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SPECIALE CORONAVIRUS

Farmaci: come si può curare il COVID-19?

1. Con quali farmaci si può curare l’infezione da SARS-CoV-2? 2. Quali sono le caratteristiche molecolari di SARS-CoV-2 che ci possono aiutare nella ricerca di nuovi farmaci? 3. Come funziona la sieroterapia? 4. Come funziona la terapia anti-COVID con anticorpi monoclonali? 4. Quali vaccini anti-coronavirus sono in via di sviluppo? 5. Che cos’è l’immunità di gregge e come funziona?
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Questa pagina è stata aggiornata il 14/02/2021 con l'aggiunta di questo approfondimento: 4. Come funziona la terapia anti-COVID con anticorpi monoclonali?

1. Con quali farmaci si può curare l’infezione da SARS-CoV-2?

A complicare la gestione dell’epidemia di COVID-19 concorrono due fattori: l'assenza di un vaccino e la mancanza di farmaci contro i coronavirus. Il diffondersi dell’epidemia ha accelerato la ricerca in questo settore ma al momento non esistono farmaci specifici. Le infezioni da coronavirus vengono quindi trattate con diverse classi di farmaci, tra cui antivirali attivi contro i virus a RNA in generale, interferone-alfa per stimolare la risposta immunitaria e farmaci antinfiammatori per sostenere le funzioni vitali dei pazienti colpiti. Accanto a queste terapie aspecifiche, nel corso dell'epidemia sono state testate alcune forme di drug repositioning (traducibile come “riposizionamento del farmaco”), ovvero di sperimentazioni basate sull’utilizzo di farmaci già esistenti per il trattamento di altre malattie.
Classe Meccanismo d'azione Esempi
Anti-virali Inibiscono il ciclo replicativo del virus Remdisivir Opinavir Ritonavir
Immunostimolanti Potenziano la risposta del sistema immunitario e la sua capacità di riconoscere ed eliminare il virus   Interferoni Anticorpi monoclonali Plamsa superimmune per sieroterapia
Immunosoppressori Inibiscono la risposta immuniatria dell'ospite, contrastando gli effetti della "tempesta di citochine" Desametasone e altri corticorsteroidi Tocilizumab
Anticoagulanti Constrastano i danni vascolari Eparina

Un esempio di riposizionamento si è visto con i farmaci antivirali per l’HIV o Ebola, usati dai medici cinesi per alleviare i sintomi dei pazienti con le forme più gravi. Sulla scorta di questi test preliminari, l’OMS ha acconsentito all’avvio di studi clinici per la sperimentazione dei farmaci opinavir, ritonavir e remdisivir in pazienti affetti da COVID-19. Il remdesivir, che interagisce con il genoma virale mandando in corto-circuito la produzione di nuovi virioni, si è rivelato finora il più promettente, soprattutto nel ridurre la permanenza in ospedale dei pazienti più gravi e accelerare la loro ripresa. Tra i farmaci inizialmente approvati dall’Agenzia Italiana per il Farmaco (Aifa) per la COVID-19 c'erano anche la clorochina e l’idrossiclorochina. Queste molecole di sintesi mimano la struttura e la funzione della chinina, il principio attivo contenuto nel primo farmaco antimalarico della storia, il chinino. La nuova applicazione di queste molecole nel trattamento dell’infezione da SARS-CoV-2 si basava su alcuni studi del passato, che dimostravano l’efficacia di questa molecola nell’inibire la replicazione dei coronavirus, in particolare del virus responsabile dell’epidemia di SARS del 2003. Inoltre, i risultati di uno studio preliminare, che raccoglieva i dati relativi a più di 100 pazienti cinesi affetti da COVID-19, sembravano indicare che la clorochina migliorasse il decorso della malattia nei pazienti con polmonite da SARS-CoV-2 grazie a un'ipotetica azione antivirale e immunomodulatoria. Tuttavia, i dati raccolti negli ultimi mesi non hanno confermato l'efficacia di questi farmaci nel trattamento e nella prevenzione dell'infezione da SARS-CoV-2. Molti Paesi hanno quindi fatto un passo indietro e la stessa AIFA ha specificato che, in assenza di dati che confermino quando era stato osservato in vitro, l'utilizzo di clorochina e idrossiclorochina per la prevenzione e il trattamento della COVID-19 può avvenire solo nell'ambito di specifici studi clinici approvati. In combinazione con altri farmaci, questi composti potrebbero dare comunque un beneficio che, però, deve essere valutato attravero una sperimentazione dedicata.
Un reparto COVID in Iran (Wikimedia Commons).
Un secondo esempio di drug repositioning di cui si è parlato molto riguarda il tocilizumab, la cui sperimentazione in Italia è partita da Napoli sull’esempio dei primi test in Cina; i primi risultati sono incoraggianti e il farmaco sarà presto disponibile anche in altri centri della penisola. A differenza dei farmaci antivirali citati in precedenza, il tocilizumab non agisce come anti-virale ma interviene sul versante della risposta immunitaria; normalmente, il tocilizumab è infatti usato come inibitore del sistema immunitario nel trattamento dell’artrite reumatoide. Perché usare un immunosoppressore quando l’obiettivo dovrebbe essere quello di potenziare le difese immunitarie delle persone infettate dal virus SARS-CoV-2? Per rispondere è necessario concentrare l’attenzione sul gruppo di pazienti che sviluppa i sintomi più gravi: in molti di essi i medici hanno infatti riscontrato i segni caratteristici della cosiddetta cytokine storm, una vera e propria “tempesta di citochine” (o chitochinemia) caratterizzata dal rilascio massivo di citochine infiammatorie (come l’interleuchina-6 o IL-6). Una volta innescata, questa sindrome colpisce diversi organi, impedendone la normale funzione; l’insufficienza multi-organo può essere fatale. In un quadro clinico di questo tipo, spegnere la risposta immunitaria e lo tsunami di citochine che investe l’organismo può quindi rivelarsi una mossa vincente, per quanto controintuitiva. Il tocilizumab è un anticorpo monoclonale che blocca il recettore per l’IL-6 e la sua azione potrebbe aiutare a spegnere la tempesta citochinica nei pazienti affetti da COVID-19.  

2. Quali sono le caratteristiche molecolari di SARS-CoV-2 che ci possono aiutare nella ricerca di nuovi farmaci?

Quando in natura compare un virus nuovo come SARS-CoV-2 è importante studiare e descrivere in dettaglio le sue caratteristiche molecolari per mettere a punto farmaci mirati. Il sequenziamento del genoma (di cui abbiamo parlato nel punto 4) è un primo passo fondamentale per classificare il virus e ricostruirne l’evoluzione. L’analisi del genoma, tuttavia, racconta solo una parte della storia. Per completare la carta d’identità del virus SARS-CoV-2 è indispensabile descrivere anche la struttura e la funzione delle proteine codificate dal suo genoma e il modo in cui esse interagiscono con la cellula umana. La proteina meglio conosciuta del nuovo coronavirus è la proteina spike, una glicoproteina che emerge dal rivestimento esterno del virus e svolge le funzioni di recettore virale, cioè permette il legame con la proteina ACE2 espressa dalle cellule umane. Poiché da questo primo contatto prende avvio la cascata di eventi che porta all’infezione, è importante mettere in luce le interazioni molecolari che ne sono alla base per poterle, eventualmente, bloccare con inibitori specifici (per esempio, anticorpi monoclonali). Conoscere il recettore virale è uno dei primi passi per studiare il meccanismo patogenetico di un virus. Questa informazione aiuta infatti a identificare le specie che possono essere infettate (per esempio, il recettore ACE2 è molto diffuso tra animali diversi e questo può favorire il salto di specie) e prevedere gli organi e apparati che saranno colpiti. Negli umani, per esempio, ACE2 è espresso ad alti livelli nell’epitelio respiratorio; questo, oltre a spiegare i sintomi più comuni, dà ragione anche della facilità con cui il virus viene trasmesso tra persone mediante colpi di tosse e starnuti. Le analisi genetiche e strutturali della proteina spike di SARS-CoV-2 hanno evidenziato molte analogie con il recettore del virus responsabile della SARS, ma le analisi molecolari hanno messo in luce anche alcune peculiarità. In particolare, il recettore di SARS-CoV-2 presenta un’affinità di legame molto maggiore; questo è un elemento importante, di cui tenere conto nel progettare interventi terapeutici basati su anticorpi monoclonali e, finché questi non saranno disponibili, sulla sieroterapia (vedi punto 17). Sempre partendo dall’analisi del genoma, un gruppo di ricercatori italiani ha individuato una mutazione particolare (in posizione 14408) che colpisce la regione del genoma virale che codifica per la RNA polimerasi RNA–dipendente (RdRp), ovvero l’enzima responsabile della replicazione del genoma virale. I ricercatori hanno osservato che, a partire da febbraio 2020, i genomi virali rinvenuti in Europa e in Nord America presentavano alcune mutazioni ricorrenti, che mancavano invece nei genomi isolati in Asia. La comparsa di mutazioni non deve sorprendere, perché i virus a RNA hanno la tendenza a commettere errori durante la loro replicazione. Tuttavia, tra le tante mutazioni che il virus ha e potrà accumulare, la mutazione 14408 merita di essere monitorata. La polimerasi RdRp fa infatti parte di un complesso molecolare che include anche la funzione di “correzione di bozze” (proofreading); un’ipotesi, ancora da dimostrare, è che la mutazione 14408 possa alterare il legame della polimerasi con gli altri fattori del complesso, creando le condizioni che favoriscono un maggiore accumulo di errori. Anche se è solo un’ipotesi, questa situazione evidenzia i diversi aspetti di cui bisogna tenere conto quando si progettano farmaci per un patogeno sconosciuto. Una mutazione come quella descritta potrebbe infatti avere due conseguenze. La prima, più immediata, è che un inibitore della polimerasi virale potrebbe perdere di efficacia se il suo sito di interazione viene a mancare a causa della mutazione; per esempio, uno dei farmaci testati al momento, l’antivirale remdesivir già impiegato per l’HIV, sembra interagire proprio con una tasca di legame vicina al sito mutato. La seconda conseguenza, indiretta ma non meno importante, è che una polimerasi “poco fedele” facilita l’accumulo di mutazioni casuali in tutto il genoma virale, quindi anche in altre proteine potenzialmente usate come bersaglio terapeutico: questo è uno dei meccanismi con cui il virus può diventare resistente ai farmaci e va quindi seguito attentamente. Nel ciclo replicativo di SARS-CoV-2 intervengono anche due proteasi, PLpro e 3CLpro. Il genoma virale viene infatti tradotto in blocco come un’unica poliproteina, dalla quale le proteasi “liberano”, mediante tagli proteolitici mirati, i singoli polipeptidi (che possono essere proteine strutturali, come la proteina spike, oppure funzionali, come la polimerasi). L’attività enzimatica della proteasi 3CLpro, che è la principale proteasi di SARS-CoV-2, si concentra su siti di taglio praticamente assenti nelle proteine umane: una caratteristica che permetterebbe di sviluppare inibitori con tossicità ed effetti collaterali limitati sulle cellule umane. In altri coronavirus, la proteasi PLpro sembra inoltre essere coinvolta anche in un meccanismo aggiuntivo che le permette di alterare le modifiche post-traduzionali presenti in alcune proteine della cellula ospite. Questo processo permette al virus di sfuggire alla risposta immunitaria innata dell’ospite e, insieme alla funzione primaria delle proteasi, può costituire un ulteriore snodo su cui concentrare la ricerca di farmaci antivirali. In particolare, un farmaco anti-proteasi potrebbe essere un componente essenziale di un cocktail di farmaci antivirali che agiscono su diversi fronti. Tutti gli esempi citati riguardano le caratteristiche molecolari del virus, ma un’infezione virale è un processo che vede coinvolte due parti: il virus e la cellula ospite. Oltre a studiare le caratteristiche del virus è quindi importate ampliare l’orizzonte della ricerca per analizzare l’interattoma specifico di questa infezione, ovvero la rete di interazioni con cui il virus prende il comando dell’apparato molecolare della cellula ospite.
L'interattoma generato dall'incontro tra il virus SARS-CoV-2 e le cellule umane (Fonte: Guzzi PH et al. Journal of Clinical Medicine 2020).
Basandosi sui principi della scienza delle reti e della bioinformatica, un primo studio ha evidenziato alcuni dei nodi fondamentali: oltre al recettore ACE2, che interagisce con la proteina spike virale, l’analisi ha messo in luce la capacità del virus di attivare l’apoptosi nella cellula infettata, un meccanismo già descritto in passato per altri coronavirus e che si ritiene possa favorire la diffusione delle particelle virali. L’apoptosi potrebbe inoltre essere indotta anche da un altro meccanismo: la rete evidenzia infatti la capacità del virus di interferire con alcune proteine mitocondriali; questo potrebbe alterare il metabolismo energetico della cellula infettata fino a causarne la morte per apoptosi. Questi sono solo alcuni esempi di come la scienza delle reti e la bioinformatica possono far emergere dall’interattoma le principali proteine coinvolte nel meccanismo patogenetico: questo tipo di studi permette di raddoppiare il fronte terapeutico, aggiungendo al versante virale – potenzialmente più soggetto a mutazioni – anche quello cellulare, geneticamente più stabile.

3. Come funziona la sieroterapia?

Un’ulteriore strategia terapeutica è data dalla sieroterapia, ovvero dalla possibilità di isolare dal siero di persone convalescenti gli anticorpi anti-SARS-Cov-2 e di infonderli a persone già infettate o a rischio di contrarre la malattia. Questa procedura è già usata nella pratica clinica per altre malattie, per esempio nella profilassi della rabbia. La sieroterapia è una forma di immunizzazione “passiva”, basata sul trasferimento delle difese immunitarie da una persona convalescente a un’altra; è una procedura che conferisce una protezione immunitaria molto rapida che, pur non essendo duratura, permette in alcuni casi di evitare l’infezione in persone esposte a un rischio certo o di mitigare i sintomi della malattia. Per la sieroterapia si parla di immunizzazione “passiva” per distinguerla dalle normali procedure di vaccinazione, che costituiscono invece forme di immunizzazione “attiva”, in cui il sistema immunitario di una persona viene stimolato per attivare difese che conferiscono una protezione più duratura. Gli anticorpi per la sieroterapia si possono ottenere da persone convalescenti attraverso le procedure già usate per la donazione di plasma (plasmaferesi). Il plasma è la frazione liquida del sangue, facilmente riconoscibile per il suo caratteristico colore giallo; il plasma non contiene gli elementi cellulari del sangue (come i globuli rossi e i globuli bianchi), ma contiene, oltre al 90% di acqua, anche proteine plasmatiche (come l’albumina) e le immunoglobuline, ovvero gli anticorpi prodotti come difesa immunitaria verso specifiche infezioni. Il siero non è altro che il plasma privato dei fattori della coagulazione. Il siero di persone convalescenti da COVID-19 potrebbe essere usato sia per la profilassi  dell’infezione che per il trattamento della malattia.
  • Nel caso della profilassi, la sieroterapia agisce come un surrogato del vaccino e, in tempi molto rapidi, può prevenire l’infezione e la malattia nelle persone più a rischio di contrarla, come gli operatori sanitari.
  • Nelle persone già infettate, il siero potrebbe invece essere usato a scopo terapeutico per ridurre i sintomi e la mortalità. Quest’ultima applicazione è stata testata in Cina nei mesi scorsi, durante l’epidemia in corso; il numero di persone trattate era piuttosto ridotto, ma i primi risultati suggerivano che la somministrazione di siero fosse sicura e in grado di ridurre la carica virale. Con la diffusione della pandemia, anche altri Paesi stanno ora prendendo in considerazione la stessa procedura e stanno partendo i primi studi-pilota.
Il protocollo recentemente approvato dalla FDA, l’autorità regolatoria statunitense, prevede l’applicazione della sieroterapia solo nei pazienti più gravi e i potenziali donatori devono rispondere a tre requisiti: devono aver contratto l’infezione da SARS-CoV-2; devono essere guariti da almeno 14 giorni, cioè devono essere privi di sintomi e non più infettivi; devono aver sviluppato anticorpi specifici verso il virus responsabile della COVID-19. Ovviamente, anche chi è in possesso di questi requisiti, deve essere adatto alla donazione in base ai criteri già previsti per la donazione di sangue (per esempio, assenza di malattie croniche o di altre malattie infettive come epatite o HIV). In Italia, un protocollo sperimentale analogo destinato ai pazienti in terapia intensiva ha preso avvio a fine marzo al Policlinico Universitario San Matteo di Pavia. Nonostante questi dati incoraggianti, non bisogna dimenticare che la sieroterapia e il drug repositioning sono strategie terapeutiche di emergenza, che non possono sopperire del tutto alla mancanza di farmaci più specifici. Per questo, molti laboratori in tutto il mondo si stanno dedicando alla ricerca di farmaci anti-virali in grado di interferire direttamente con la replicazione del virus SARS-CoV-2. Una ricerca alla quale chiunque può dare un piccolo contributo anche dal computer di casa: il software Fold.it, basato sui meccanismi di ripiegamento delle proteine (il cosiddetto folding proteico), è una sorta di gioco online che permette di vagliare il potenziale terapeutico di molecole anti-coronavirus. Le soluzioni più promettenti verranno poi valutate e testate presso i laboratori dell’Università di Washington.  

4. Come funziona la terapia anti-COVID con anticorpi monoclonali?

Gli anticorpi sono proteine sintetizzate e secrete da particolari cellule immunitarie, le plasmacellule (o linfociti B differenziati). Ciascuna plasmacellula produce solo un tipo di anticorpo, che riconosce in modo specifico una precisa combinazione di amminoacidi (l’epìtopo) di un antigene. Un antigene può contenere diversi epitopi, ciascuno dei quali riconosciuto da un diverso anticorpo. In seguito al contatto con l’antigene, la plasmacellula che lo riconosce inizia a dividersi, generando un clone di cellule identiche che secernono tutte lo stesso anticorpo: si ottiene così un insieme di anticorpi monoclonali, cioè che derivano da un unico clone di plasmacellule. Gli anticorpi monoclonali possono essere prodotti in laboratorio con un processo a tappe molto laborioso, che prevede l’iniezione dell’antigene purificato in un topo e la successiva selezione del clone di plasmacellule che produce l’anticorpo desiderato. Gli anticorpi monoclonali sono usati già da molti anni sia per la diagnosi sia per la terapia di molte malattie, tra cui diversi tipi di tumori. Più raro è il loro impiego per il trattamento di malattie virali, ma la pandemia di COVID-19 ha contribuito a testare il loro utilizzo anche in questo ambito. L’idea è quella di iniettare nei pazienti positivi al virus anticorpi monoclonali specifici contro SARS-CoV-2, in modo da permettere all’organismo di montare una risposta immunitaria efficace in tempi rapidi, prima del peggioramento dei sintomi. Rispetto ad altri farmaci impiegati fino ad oggi, che agiscono, per esempio, modulando in modo aspecifico la risposta immunitaria o contrastando il peggioramento dei sintomi (anticoagulanti), gli anticorpi monoclonali fornirebbero la prima strategia terapeutica specifica contro il virus SARS-CoV-2. Gli anticorpi anti-COVID autorizzati in Italia sono al momento quattro, dai nomi difficilmente pronunciabili ma riconoscibili dal suffisso –mab (dall’inglese Monoclonal AntiBody, anticorpo monoclonale): bamlanivimab e etesevimab (prodotti da Eli Lilly), casirivimab e imdevimab (prodotti da Regeneron). Tutti questi anticorpi riconoscono in modo specifico la glicoproteina Spike, lo stesso antigene che è stato usato per la progettazione dei vaccini anti-COVID. A differenza dei vaccini, però, la sperimentazione clinica per gli anticorpi monoclonali è in una fase precoce ed è ancora difficile stabilirne in modo chiaro l’efficacia e i benefici clinici. I dati disponibili indicano che questi farmaci sono quanto meno sicuri (gli effetti collaterali sembrano essere lievi) e potrebbero aiutare ad abbassare la carica virale nelle prime fasi dell’infezione. Tuttavia, quello che sarebbe il dato più promettente – ovvero la riduzione nel numero di casi gravi e di decessi – deve ancora essere confermato in modo ufficiale da una pubblicazione scientifica e da trial clinici su un numero di persone ampio e statisticamente solido. Per questi motivi, l’AIFA, così come la FDA statunitense, ha approvato l’uso di anticorpi monoclonali solo con procedura di emergenza per pazienti che presentano un alto rischio di sviluppare gravi complicanze. Al momento, non la si può in alcun modo considerare una terapia convenzionale, anche per l’elevato costo e la difficoltà logistica di somministrazione: i pazienti ricevono infatti gli anticorpi monoclonali in ospedale attraverso un’iniezione endovenosa, dopo la quale devono essere monitorati per far fronte a effetti collaterali imprevisti. Un altro aspetto da considerare nell’uso di anticorpi monoclonali riguarda la comparsa di varianti virali. Il problema è duplice. Da un lato, il virus SARS-CoV-2 ha di per sé la tendenza ad accumulare mutazioni, in particolare a livello della proteina Spike: analisi preliminari hanno già dimostrato che la cosiddetta variante Sudafricana è insensibile all’azione dell’anticorpo bamlanivimab, mentre rimane sensibile all’azione combinata di casirivimab e imdevimab. Inoltre, un utilizzo diffuso di anticorpi monoclonali anti-Spike potrebbe creare una pressione evolutiva sul virus tale da fornire un ulteriore “incentivo” allo sviluppo di nuove varianti insensibili all’anticorpo. Poiché la proteina Spike è l’antigene usato anche per i vaccini attualmente in uso, questo aspetto va monitorato con grande attenzione per evitare di agevolare lo sviluppo di nuove varianti difficili da controllare.  

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  --- Immagine banner: Pixabay Immagine box: Wikimedia Commons
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