Negli ultimi anni l’inquinamento da plastica è diventato uno dei più sentiti problemi ambientali, sia da parte dei ricercatori sia da parte dell’opinione pubblica. All’inizio le preoccupazioni hanno investito lo stato del mare e degli oceani, dove si accumula la gran parte dei rifiuti di plastica dispersi nell’ambiente, formando talvolta giganteschi accumuli di spazzatura. In seguito è aumentata la consapevolezza che la plastica non si trova solo nell’acqua, ma anche in molti organismi marini, dallo zooplancton ai pesci fino agli animali al vertice della catena alimentare.
Le immagini di foche, lontre e tartarughe soffocate da rifiuti di plastica, o di uccelli marini con lo stomaco colmo di frammenti colorati di cannucce, tappi e sacchetti hanno fatto il giro del mondo e scosso le coscienze di molte persone. In pochi decenni abbiamo disperso nell’ambiente un’incredibile quantità di rifiuti destinati a restare in circolo per millenni.
La plastica è infatti un materiale scarsamente biodegradabile e una volta che finisce nell’ambiente tende a ridursi in frammenti sempre più piccoli, sotto l’azione incessante delle radiazioni solari e degli agenti atmosferici. I frammenti di diametro inferiore a 5 millimetri, chiamati microplastiche, possono essere trasportati dalle correnti atmosferiche e marine persino nelle regioni più remote del pianeta: dalle calotte polari alle vette dell’Everest fino agli abissi oceanici.
Plastica nel sangue e nei polmoni
Quando è diventato evidente che questi minuscoli frammenti di plastica sono ormai ovunque, persino nell’acqua che beviamo e nell’aria che respiriamo, i ricercatori hanno cominciato a chiedersi se fossero presenti anche dentro il nostro corpo. E, purtroppo, non appena sono state messe a punto le metodologie per trovarli, li hanno trovati.
Una ricerca che sarà pubblicata sulla rivista Science of the Total Environment ha mostrato che le microplastiche possono raggiungere anche la parte più profonda dei nostri polmoni. Lo studio è stato condotto su campioni di tessuto polmonare prelevati da tredici pazienti volontari che stavano per sottoporsi a un’operazione chirurgica. In undici casi, è stata trovata la presenza di microplastiche. Le più comuni sono risultate essere quelle di polipropilene, un materiale molto usato negli imballaggi e nelle tubature, e di polietilene tereftalato (PET), di largo impego nella produzione di bottiglie di plastica.
In modo analogo, una seconda ricerca apparsa in marzo sulla rivista Environmental International ha svelato che la plastica riesce ad arrivare persino nel nostro sangue e, attraverso il sistema circolatorio, può raggiungere (e forse accumularsi) in diversi organi, con effetti ancora sconosciuti. In questo caso i ricercatori hanno analizzato campioni di sangue prelevati da 22 donatori adulti in buona salute, trovando la plastica in 17 di loro. Metà dei campioni conteneva PET; un terzo polistirene (o polistirolo), usato negli imballaggi; un quarto polietilene, il materiale con cui sono fatti i sacchetti di plastica.
Al momento non sappiamo se la presenza di plastica nel corpo umano rappresenti un rischio per la salute: la ricerca in quest’ambito è appena agli inizi e occorre prendere i risultati con cautela. Entrambi gli studi citati, per esempio, sono stati condotti su un numero esiguo di persone, perciò servirà estendere l’indagine a un campione più ampio. D’altro canto, la plastica è stata trovata in quasi tutte le persone esaminate, suggerendo che la presenza di plastica nei nostri corpi potrebbe essere molto diffusa. E pur trattandosi di piccole quantità, i ricercatori non nascondono le loro preoccupazioni perché negli esami in vitro le microplastiche hanno già dimostrato la capacità di danneggiare le cellule umane. Qualcosa di analogo agli effetti del particolato che inquina le nostre città, in grado di penetrare nei polmoni e causare ogni anno milioni di morti premature.
Se vuoi approfondire il problema delle microplastiche puoi guardare il video Zanichelli Benvenuti a plastisfera:
Una produzione sempre in crescita
Queste nuove ricerche non fanno che confermare la pervasività dell’inquinamento da plastica nell’ambiente in cui viviamo. Ridurre i rifiuti di plastica appare dunque sempre più urgente, per proteggere l’integrità degli ecosistemi, e forse anche la nostra salute. Trovare una soluzione però non è semplice perché la plastica è una classe di materiali molto economici e versatili, al punto che ormai si trova in tantissimi oggetti: dai vestiti di nylon e poliestere (che oggi superano quelli di lana e cotone), alle automobili e agli aerei (fatti per metà di plastica), a tutti i dispositivi elettronici, fino agli imballaggi, sempre più numerosi e spesso usati una sola volta prima di diventare rifiuti.
Non sorprende che, da quando la plastica è stata inventa, la produzione annuale non abbia fatto che aumentare, arrivando nel 2020 a quasi 370 milioni di tonnellate. Nel complesso abbiamo già fabbricato oltre 10 miliardi di tonnellate di plastica. Si stima che, se la mettessimo su una bilancia, peserebbe più di tutti gli organismi viventi che oggi abitano la Terra. Di pari passo con la produzione di plastica è aumentata anche la quantità di rifiuti, spesso molto difficili da smaltire o riciclare. Secondo uno studio pubblicato nel 2017 sulla rivista Science Advances, è stato possibile riciclare appena il 9% dei rifiuti di plastica prodotti a livello mondiale. Il 12% è stato incenerito, mentre il restante 79% è finito in discarica o disperso direttamente nell’ambiente.
Il riciclo non basta
Riciclare la plastica, purtroppo, non è sempre tecnicamente possibile, e talvolta non è conveniente dal punto di vista economico. A differenza del vetro o dell’alluminio, che si possono fondere più volte per fabbricare altri oggetti di qualità analoga, le plastiche tendono infatti a degradarsi ogni volta che sono sottoposte a un processo di riciclo. Con le bottiglie in PET, per esempio, si possono creare fibre sintetiche o materiali isolanti, ma non altre bottiglie della stessa qualità, che perciò dovranno essere fabbricate a partire da plastica vergine.
Se vuoi approfondire i metodi di riciclo dei materiali plastici puoi leggere l’articolo Come si ricicla la pastica di Stefano Dalla Casa.
D’altro canto, rinunciare alla plastica non è realistico e per alcuni impieghi sarebbe svantaggioso anche dal punto di vista ambientale perché il trasporto di merci e imballaggi in legno, vetro o metallo, che sono più pesanti e ingombranti, richiede un maggior dispendio di energia. La plastica permette inoltre di conservare meglio i cibi, riducendo gli sprechi alimentari.
Poiché non si può risolvere il problema unicamente con il riciclo, possiamo considerare tre strategie:
1.ridurre la produzione di plastica, evitando almeno gli impieghi inutili o per cui sono disponibili alternative più sostenibili;
2.limitare il più possibile l’«usa e getta» perché – qualsiasi sia il materiale – costituisce uno sperpero di energia e di materie prime;
3.progettare oggetti che siano utilizzabili più volte, che durino più a lungo e agevolino il recupero dei materiali con cui sono stati fabbricati: sono i principi dell’economia circolare che, anziché basarsi sull’idea che le merci debbano essere consumate, buttate e sostituite seguendo un flusso lineare, punta invece sul riuso e sul riciclo di beni e materie prime per allungare il ciclo di vita degli oggetti e ridurre l’impiego di risorse naturali.
La necessità di un trattato globale
La maggior parte degli esperti ritiene che per risolvere il problema dei rifiuti di plastica occorra considerare l’intero ciclo di vita di questo materiale: dalla produzione, al consumo, fino al recupero e al riciclo. Inoltre, l’inquinamento da plastica deve essere affrontato mediante un accordo globale perché ormai interessa tutto il pianeta. In altre parole, così come già avvenuto per la crisi climatica e la perdita di biodiversità – che il rapporto Making Peace with Nature ha di recente riconosciuto come le più gravi emergenze ambientali dell’Antropocene – anche l’inquinamento da plastica dovrebbe entrare nell’agenda politica delle Nazioni Unite ed essere affrontato con accordi internazionali.
Il primo importante passo in questa direzione è stato fatto il 2 marzo 2022 a Nairobi, in Kenya, quando l’Assemblea delle Nazioni Unite per l’ambiente ha deciso di avviare i negoziati per un trattato globale sulla plastica. La risoluzione è stata approvata tra gli applausi dei delegati di 175 nazioni. La speranza è che entro il 2024 si possa giungere a un accordo per fermare questa nuova emergenza ecologica mondiale. Inger Andersen, direttrice esecutiva del Programma per l’Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP), ha dichiarato che sarebbe l’accordo ambientale più importante dopo quello sul clima di Parigi: «È una polizza assicurativa per l’attuale generazione e per quelle future, che potranno vivere con la plastica anziché esserne condannate».
Affinché possa essere davvero efficace, tuttavia, il trattato dovrà essere legalmente vincolante per governi e aziende di tutto il mondo e considerare l’intero ciclo di vita della plastica «dalla fonte al mare», per citare un’espressione usata a Nairobi. Non sono infatti mancati i tentativi di limitare l’accordo al problema della dispersione dei rifiuti, senza affrontare il nodo cruciale della produzione eccessiva di plastica, che può essere limitata anzitutto vietando in modo progressivo il monouso e incentivando i sistemi di vendita basati sullo sfuso e sulla ricarica. Solo riducendo a monte il consumo di plastica si può infatti ridurre l’impatto ambientale dovuto ai rifiuti e le emissioni di gas serra dovute alla produzione della plastica, che deriva in gran parte dai combustibili fossili e contribuisce così anche ai cambiamenti climatici.
L’aumento della produzione mondiale di plastica dal 1950 al 2015 (immagine: Science Advance)
La differenza tra economia lineare (A) ed economia circolare (B) (immagine tratta da Curtis et al., Percorsi di scienze naturali, Zanichelli, 2020)