggiungere emissioni nette zero entro la fine di questo o del prossimo decennio. Le cose non stanno andando come da previsioni. In un report pubblicato a luglio, Google ha ammesso che le sue emissioni, invece di diminuire, sono aumentate del 48% negli ultimi cinque anni, facendo inoltre sapere che tornare nei prossimi anni a ridurle sarà più difficile del previsto. Una simile ammissione è giunta anche da Microsoft, che a maggio ha reso noto di aver aumentato le proprie emissioni del 30% rispetto al 2020. Amazon invece ha annunciato con toni trionfalistici di aver ridotto l’anidride carbonica prodotta del 3% rispetto all’anno precedente, dimenticando però di sottolineare che le sue emissioni sono aumentate del 34% rispetto al 2019.

In tutti questi casi, i responsabili sono soprattutto gli sterminati data center che rappresentano il cuore pulsante di tutto ciò che vive su internet. Come spiega Bloomberg, «dietro agli attuali chatbot e software dotati di intelligenza artificiale si trova una vasta e crescente rete di energivori data center. In alcune di queste strutture si possono trovare migliaia degli ambiti chip H100 di Nvidia, ognuno dei quali consuma fino a 700 watt, quasi otto volte l’energia necessaria per alimentare una TV da 60 pollici.»

Come ridurre l’impronta digitale

Che cosa si può fare per invertire questa preoccupante tendenza? Al di là dei grandi investimenti – di cui si è reso per esempio protagonista Sam Altman, fondatore di OpenAI – per rendere sempre più efficiente, sicura e abbondante l’energia nucleare (che daranno frutti solo tra parecchi anni e forse decenni), e al di là delle promettenti, ma ancora ai primi passi, tecnologie per la cattura e rimozione dell’anidride carbonica, ci sono azioni più immediate che tutti dobbiamo compiere.

Prima di tutto, è fondamentale che i grandi colossi che operano nel settore dell’intelligenza artificiale tornino a divulgare informazioni puntuali sui loro modelli (dimensioni, tipo di energia usata per l’addestramento, consumi necessari per il loro utilizzo, ecc.), oltre a impegnarsi a renderli sempre più efficienti. È inoltre auspicabile che vengano istituite certificazioni di sostenibilità, che potrebbero aiutare gli utenti a orientarsi verso le società più rispettose dell’ambiente.

Ma ci sono anche semplici azioni che possiamo compiere noi utenti: evitare di guardare sempre film e serie tv (e di ascoltare la musica) in altissima definizione, non allegare file pesanti alle mail se non indispensabile, utilizzare con moderazione i sistemi di intelligenza artificiale generativa e soprattutto ridurre la frequenza con cui sostituiamo smartphone e computer. Possono sembrare azioni da poco: ma come abbiamo imparato a non lasciare i rubinetti aperti, a spegnere le luci, a ridurre l’utilizzo di aria condizionata e a riciclare i rifiuti, è oggi giunto il momento anche di utilizzare pratiche virtuose anche con i nostri dispositivi digitali.

Alla storia di Internet e alla sostenibilità ambientale dell’universo digitale è dedicata la quattordicesima puntata del nostro podcast Voci in Agenda, che puoi trovare qui.

immagine di copertina: Shutterstock

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Il traffico medio globale di dati dovuto a smartphone misurato in exabyte (miliardi di gigabytes) (immagine: Ericsson Mobile Visualizer)

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Confronto tra le emissioni di CO2 dovute a diverse attività quotidiane misurate in migliaia di libbre (1 lb = 0,45 kg) (immagine: College of Information and Computer Sciences – University of Massachusetts Amherst)