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Mangeremo carne coltivata?

Sarebbe una rivoluzione culturale ed economica. Ma i costi ambientali attuali della produzione di proteine animali ci impongono di valutarla

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Negli ultimi mesi si è molto discusso della cosiddetta “carne sintetica” – o carne coltivata, come sarebbe più corretto chiamarla – cioè della possibilità di produrre in laboratorio hamburger, bistecche o polpette di pesce a partire da poche cellule animali fatte moltiplicare in vitro. Il motivo di tanta attenzione è dovuto al fatto che, dopo un ventennio di sperimentazioni, la carne coltivata sembra ormai in procinto di arrivare sul mercato, promettendo di cambiare radicalmente il nostro modo di nutrirci. E per di più con un nobile intento: offrire alternative più sostenibili ai crescenti consumi di carne, pesce e altri prodotti di origine animale, che hanno un enorme impatto sugli ecosistemi terrestri e marini.

Alla fine di marzo il dibattito sulla carne coltivata ha spinto il governo italiano a presentare un disegno di legge per vietare la produzione e la vendita di «alimenti e mangimi sintetici», con il dichiarato intento di proteggere gli allevamenti tradizionali. Tuttavia, come anticipato, non si dovrebbe parlare di “alimenti sintetici” perché questo termine implica la sintesi di sostanze artificiali che non esistono in natura, come avviene per esempio con la plastica, mentre la produzione di carne coltivata sfrutta un processo naturale di crescita cellulare per ottenere tessuti animali destinati all’alimentazione umana. Si tratta dunque di vera carne, ma prodotta senza la necessità di allevare e uccidere gli animali.

L’impatto degli allevamenti

L’impatto ecologico degli allevamenti, in termini di emissioni di gas serra, inquinamento e consumo di suolo è ampiamente riconosciuto dalle più importanti istituzioni scientifiche internazionali. Secondo la FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, gli allevamenti animali sono responsabili di circa il 14% delle emissioni globali di gas serra, una percentuale paragonabile a quella dei trasporti. Il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) stima inoltre che, a livello mondiale, il 78% dei terreni destinati all’agricoltura sia impiegato per l’allevamento e per la produzione dei mangimi destinati agli animali. Oggi il 70% della deforestazione serve a fare spazio ai pascoli e alle coltivazioni di mangimi.

La nostra dipendenza alimentare dagli animali allevati costituisce inoltre un pericolo per la salute pubblica, giacché le zoonosi (cioè le malattie trasmesse da virus e altri agenti patogeni di origine animale) sono responsabili di tre quarti delle malattie infettive umane, e gli allevamenti intensivi, dove molti animali sono costretti a vivere a stretto contatto fra loro, sono considerati ad alto rischio per il diffondersi di epidemie. Per queste ragioni oggi decine di start up in ogni parte del mondo sono impegnate a cercare valide alternative alla carne allevata e alle proteine di origine animale, con l’obiettivo di nutrire una popolazione mondiale in crescita senza compromettere ulteriormente l’ambiente.

La carne senza animali

Già da diversi anni è possibile acquistare in ogni supermercato la cosiddetta carne vegetale, interamente ottenuta a partire da ingredienti come grano, soia, patate, olio di cocco. Hamburger, bistecche e salsicce vegetali sono in grado di imitare quasi alla perfezione l’aspetto succulento, il gusto ferroso e la consistenza della vera carne. Finora, tuttavia, la carne vegetale è rimasta un prodotto di nicchia, soprattutto a causa del prezzo, più elevato in confronto alla carne tradizionale, ma anche rispetto ad altri alimenti ricchi di proteine, come i legumi, diffusi nelle diete vegetariane.

La ricerca sulla carne coltivata persegue invece l’ambizioso obiettivo di soddisfare anche le tante persone che non sono disposte a rinunciare alla carne tradizionale. A differenza dei sostituti vegetali, infatti, la carne coltivata non somiglia alla carne vera, è carne vera. E come tutti gli alimenti di origine animale, dal punto di vista nutrizionale ha il vantaggio di offrire proteine bilanciate e altri nutrienti più difficili da ottenere con una dieta esclusivamente a base vegetale.

È già trascorso un decennio da quando, nel 2013, Mark Post, direttore del dipartimento di fisiologia dell’Università di Maastricht, presentò al mondo il primo hamburger coltivato in laboratorio. Il sapore e la consistenza non erano granché, ma da allora sono stati fatti molti progressi e oggi Post è convinto che i tempi siano maturi per l’ingresso sul mercato della carne coltivata. Nell’impresa sono coinvolti un centinaio di aziende e laboratori di ricerca, alcuni attivi anche in Italia, come la startup trentina Bruno Cell e il dipartimento di biologia dell’Università Tor Vergata di Roma.

Oggi non si coltivano più solo hamburger ma anche bocconcini di pollo, polpette di manzo, anatra all’arancia e persino polpette di pesce, poiché la sostenibilità è minacciata non solo dagli allevamenti animali, ma anche dalla pesca eccessiva. L’azienda californiana Finless Foods assicura di poter coltivare polpette, hamburger e sushi di carpa, branzino, merluzzo, salmone e tonno senza che sia sottratto agli oceani un solo pesce, ma al costo ancora proibitivo di 200 dollari a porzione.

Ma c’è chi non ha timore di sbizzarrirsi. La startup newyorkese Primeval Foods è già all’opera per coltivare carne di leone, tigre, zebra e giraffa, per soddisfare i palati dei più curiosi senza ricorrere a crudeli battute di caccia. Mentre l’australiana Vow ha creato a scopo dimostrativo persino polpette di mammut, coltivate in realtà a partire da cellule staminali di pecora in cui è stato inserito un miscuglio di materiale genetico proveniente da un elefante moderno e da un mammut estinto diecimila anni fa.

Come si coltiva una bistecca

Sebbene i dettagli delle sperimentazioni in corso siano gelosamente custoditi e coperti da segreto industriale, la produzione di carne coltivata comincia sempre da un grumo di cellule staminali prelevate dall’animale con una biopsia. Le cellule staminali non sono ancora specializzate e possono quindi differenziarsi in diverse tipologie di tessuti cellulari.

Il processo di differenziazione e crescita cellulare avviene in genere all’interno di un bioreattore, cioè una cisterna d’acciaio mantenuta a temperatura costante in cui è presente una soluzione ricca di sostanze nutritive: proteine, carboidrati, amminoacidi, vitamine, sali e zuccheri. Si tratta in pratica di offrire alle cellule l’ambiente di coltura ideale in cui crescere e replicarsi. Qualcosa di simile a quel che accade nei processi di fermentazione impiegati per produrre birra e yogurt.

Per creare la struttura tridimensionale della carne, le cellule vengono fatte crescere su un’impalcatura di sostegno fino a ottenere fibre dalla consistenza simile al macinato e abbastanza lunghe da sfamare un essere umano. Mentre per stimolare la crescita cellulare si possono impiegare anche cilindri rotanti e altre sollecitazioni meccaniche, come in una sorta di “ginnastica muscolare”.  

I vantaggi e i costi della carne coltivata

Il risultato finale è carne a tutti gli effetti, ma senza ossa né altri scarti, e senza bisogno uccidere animali. La posta in gioco è enorme perché negli ultimi vent’anni il consumo globale di carne è aumentato di oltre il 50% e si stima che possa crescere di un ulteriore 73% entro il 2050. Secondo il World Economic Forum ogni anno vengono sacrificati per il consumo umano 50 miliardi di polli, un miliardo e mezzo di suini, mezzo miliardo di ovini e 300 milioni di bovini.

Anche i vantaggi ambientali potrebbero essere molto significativi. Secondo diverse analisi recenti, per esempio, la carne coltivata di bovino consente di ridurre le emissioni di gas serra e i consumi di acqua e suolo di una percentuale che varia fra l’80% e il 98% rispetto alla carne di animali allevati. Inoltre, sebbene il funzionamento dei bioreattori richieda molta elettricità, si potrebbe comunque risparmiare circa la metà dell’energia.

L’ostacolo principale resta il prezzo, ma in dieci anni molto è cambiato. Se produrre il primo hamburger di Post era stato necessario investire 330.000 dollari, oggi coltivare un hamburger può costare meno di 10 dollari. Alcune aziende negli Stati Uniti, in Israele e nei Paesi Bassi sono già entrate in fase di produzione, sebbene in quantità ancora limitate e per lo più allo scopo di dimostrare che la carne coltivata è ormai pronta a uscire dai laboratori. A Singapore si possono assaggiare alcuni piatti a base di carne di pollo coltivata nei laboratori della start up statunitense Eat Just al costo di circa 12 dollari.

Ma se il prezzo è sempre più abbordabile, le tecniche di coltivazione sono ancora laboriose – secondo la stessa Eat Just il processo richiede dalle quattro alle sei settimane – e al momento non consentono una produzione su vasta scala. Riuscire a industrializzare i processi produttivi è indispensabile per fare concorrenza alla carne allevata, ma potrebbero servire ancora diversi anni. Alcuni esperti ritengono che la strada sia ormai tracciata, altri invece sostengono che il futuro della carne coltivata sia ancora incerto e pieno di insidie.

Il percorso di approvazione

Uno degli ostacoli da superare sarà l’approvazione degli enti regolatori. Finora l’unico prodotto al mondo ad avere ottenuto l’autorizzazione al consumo è il pollo coltivato da Eat Just in vendita a Singapore. Nel dicembre del 2022, tuttavia, la Food and Drug Administration, l’ente governativo che regolamenta i prodotti alimentari e farmaceutici negli Stati Uniti, ha espresso un primo parere positivo sulla carne di pollo coltivata dall’azienda californiana Upside Foods. Se a questo seguirà l’approvazione del Dipartimento dell’agricoltura statunitense, la carne coltivata potrà essere venduta anche negli Stati Uniti, facendo da apripista per il resto del mondo.

Nell’Unione Europea un’eventuale approvazione sarebbe disciplinata dai regolamenti comunitari sui cosiddetti novel food. Per arrivare sugli scaffali dei nostri negozi, le novità alimentari devono ottenere l’autorizzazione della Commissione Europea, che a sua volta può essere rilasciata in seguito a una valutazione positiva da parte dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA), chiamata a pronunciarsi su diversi aspetti, da eventuali rischi per la salute fino alla corretta etichettatura. Finora, tuttavia, l’EFSA non ha ricevuto richieste di approvazione, anche perché non ha ancora chiarito quali informazioni si dovranno fornire per ottenere l’inserimento della carne sintetica tra i novel food.

La carne coltivata non è esente da rischi, che tuttavia non sono sostanzialmente diversi da quelli di altre produzioni già regolate dalle normative sulla sicurezza alimentare. È la conclusione di un recente rapporto della FAO e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che ha preso in considerazione le varie fasi di produzione che dall’estrazione di un grumo di cellule staminali portano a una bistecca coltivata.

Mangiare insetti

Esiste però un’altra strada per ottenere proteine di origine animale: anziché allevare bovini, polli e suini, potremmo allevare insetti commestibili, emettendo meno gas serra, sprecando meno acqua e impiegando meno suolo. La FAO calcola per esempio che, a parità di proteine prodotte, gli allevamenti di grilli emettano mille volte meno CO2 di quelli bovini, oltre a consumare meno suolo e acqua di qualunque allevamento animale. Gli insetti, infatti, possono vivere in spazi molto ristretti e assorbire l’acqua dal cibo, che può essere costituito anche rifiuti organici, consentendo così di riciclare gli scarti di frutta e verdura.

Anche gli insetti commestibili rientrano nella normativa europea sui novel food e in gennaio la Commissione Europea ha ammesso come alimenti la farina di grillo domestico (Acheta domesticus) e le larve del verme della farina minore (Alphitobius diaperinus) congelate, in pasta, essiccate e in polvere, che si aggiungono ad altre farine d’insetto già in commercio in Europa. Anche in questo caso l’autorizzazione è arrivata dopo un parere positivo dell’EFSA, secondo cui non sussistono controindicazioni a parte possibili reazioni allergiche, simili a quelle che alcune persone possono sviluppare mangiando crostacei o frutta secca. Ogni alimento contenente farine di insetto dovrà perciò indicare in etichetta questo rischio, come già avviene per altri prodotti in commercio.

Per il momento le farine d’insetto sono impiegate per lo più nella produzione di snack, sia perché hanno ancora un costo elevato, sia perché in questa forma, senza zampe e antenne, sono più facili da accettare. Sebbene nel mondo gli insetti facciano parte delle dieta di 2 miliardi di persone, l’idea di trovarsi davanti un piatto di grilli o cavallette in occidente genera per lo più repulsione. Anche per questo motivo la FAO ritiene che – almeno finché la carne coltivata non si dimostrerà una valida alternativa agli allevamenti animali – le farine di insetto troveranno più facilmente impiego come mangimi, sostituendo le farine di soia e di pesce usate oggi, e riducendo così l’impatto ambientale.

I gusti sono gusti

Se gli insetti nel piatto possono generare repulsione, la carne coltivata rischia di essere percepita come “innaturale”. Molti consumatori potrebbero chiedersi perché preferire un surrogato creato in laboratorio a ciò che ci offre la natura. D’altra parte, neppure l’odierno sistema di produzione alimentare basato sugli allevamenti intensivi ha più molto di “naturale”. Gran parte della carne bovina in commercio proviene da animali concepiti per inseminazione artificiale e allevati in ambienti più simili a una fabbrica che a un pascolo, talvolta con l’ausilio di antibiotici e ormoni della crescita.

Quel che sceglieremo di mettere in tavola dipenderà anche dall’esito di questo dibattito, già oggi piuttosto acceso. Le lobby dei produttori di carne sono molto attive nel cercare di convincere governi e futuri consumatori che la “carne in provetta” è un prodotto insano e una minaccia per le tradizioni alimentari. D’altro canto, le start up impegnate nella ricerca sulla carne coltivata non lesinano gli sforzi comunicativi per convincere gli investitori che la strada è tracciata, sicuri che, come scriveva l’antropologo Claude Lévi-Strauss negli anni Novanta: «Verrà infatti un giorno in cui l’idea che gli uomini del passato, per nutrirsi, abbiano potuto allevare e massacrare degli esseri viventi e poi esporre con compiacimento la loro carne a brandelli nelle vetrine, ispirerà senza dubbio la stessa repulsione che i pasti cannibali dei selvaggi americani, australiani o africani, ispirava ai viaggiatori del XVI o del XVII secolo». Del resto, sempre più spesso consumiamo la carne in modalità che celano le fattezze animali: senza ossa, piume, pelle e cartilagini, e talvolta senza più nemmeno forma, come un hamburger o una salsiccia, che oggi produciamo negli allevamenti, e domani potremo forse ricreare in laboratorio.

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Il primo hamburger di carne coltivata fotografato durante la presentazione del 5 agosto 2013 (immagine: Wikipedia)

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Una bancarella di insetti in vendita a Bangkok, in Thailandia (immagine: Wikipedia)

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Snack di avena con farina di grillo coltivato (immagine: Wikipedia)

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La frittura del primo hamburger di carne coltivata, durante la presentazione del 5 agosto 2013 (immagine: Wikipedia)

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Un allevamento di bovini (immagine: Wikipedia)