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Un pianeta a secco: la siccità in Italia e nel mondo

Calo delle precipitazioni, sfruttamento eccessivo delle falde, riscaldamento globale: queste le cause della drammatica crisi idrica in atto

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Nel mondo la carenza d’acqua è un problema sempre più grave e l’umanità rischia una crisi globale imminente. L’ultimo allarme è arrivato per bocca del segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, che nella giornata mondiale dell’acqua, lo scorso 22 marzo, ha avvertito che «l’uso insostenibile delle risorse idriche, l’inquinamento e il riscaldamento globale stanno drenando la linfa vitale dell'umanità».

Secondo le Nazioni Unite, già oggi circa due miliardi di persone (pari a un quarto della popolazione mondiale) non hanno accesso ad acqua potabile sicura, mentre un numero ancora maggiore sperimenta una carenza d’acqua per almeno un mese all’anno. È un problema che non risparmia nemmeno l’Italia, dove la siccità sta diventando una vera e propria emergenza.

Una risorsa preziosa e limitata

Sulla Terra l’acqua è una risorsa abbondante: 1,4 miliardi di chilometri cubi. Ma se si esclude l’acqua salata dei mari (pari al 97% del totale) e quella intrappolata nei ghiacciai e nelle calotte polari, l’acqua dolce realmente disponibile per tutti gli organismi viventi, esseri umani compresi, è meno dell’1% di quella presente sul pianeta. Si tratta dunque di una risorsa limitata, distribuita in modo disomogeneo tra le diverse aree geografiche e sempre più spesso minacciata dalle attività umane: il consumo eccessivo che rischia di esaurire le falde, l’inquinamento che compromette la potabilità e i cambiamenti climatici che intensificano la siccità nelle regioni aride.

L’incremento della frequenza e della durata dei periodi della siccità, definita come una prolungata carenza di risorse idriche, è una delle conseguenze più visibili e drammatiche del riscaldamento globale. Secondo il rapporto Drought in Numbers 2022 delle Nazioni Unite, negli ultimi cinquant’anni la siccità ha causato circa 650 mila vittime. Ma con il rapido aumento delle temperature globali, rischia di trasformarsi in una minaccia costante a ogni latitudine. Nel rapporto si legge infatti che entro il 2050 la maggioranza della popolazione mondiale, tra 4,8 e 5,7 miliardi di persone, subirà gli effetti della carenza d’acqua per almeno un mese all’anno. Una situazione esplosiva che potrebbe costringere 700 milioni di persone a migrare altrove per sfuggire alla siccità.

Assicurare acqua pulita e servizi igienico-sanitari adeguati a tutte le persone del pianeta è uno degli obiettivi di sostenibilità (Goal 6) dell’Agenda 2030. Nonostante gli sforzi, il traguardo appare però ancora lontano: l’accesso all’acqua potabile non è garantito a un quarto dell’umanità e ogni anno più di 800 mila persone muoiono a causa di malattie direttamente correlate ad acqua non sicura e servizi igienici inadeguati.

L’Italia si posiziona al di sotto della media europea e nel periodo 2010-2021 la situazione è addirittura peggiorata a causa dello sfruttamento eccessivo delle risorse idriche, di reti di distribuzione inefficienti, dell’inquinamento e della scarsa tutela degli ecosistemi acquatici. La siccità che ha colpito il nostro Paese negli ultimi due anni rischia inoltre di aggravare la situazione.

La siccità in Italia

Oggi vaste regioni dell’Europa, Italia inclusa, sono già costrette a fare i conti con gli impatti della carenza di risorse idriche sull’agricoltura, sull’industria e sulla vita di molte persone. Secondo le Nazioni Unite, se l’Africa resta il continente più vulnerabile (al punto che nell’ultimo secolo quasi la metà del territorio africano ha sperimentato episodi di siccità estrema), l’Europa è la regione dove la carenza d’acqua è in più rapido aumento. Oggi la siccità affligge il 15% del territorio dell’Unione Europea e il 17% della popolazione.

Negli ultimi anni la frequenza e la gravità degli episodi di siccità sono aumentati in modo sensibile anche in Italia. I dati dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) mostrano che tra il 2001 e il 2020 la durata dei periodi di siccità in Italia è aumentata del 34% rispetto al periodo 1961-1990. Il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) ha inoltre stimato che una percentuale tra il 6% ed il 15% della popolazione italiana risiede in territori ormai esposti a siccità severa o estrema.

La grave siccità che l’anno scorso ha colpito il Nord Italia rischia purtroppo di ripetersi anche quest’anno a causa di un altro inverno secco e segnato da scarse nevicate in montagna. Secondo le analisi della Fondazione Cima, ai primi di marzo sulle Alpi italiane e sull’Appennino c’era il 63% di neve in meno rispetto alla media dei dodici anni precedenti. Viene così a mancare una preziosa riserva idrica per affrontare l’estate, quando ci si affida alla fusione della neve accumulata durante l’inverno per sopperire alla scarsità di pioggia. Il fiume Po, da cui dipendono l’agricoltura e l’industria dell’area geografica più produttiva del Paese, è già in magra, e se le piogge primaverili non saranno abbondanti c’è il rischio che si ripeta lo scenario dell’estate scorsa, quando il Nord Italia ha vissuto la peggiore crisi idrica degli ultimi 70 anni.

Gli impatti della siccità

In ogni parte del mondo, i periodi prolungati di siccità possono avere gravi ripercussioni sanitarie, ambientali, economiche e sociali. Spesso a farne le spese è anzitutto l’agricoltura, che secondo la FAO assorbe circa il 70% dei consumi di acqua dolce. La siccità può portare alla perdita dei raccolti o del bestiame, esponendo le comunità più povere e vulnerabili al pericolo di carestie. La carenza d’acqua è inoltre considerata un moltiplicatore di malattie, migrazioni forzate e conflitti per il controllo di una risorsa essenziale ma sempre più scarsa.

Oltre all’agricoltura, la siccità può mettere in crisi anche la produzione di energia, come è accaduto anche in Italia nel 2022. Senz’acqua si fermano infatti sia gli impianti idroelettrici, che nel nostro Paese costituiscono la seconda fonte energetica dopo i combustibili fossili, sia le centrali termoelettriche alimentate a gas, che dipendono dalla disponibilità di acqua fluviale per raffreddare il vapore nelle turbine. L’estate scorsa anche alcune centrali nucleari francesi sono state costrette a ridurre la produzione per l’acqua troppo calda dei fiumi. La siccità aumenta inoltre il rischio di desertificazione e di incendi, che a loro volta possono causare ingenti danni alle comunità umane e agli ecosistemi naturali.

Il ruolo della crisi climatica

L’intensificarsi della siccità era stata ampiamente prevista dai modelli climatici e il rapporto 2021 State of the Climate Services dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale conferma che dall’inizio del secolo il numero e la durata degli episodi di siccità sono cresciuti del 29%. L’aumento delle temperature ha infatti alterato il ciclo dell’acqua, con ripercussioni sempre più evidenti in ogni regione del mondo.

In Italia la siccità è favorita da una riduzione dei giorni di pioggia e delle nevicate invernali, da ondate di calore estive sempre più intense e durature, e da suoli inariditi al punto che non riescono più a trattenere l’acqua piovana. La pioggia che cade su un terreno secco, infatti, anziché essere assorbita e ricaricare le falde, scorre in superficie, finisce subito nei fiumi e si perde in mare.

Uno studio condotto dai ricercatori dell’Università di Bologna e del CNRS francese, pubblicato a febbraio sulla rivista scientifica Environmental Research Letters, ha concluso che il riscaldamento globale ha avuto un ruolo importante anche nell’eccezionale siccità che l’estate scorsa ha colpito l’Italia e gran parte dell’Europa occidentale. Nello specifico, il riscaldamento globale avrebbe ampliato le aree di alta pressione, tenendo alla larga le piogge per un lungo periodo di tempo, e incrementato la quantità d’acqua che evapora dai suoli e che traspira dalla vegetazione.

Le possibili soluzioni

Gli esperti concordano sulla necessità di interventi strutturali per gestire meglio il patrimonio idrico di cui gode la nostra penisola. Nonostante si trovi in un’area geografica a rischio siccità, l’Italia è infatti ricca di acqua, che tuttavia troppo spesso finisce per essere sprecata. L’ISTAT calcola che, a causa dell’usura e della scarsa manutenzione, la rete idrica nazionale perda oltre il 42% dell’acqua immessa nelle condutture: si tratta di 3,4 miliardi di metri cubi, sufficienti a soddisfare i bisogni annuali di oltre due terzi degli italiani.

Si dovrebbe inoltre potenziare la capacità di trattenere l’acqua piovana, che oggi in Italia si attesta appena all’11%, contro il 35% della Spagna. A questo scopo, l’Associazione Nazionale Bonifiche e Irrigazioni (AMBI), l’ente che coordina i consorzi di bonifica italiani, nel 2021 aveva proposto il cosiddetto “piano laghetti”, che punta alla costruzione di circa diecimila invasi artificiali di piccole dimensioni. Ma finora, anche a causa di una eccessiva suddivisione delle competenze fra numerosi enti che complica la gestione delle risorse idriche, ne sono stati realizzati una minima parte. Il piano non è inoltre esente da critiche perché gli invasi rischiano di perdere per evaporazione l’acqua raccolta, sottraendola così alle falde sotterranee da cui dipende l’84% dei consumi italiani di acqua potabile, nonché di interferire con gli ecosistemi naturali.

In ogni caso sarà necessario ridurre anche l’impiego dell’acqua in agricoltura, che in Italia consuma circa il 64% delle risorse idriche, privilegiando colture che necessitano di meno acqua e riducendo gli sprechi dell’irrigazione a pioggia con le tecniche più mirate ed efficienti dell’agricoltura di precisione. Da parte nostra, poiché gran parte dei consumi d’acqua dolce servono a produrre il cibo che portiamo in tavola, possiamo contribuire a limitare gli sprechi soprattutto con le nostre scelte alimentari: mangiare più frutta e verdura e meno carne – oltre a proteggere la nostra salute – riduce infatti la nostra impronta idrica, visto che per produrre alimenti vegetali serve molta meno acqua di quella necessaria per gli alimenti di origine animale. Coltivare una mela, per esempio, richiede circa 70 litri d’acqua, l’equivalente di una doccia, mentre un hamburger da 150 grammi richiede circa 2.400 litri d’acqua, pari alla capacità di 16 vasche da bagno, usata per lo più per produrre il mangime dei bovini.

Dissalare il mare

In un mondo sempre più a secco oggi si guarda con crescente interesse anche agli impianti di dissalazione dell’acqua marina. Si tratta di dispositivi in grado di rendere potabile l’acqua del mare rimovendo il sale e altre impurità. Gli impianti di dissalazione sono già usati in diversi Paesi del mondo, Italia inclusa, ma finora hanno trovato applicazione soprattutto nelle regioni aride del Medio Oriente, in Nord Africa, Australia, California e Spagna.

L’acqua del mare può essere resa potabile mediante la distillazione: si scalda l’acqua marina finché non evapora, quindi si condensa il vapore ottenendo acqua dolce e scartando il sale rimasto sul fondo. È un metodo noto fin dall’antichità, ma è lento e richiede molta energia. Per questo oggi si preferisce ricorrere all’osmosi inversa, che sfrutta una serie di membrane semipermeabili in grado di filtrare l’acqua e trattenere il sale. Nei dissalatori moderni il processo avviene in enormi vasche dove l’acqua viene spinta ad alta pressione attraverso le membrane. Per essere bevuta, l’acqua ottenuta nei dissalatori deve però essere remineralizzata.

Il principale ostacolo alla diffusione su larga scala dei dissalatori resta il costo elevato, che a seconda della dimensione dell’impianto e di altre variabili oscilla tra 0,5 e 3 euro al metro cubo, ben più di quanto costa prelevare l’acqua dalle falde. Per funzionare i dissalatori richiedono infatti molta energia e perciò finora hanno trovato impiego soprattutto in regioni desertiche, grandi isole, impianti industriali o per rispondere a un’emergenza in aree colpite dalla siccità. L’estate scorsa alcuni impianti erano stati installati in via temporanea anche alla foce del Po, dove l’acqua ha una salinità inferiore rispetto al mare e il processo di dissalazione è quindi più economico.

Affinché possano diventare una soluzione sostenibile, tuttavia, i dissalatori dovranno diventare molto più efficienti ed essere alimentati esclusivamente con fonti rinnovabili. Servirà inoltre gestire altri impatti ambientali: l’osmosi inversa produce infatti acque di scarto molto salate che, se scaricate in grande quantità lungo la costa, possono danneggiare l’ecosistema, mentre il prelievo di ingenti volumi d’acqua può mettere a rischio gli organismi marini più piccoli, con il rischio di alterare la catena alimentare.

Considerare gli impianti di dissalazione la soluzione al problema della siccità sarebbe illusorio e nel nostro Paese dovrebbero avere la priorità gli interventi per gestire in modo più efficiente le risorse idriche, riducendo gli sprechi dell’oro blu. L’intensificarsi della siccità mostra che gli impatti della crisi climatica segnano già il nostro presente. Sarà perciò importante implementare tutte le misure di adattamento necessarie per difendere le persone e gli ecosistemi da un clima più arido, ma al tempo stesso è importante riconoscere che, oltre un certo limite di temperatura, sarà sempre più difficile potersi adattare. Ridurre le emissioni di gas serra – mediante le fonti rinnovabili e l’efficienza energetica, nonché pratiche agricole più sostenibili e rispettose della biodiversità – resta pertanto la via maestra per mitigare il riscaldamento globale e limitare i suoi impatti, inclusa la siccità.

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A che punto siamo in Italia nelle azioni per raggiungere il Goal 6 dell’Agenda 2030 (Fonte: ASVIS)

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Gli effetti della siccità a Khartum, in Sudan (immagine: Wikimedia Commons)

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Il fiume Tagliamento in secca nell’estate del 2022 (immagine: Wikimedia Commons)

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Regioni del mondo più colpite dalla siccità nel periodo 2020-2022 (fonte: Nazioni Unite)

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Schema di funzionamento dell’osmosi inversa (immagine: Wikimedia Commons)

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Perdite idriche totali nelle reti comunali di distribuzione dell’acqua potabile per provincia nel 2020, espressa come percentuale sul volume immesso in rete (fonte: Istat, MAPPE, figura 4)