Nella primavera del 2020, con l’umanità segregata in casa dal primo lockdown, tra gli analisti del settore energetico divampava un acceso dibattito: la pandemia di Covid-19 avrebbe anticipato il picco della domanda di combustibili fossili, segnando l’inizio della fine del loro impero, oppure i consumi energetici sarebbero tornati a crescere in fretta non appena le attività economiche fossero ripartite? La storia insegna che petrolio, gas e carbone si sono sempre dimostrati straordinariamente elastici agli shock, e in effetti anche questa volta, con il graduale allentamento delle misure di restrizione, c’è stata una rapida ripresa dei consumi energetici. Ma anziché condurre a una stabilizzazione del mercato dell’energia, la ripresa è sfociata in una crisi forse ancora peggiore, con l’offerta di combustibili fossili che negli ultimi mesi si è rivelata inadeguata a soddisfare la domanda in molte parti del mondo.
La dipendenza dalle fonti fossili
Nel Regno Unito, ad esempio, ritardi nelle forniture di benzina e gasolio hanno innescato tra settembre e ottobre un vero e proprio “fuel panic”, con i consumatori che hanno preso d’assalto le stazioni di servizio per fare il pieno di carburante, esaurendone così le scorte. In Cina, invece, per far fronte alla carenza energetica, le autorità hanno deciso di razionare le forniture di elettricità alle industrie e incrementare l’estrazione di carbone nelle miniere del Nord-Est. La crisi energetica e produttiva cinese si è poi rapidamente riverberata in tutta Europa, causando l’impennata dei prezzi di benzina, gas e, a cascata, di tutti i beni di consumo – compreso il cibo – con l’inflazione che in Italia ha ripreso a galoppare, perché il nostro Paese importa dall’estero una grossa fetta del suo mix energetico a base di combustibili fossili. La crisi energetica in corso ci ricorda anzitutto due cose, in antitesi ma speculari: siamo ancora troppo dipendenti dai combustibili fossili, e proprio per questo abbiamo un disperato bisogno di rimpiazzare petrolio, gas e carbone con fonti sostenibili e rinnovabili. Ne va del futuro del clima, ovviamente, ma anche dalla tenuta dell’economia. È vero, nel breve termine la transizione energetica potrebbe avere l’effetto di aumentare sensibilmente i costi dei combustibili fossili. Nel lungo periodo, però, solo un massiccio investimento in fonti rinnovabili potrà proteggerci dagli shock futuri, dalla volatilità dei prezzi dell’energia fossile e dagli esiti più catastrofici del riscaldamento globale. Secondo l’OCSE, dovremmo accelerare la diffusione delle fonti di energia rinnovabile e lasciare sepolte sottoterra le riserve di combustibili fossili non più convenienti a una società che dovrà essere al più presto alimentata dal vento e dal sole.
Ascesa e caduta dei combustibili fossili
Dispensarci da petrolio, gas e carbone non sarà però facile né indolore: quelle fossili sono le fonti ad alta densità energetica che hanno cambiato il mondo e di cui ancora non riusciamo a fare a meno. Globalmente si consumano ogni giorno circa 100 milioni di barili di petrolio, 15 milioni di tonnellate di carbone, 11 miliardi di metri cubi di gas. È tanto o è poco? C’è chi ha calcolato che un singolo barile di petrolio equivalga grosso modo a 24 mila ore di lavoro umano, ovvero undici anni con un carico di quaranta ore settimanali. Per certi versi, è come se ognuno di noi potesse contare quotidianamente sul lavoro gratuito di qualche centinaio di “schiavi energetici”. Si tratta di un capitale di energia pro capite impensabile prima della rivoluzione industriale, quando si riuscì a convertire efficacemente i combustibili fossili in lavoro meccanico. Avere tanta energia a portata di mano da impiegare in ogni tipo di attività, anche la più futile, è un fatto che ormai diamo per scontato e che abbiamo cominciato a problematizzare solo quando ci siamo accorti che bruciare i combustibili fossili inquina l’aria e, peggio, riscalda il nostro pianeta. Sappiamo che in un certo senso le “transizioni” energetiche esistono solo nella nostra testa: storicamente, infatti, una nuova fonte di energia non si è mai del tutto sostituita a quelle precedenti; piuttosto vi si è aggiunta, aumentando così la dotazione complessiva di energia disponibile. Non siamo passati dal legno al carbone, dal carbone al petrolio, poi al gas, al nucleare e infine alle fonti rinnovabili e sostenibili. Ancora oggi facciamo uso di tutte queste fonti assieme, in mix energetici molto diversi tra loro a seconda dei Paesi e delle condizioni di produzione locale. Al momento, il 33% dell’energia che alimenta il mondo proviene dalla combustione del petrolio, il 27% dal carbone, il 24% dal gas, con solo un umile 16% da nucleare e fonti rinnovabili. La storia dei combustibili fossili ci insegna tuttavia che il destino delle fonti energetiche non è affatto scritto nella pietra e non dipende da proprietà intrinseche alle fonti stesse, bensì da un groviglio di contingenze storiche, variabili sociali, opportunità economiche e spinte commerciali. È soprattutto l’azione politica a poter influenzare in maniera decisiva il corso futuro di una certa fonte di energia attraverso vincoli, investimenti, sussidi e tassazioni che ne favoriscono o scoraggiano l’utilizzo. A livello europeo, ad esempio, si sta discutendo proprio in queste settimane la tassonomia in base alla quale si potrà accedere ai finanziamenti pubblici e privati per la transizione energetica: non saranno più finanziati petrolio e carbone, ma pare che l’energia nucleare e il gas naturale alla fine saranno considerati tra le alternative “sostenibili” e perciò continueranno a ricevere sussidi. L’aumento generalizzato dei prezzi dei combustibili fossili significa che, in ogni caso, l’era di petrolio, gas e carbone abbondanti e a basso costo potrebbe essere ormai al tramonto. Il recente vertice mondiale sul clima di Glasgow avrebbe potuto dare il colpo di grazia almeno al carbone, la più inquinante tra le fonti fossili, ma non è andata esattamente così.
Il futuro dell’energia (e del clima) dopo COP26
Lo scorso 13 novembre si è conclusa a Glasgow la 26esima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, o COP26, con i delegati di circa 200 paesi che nelle battute finali del summit hanno sottoscritto un attesissimo accordo, il Patto per il Clima di Glasgow: dieci pagine di dichiarazioni di intenti in 97 paragrafi di impegni politici per mitigare il riscaldamento globale e adattarsi ai cambiamenti climatici del prossimo futuro. In verità, il memorandum è apparso debole sin dalla sua genesi e, a giochi fatti, si è rivelato un trattato decisamente modesto, se non addirittura deludente. Sopravvive l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura media globale entro 1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali, come stabilito dall’Accordo di Parigi nel 2015. Ma impegnando i firmatari a tagliare le emissioni di CO2 soltanto del 45% nei prossimi dieci anni e a raggiungere il traguardo delle “emissioni nette zero” (cioè il pareggiamento tra CO2 emessa e quella assorbita) entro il 2050, l’aumento della temperatura media globale sarà sicuramente maggiore: si stima di 2,4°C già a metà del secolo. Il nodo più dolente, controverso e dibattuto del Patto per il Clima di Glasgow riguarda in particolare il futuro del carbone: un emendamento proposto dall’India, sostenuto dalla Cina e poi accolto da tutte le altre parti in causa pur di non far fallire il negoziato, ha infatti imposto di inserire tra le dichiarazioni di intenti la progressiva riduzione (phase-down) del carbone, le cui emissione non vengono abbattute, anziché la sua definitiva eliminazione (phase-out). Giochi di parole, che incarnano però il potere di indirizzare in un senso o nell’altro il futuro energetico e climatico del pianeta.
A margine del vertice, va detto, sono stati siglati alcuni importanti accordi bilaterali come quello per la riduzione dei consumi di metano (–30% entro il 2030), sottoscritto da oltre cento Paesi, quello per porre fine alla deforestazione, quello per abbandonare il carbone (firmato da 40 nazioni), e quello bilaterale tra Stati Uniti e Cina per la cooperazione climatica. C’è da sperare che, per quanto ancora insufficienti, i trattati vengano ora rispettati. E c’è da sperare anche che le fonti rinnovabili e sostenibili ce la facciano da sole a sgominare le concorrenti fossili, indipendentemente dall’indolenza della diplomazia climatica e dall’insussistenza dell’azione politica.
Una via per la transizione energetica
Emancipare il sistema energetico dai combustibili fossili sarà un’impresa enorme, ma non per questo irrealizzabile. In un articolo scientifico pubblicato di recente sulla rivista Nature Communications da un gruppo di scienziati statunitensi e cinesi si calcola che, nei 42 Paesi presi in considerazione dallo studio, con l’eolico e il fotovoltaico si potrebbe produrre abbastanza energia elettrica da soddisfare il 72-91% del fabbisogno energetico nazionale su base oraria – e fino all’83-94% nel caso in cui si ricorresse anche a sistemi di accumulo dell’energia. Per un tale capovolgimento del mix energetico bisognerebbe però agire con urgenza su tre fronti: elettrificare i consumi di energia in ogni settore possibile, produrre e stoccare massicciamente elettricità “pulita”, trovare soluzioni a basse emissioni per colmare la quota residua di consumi non elettrificati o non soddisfatti da fonte sostenibile. Sul versante dei costi, invece, in molti Paesi generare elettricità da fonte eolica e solare è già da tempo l’alternativa più competitiva. E questa, dopo il mezzo fallimento di COP26, è una notizia che come minimo consola.