Negli ultimi anni il paesaggio pugliese, soprattutto quello salentino, è cambiato in modo davvero impressionante, fino al punto di risultare quasi irriconoscibile. Tradizionalmente questa regione geografica nel sud della Puglia era caratterizzata da una vastissima distesa coperta da una monocoltura: l’olivo, per lo più appartenente a due specifiche varietà (o “cultivar” come si dice tecnicamente), quelle denominate Ogliarola e Cellina, che dominavano sia nei piccoli appezzamenti di terreno privati sia, soprattutto, nelle aziende agricole.
Intorno al 2008 (la data approssimativa è stata ricavata dall’analisi retrospettiva degli esperti) la situazione è progressivamente cambiata: gli oliveti iniziavano a mostrare segni di sofferenza. Sugli alberi iniziavano a manifestarsi, a chiazze, estesi disseccamenti che si diffondevano, nel tempo, all’intera chioma della pianta, portando inesorabilmente l’olivo alla morte. Nessuno tra i rimedi usati in olivicoltura per trattare le malattie note sembrava avere efficacia e fu ben presto chiaro che il nemico contro il quale si combatteva era un patogeno mai registrato prima nelle aree tradizionalmente olivicole, in grado di causare danni molto gravi.
Che cos’è Xylella fastidiosa
L’individuazione del responsabile si deve all’intuizione del professor Giovanni Martelli, che, osservando le foto dei danni agli oliveti, pensò che il colpevole potesse essere un batterio tristemente noto nel continente americano. Si tratta di Xylella fastidiosa, causa di gravi danni, per esempio, agli agrumeti sudamericani e all’origine della malattia di Pierce che alla fine del XIX secolo aveva messo in seria difficoltà la viticoltura californiana.
Grazie a questa intuizione, un’indagine mirata consentì, quindi, nell’ottobre del 2013, di avere una risposta certa: si trattava proprio di Xylella fastidiosa. Purtroppo questa era la peggiore delle risposte possibili, perché il batterio era famoso per essere uno tra i più temibili patogeni vegetali, contro cui nessuno era riuscito a trovare una cura efficace, nemmeno in America dopo oltre un secolo di ricerche e studi. La sua caratteristica è quella di essere in grado, mutando, di attaccare numerosissime specie vegetali (l’elenco, in continuo aggiornamento, comprende oggi oltre 600 specie di piante in tutto il mondo): quella in Puglia è stata la prima segnalazione di grave pericolo per l’olivo e, in generale, la prima individuazione del batterio nel territorio europeo.
Si trattava di una possibilità temuta da tempo: già nel 1997 un articolo di Alexander Purcell, patologo vegetale alla University of California, Berkeley, paventava la possibilità di una diffusione su tutto il territorio mondiale, Puglia inclusa, di questo batterio, favorita dalle esportazioni di piante su scala globale. Anche per questo le autorità internazionali prescrivevano rigide misure di controllo delle piante in transito lungo i diversi confini perché Xylella era (ed è) classificata dall’Unione Europea come “organismo nocivo da quarantena e prioritario”. Ma dalle maglie dei controlli qualcosa deve essere sfuggito e le analisi genetiche condotte hanno permesso di identificare come zona di origine del ceppo di Xylella giunto in Puglia la Costa Rica, partendo dalla quale ha probabilmente “viaggiato” su una pianta di caffè ornamentale, una specie oggetto di massive importazioni che transitano solitamente attraverso il porto di Rotterdam.
La diffusione dell’epidemia
L’epicentro dell’infezione è stato individuato presso la costa ionica salentina, nelle campagne tra i comuni di Gallipoli, Alezio e Taviano, ma il contagio si è diffuso in pochi anni in modo davvero impressionante, rendendo quasi impossibile trovare un oliveto sano nell’intero territorio salentino; poi, progressivamente, il patogeno è avanzato dalla provincia di Lecce verso quelle di Brindisi, Taranto e Bari.
In base all’ultimo monitoraggio attuato da un’associazione professionale di agricoltori, il contagio ha riguardato oltre 21 milioni di piante, per oltre 8 mila chilometri quadrati, pari al 40% del territorio pugliese, con un impatto drammatico sull’economia, in particolare del territorio salentino. Nel Salento la rapidissima diffusione è stata favorita da una serie di circostanze ambientali, ma anche dalla forte presenza dell’insetto che si è rivelato il principale vettore della malattia. Si tratta di Philaenus spumarius, comunemente conosciuto come “sputacchina”, un piccolo insetto autoctono che si nutre della linfa grezza delle piante, inglobando così anche il batterio e trasferendolo alle piante vicine. La popolazione di sputacchina nella provincia di Lecce è decisamente importante e ha rappresentato uno dei principali fattori di diffusione del batterio, anche per via dell’applicazione irregolare dei trattamenti, meccanici e con insetticidi, prescritti per ridurla.
Uno degli elementi che hanno reso difficile la tempestiva applicazione delle misure di contenimento dell’infezione è stato il sorgere di una serie di spiegazioni alternative e antiscientifiche dell’epidemia, molte delle quali anche in contraddizione tra loro. Vere e proprie teorie del complotto, che mettevano in campo presunti piani ai danni dell’olivicoltura pugliese e altre losche trame immaginarie.
Dopo la presa di coscienza della presenza del batterio è stato immediatamente chiaro che l’eliminazione delle piante infette e delle specie ospiti nelle vicinanze sarebbe stata l’unica possibilità per rallentare l’avanzata e i relativi danni paesaggistici ed economici. Una conseguenza della diffusione delle idee complottiste è stata l’indagine della Procura della Repubblica di Lecce che ha coinvolto gli scienziati attivamente impegnati nella lotta a Xylella nel territorio pugliese (in seguito tutte le accuse sono state archiviate); accuse che hanno indirettamente fatto accrescere la sfiducia nella scienza, disincentivando ulteriormente l’applicazione delle misure di controllo, peraltro mai abbastanza supportate da iniziative politiche e istituzionali. Purtroppo l’esito dei ritardi, come era prevedibile, è stata la definitiva compromissione dell’olivicoltura nel Salento.
La situazione attuale e le prospettive dalla ricerca
Come dicevamo, i danni causati dall’epidemia di Xylella, anche per via della scarsa aderenza alle misure di contenimento, hanno assunto proporzioni drammatiche. Fin da subito è emersa l’importanza di preservare il più possibile dall’infezione gli oliveti della provincia di Bari, da cui proviene un grande quantitativo di olio di alta qualità, che rappresenta una quota consistente della produzione nazionale. Alcune circostanze positive, come piccole differenze ambientali e climatiche, maggiore attenzione alla gestione degli oliveti, diversificazione delle colture e una minore popolazione dell’insetto vettore sono elementi che hanno giocato e giocano a favore di un più agevole contenimento dell’infezione in queste zone, evitando anche che il contagio possa estendersi in altre aree del nostro Paese.
Per il Salento, in cui il patogeno appare talmente diffuso da non essere più eradicabile, le prospettive principali consistono nella conversione dei terreni ad altre colture (per esempio mandorlo, carrubo, fico, fico d’India, robinia, ma anche la vite, che, come è emerso, non viene attaccata dallo specifico ceppo di Xylella presente in Puglia), oppure il reimpianto di olivi di varietà resistenti. In questi anni è, infatti, emerso che due varietà di olivo, la tradizionale Leccino e quella di recente elaborazione chiamata FS-17 o Favolosa, pur non essendo immuni da Xylella, anche se contagiate permettono di mantenere una buona produzione.
Per diverso tempo la ricerca scientifica si è concentrata sul tentativo di trovare nuove varietà resistenti, ma dopo molte prove oggi si è compreso che il patrimonio genetico che conferisce resistenza alle piante è piuttosto limitato nelle varietà di olivo. È, però, promettente un dato che emerge dalle piante selvatiche (incroci naturali) selezionate nel Salento perché non interessate dalla malattia: si è visto che la maggioranza deriva da Leccino, cioè il Leccino incrociato con altre varietà è in grado di conferire resistenza alla progenie. Quindi attualmente i progetti di ricerca avviati riguardano soprattutto il miglioramento genetico delle piante attraverso l’uso di incroci, sfruttando come “genitori” le due varietà resistenti.
Le linee di ricerca più importanti procedono sotto la direzione dell’Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante del CNR di Bari. In particolar modo, l’istituto è coinvolto in due importanti progetti nazionali, coordinati dalla prima ricercatrice Maria Saponari. Il progetto OMIBREED riguarda il consolidamento delle conoscenze sul genoma dell’olivo, il miglioramento genetico delle piante e lo sfruttamento di tecnologie innovative per la valutazione della risposta a Xylella in olivo e altre colture tradizionali come mandorlo e ciliegio.
Il progetto REACH-XY, che coinvolge molti gruppi di lavoro, è finalizzato a creare un centro di ricerca pilota per la biosicurezza delle piante, presupposto per lo sviluppo di progetti che riguardano patogeni altamente temibili delle piante, ma anche l’impiego di tecniche di editing genomico per ridurre la suscettibilità delle varietà di olivo.
Quanto al contrasto dell’infezione già insediata in una pianta, un’altra importante linea di ricerca, in collaborazione con l’Università di Perugia e l’Istituto di Cristallografia del CNR, riguarda l’elaborazione di farmaci di precisione, in grado di colpire Xylella senza alterare il microbioma delle piante e riducendo l’impatto sull’ambiente derivante dall’applicazione degli agrofarmaci tradizionali.
Disseccamenti causati da Xylella fastidiosa ad Avetrana (TA), in una foto del settembre 2023 (immagine: IPSP-CNR)
Un nuovo oliveto piantato a Ugento (LE) con la varietà di olivo FS-17, resistente a Xylella (immagine: IPSP-CNR)
Un oliveto con evidentissimi danni da Xylella fastidiosa a Gemini (LE), fotografato a settembre 2023 (immagine: IPSP-CNR)
Una piccola larva di Philaenus spumarius, insetto vettore di Xylella, nella caratteristica schiuma (immagine: IPSP-CNR)
Stadio giovanile di Philaenus spumarius, insetto vettore di Xylella (immagine: IPSP-CNR)