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Breve storia della quercia

Andiamo alla scoperta dell’importanza ecosistemica di un albero che in passato ha avuto un ruolo cruciale per l’evoluzione di molte società umane

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Ogni frutto
stringe il seme come giurando.
Cadendo giura e in forma di radice risponde
alla terra che chiama. Alla terra che canta
la promessa infinita. C’è solo vita
niente altro. Solo vita.

Mariangela Gualtieri, Bestia di gioia, Einaudi 2010, p. 26.

Abbiamo visto che si può raccontare un bel pezzo di storia del mondo solo con un albero: il Ginkgo biloba. La stessa cosa, ma in modo diverso, possiamo farla con la quercia, per la quale possiamo distinguere fra la storia naturale di questo albero (è una specie chiave per il suo effetto sull’ecosistema) e la sua storia culturale (ha avuto un impatto enorme nella storia umana).

Dire “quercia” è impreciso: non è una specie, ma un genere. Il genere Quercus, appartenente alla famiglia delle Fagacee, comprende circa 500 specie, di cui una dozzina presenti in Italia. In linea di massima, a parte alcune eccezioni, le querce più note condividono caratteristiche che le accomunano, per esempio i loro inconfondibili frutti: le ghiande.

«Un tempo la mia casa era una ghianda» scrive Roger Deakin, uno dei più grandi amici degli alberi mai vissuti, ricordando involontariamente il designer Bruno Munari, che nel libro Fenomeni bifronti (1993) definisce l’albero come «l’esplosione lentissima di un seme».

Questa lentissima esplosione vede un seme molto piccolo deflagrare, come un Big Bang vegetale, in un intero universo in grado di accogliere e favorire la vita di centinaia e centinaia di altre specie viventi, fra cui insetti, uccelli e mammiferi (tra cui anche l’uomo, come vedremo). Chi ha visto il film di animazione Il mio vicino Totoro di Hayao Miyazaki ricorderà la scena notturna in cui avviene la potentissima germogliazione dei semi. 

Sia fatta la ghianda

Seguendo la voce poetica di Mariangela Gualtieri, il frutto (una quercia matura produce circa cinque quintali di ghiande ogni volta) stringe il seme (una plantula e una radichetta protetti da due cotiledoni, il tutto contenuto da pericarpo esterno e tegumento interno) e giura che farà tutto il possibile per germogliare e crescere, fino a diventare un albero adulto e dare il suo contributo alla vita, niente altro. Solo vita.

È dalla ghianda che inizia la vita di una quercia, è dalla ghianda che inizia anche il libro Essere una quercia (Contrasto, 2021, 263 pp., euro 21,90, illustrazioni di Irene Kung, traduzione di Matteo Martelli), scritto con grande maestria divulgativa dal biologo e ingegnere forestale francese Laurent Tillon.

Questo memorabile libro si legge come se fosse un romanzo botanico, se mai ne è esistito uno, e racconta le “gesta” di Quercus, una singola specifica quercia nata nel 1780 e albero prediletto dell’autore, protagonista assoluta di questo lungo, avventuroso e impervio viaggio epico nel tempo e nella vita ecologica di un piccolo angolo di mondo (che diventa il mondo).

Quercus è un esemplare di quercia sessile (Quercus petraea), più nota come rovere. È detta sessile perché le ghiande sono direttamente attaccate ai rami, dunque prive di peduncolo. Con la nostra eroina Quercus ci sono Silva, la foresta; Leccinum, il fungo simbionte senza il quale Quercus non sarebbe sopravvissuta ai primi difficili anni; ci sono vari coprotagonisti come Canis (il lupo) e Apodemus (il topo). C’è anche Homo: a volte Homo si chiama Laurent, a volte sono i politici che decidono le sorti di un’area rurale, a volte siamo tutti noi (nel bene e nel male).

All’inizio, nel 1780, poco prima della Rivoluzione francese, Quercus è una ghianda che la gravità e il caso pongono poco lontano dall’albero madre nel bel mezzo di un rovo. Questo è un bene: il rovo la protegge dagli animali affamati.

Quercus grazie all’energia conservata nei due cotiledoni riesce a penetrare il terreno con la radichetta, la sua radice primaria. È un momento che segna il suo destino, perché per tutta la sua vita vegeterà lì, per sempre lì, in quel preciso punto di mondo:

… deve fare i conti con ciò che la natura offre. Questo sarà il suo sacerdozio, per tutta la vita: adattarsi alle risorse locali, alla presenza dei suoi vicini che a loro volta sono avidi delle stesse sostanze nutritive, o morire. L’unica soluzione è quindi separarsi, diventare un essere multiplo. [p. 33]

E così dopo la radichetta ecco germogliare la plantula:

forma uno stelo che, al contrario, si alza verso il cielo per guadagnare la luce. Combatte quindi contro la gravità. Sarà questa l’essenza stessa dello sviluppo di Quercus: sprofondare nel terreno da un lato e salire verso il cielo dall’altro; modellarsi in contraddizione con le leggi di natura che riportano inesorabilmente tutti gli oggetti al suolo. [p. 35]

Il rovo protegge le sue tenere fibre dai caprioli e dagli altri ungulati affamati, ma questo è anche un male, perché il rovo capta quasi tutta la luce, rendendo Quercus, nel suo primo anno di vita, una piantina insignificante condannata agli stenti e, forse, alla morte per mancanza di raggi solari. Ma Quercus ha un carattere molto diverso, per esempio, dal frettoloso pioppo: Quercus sa attendere. E l’attesa la ripaga in un modo davvero sorprendente.

Arrivano i nostri (funghi)

I funghi sono il "sistema digerente" della natura e senza di loro non sarebbe possibile la vita. Grazie al ruolo di decompositori delle piante morte, i funghi saprofiti permettono alle piante di prosperare.

Possono essere loro stessi gli assassini, diventando i più acerrimi nemici degli alberi. I funghi lignicoli per esempio attendono che l’albero si ferisca in qualche modo (tempesta, picchio, motosega...) per entrargli dentro tramite le spore, che viaggiano numerosissime nell’aria, e ucciderlo molto lentamente facendolo marcire (ecco perché capitozzare gli alberi del verde pubblico non è mai una buona idea).

Ma i funghi possono essere anche i migliori amici degli alberi. Nel caso di Quercus l’alleato si chiama Leccinum: Leccinum quercinum (porcinello rosso) a discapito del nome latino (Leccinum significa “del leccio”, dove il leccio – Quercus ilex – è una quercia sempreverde diffusa anche in Italia soprattutto nelle zone calde), si associa con molte specie di querce, ed è un alleato che diventa tale con l’inganno.

I funghi come Leccinum sono ipogei, ovvero conducono una vita perlopiù sotterranea: quelli che vediamo spuntare dal terreno, che in certi casi mangiamo e che chiamiamo comunemente “funghi” sono in realtà i frutti, i “corpi fruttiferi”, gli organi riproduttori. Invisibile allo sguardo si estende sotto i nostri piedi il vero mondo dei funghi, i quali sono composti dal micelio, l’apparato vegetativo.

Il micelio è sua volta formato dalle ife, sottilissimi filamenti che formano una rete molto estesa e complessa, perfetta per «sfruttare grandi volumi di terreno». Secondo una stima del noto micologo Paul Stamets, ad ogni metro di radice arborea corrisponde un kilometro di ife di micelio! Questa incredibile massa, sempre secondo Stamets, compone circa il 30% del suolo naturale sul quale camminiamo. Una enormità.

Questa immensa rete di ife per noi difficilmente immaginabile esiste per «catturare nutrienti semplici come azoto, potassio, fosforo, magnesio e altri oligoelementi come rame e zinco» [p. 38]. Elementi che sono necessari anche agli alberi come Quercus, che con il suo apparato radicale neonato ha già attirato i primi batteri azotofissatori, i quali formano il rizobio, in forma di minuscole palline nodose.

I batteri hanno bisogno di acqua (che le radici della quercia assorbono dal terreno), e la quercia ha bisogno di azoto, che i batteri le cedono, perfettamente rispettosi dell’antico contratto che, da che il mondo è mondo, viene stipulato fra simbionti. Quindi il rizobio di batteri non fa parte dell’albero: è, appunto, in simbiosi mutualistica.

Ma ecco arrivare la prima ifa di Leccinum, attirata da segnali chimici inequivocabili: lì c’è una nuova giovane quercia. Leccinum è già in simbiosi mutualistica con la vecchia madre di Quercus e urge ampliare la propria rete per non rischiare, un giorno, di morire insieme alla veneranda. C’è un problema: non si può attaccare la membrana delle radici di Quercus, perché quest’ultima lo percepirebbe come un attacco e reagirebbe liberando acido jasmonico, corrosivo, impedendo al fungo di entrare.

Cosa fa allora Leccinum? Qui sta la meraviglia: usa la diplomazia, come dice Tillon, ed entra prima nel rizobio di batteri, il quale fa da intermediario lasciando passare le ife di Leccinum, che a questo punto riesce a entrare nell’apparato radicale di Quercus senza essere percepito come invasore (il rizobio ha fatto da "ambasciatore").

Come effetto finale Leccinum salva la vita di Quercus con l’inganno (e con la mediazione dei batteri), e dà inizio a una nuova fruttuosa simbiosi:

L’ifa si insinua quindi tra le cellule della radice, destrutturando la loro organizzazione per formare una sorta di amalgama chiamata “ectomicorriza”: si tratta di una saldatura perfetta e inscindibile, più resistente di un matrimonio, tra due organismi così diversi, il fungo e l’albero in formazione, che intrecciano le loro cellule per formare un organo a parte. Quercus subisce questa relazione in cui non è più possibile distinguere le due specie e finisce per accettare il fungo nei propri tessuti. Quest’ultimo non si ferma qui. Ora che la connessione è fatta e accettata (di forza, sia chiaro), il fungo produce l’auxina, un ormone solitamente sintetizzato dalle piante per stimolare la produzione di nuovi tessuti. Ingannando ancora una volta Quercus, Leccinum gli “ordina” di produrre nuove radici, alle quali si intreccerà lui stesso, moltiplicando così i punti di scambio. […] I due individui sono ora intimamente legati, per la vita e per la morte. [p. 41]

Come in ogni buona simbiosi mutualistica, Leccinum fornisce un aiuto vitale a Quercus in cambio di un vantaggio per sé:

come tutti i funghi, il porcinello rosso ha un punto debole: non può produrre gli zuccheri, i lipidi, le vitamine e le molecole complesse necessarie al suo sviluppo. [p. 38]

Tutto questo ci obbliga a rivoluzionare il nostro modo di pensare gli alberi: in un bosco sano un albero non è mai un singolo individuo isolato, perché ogni albero è parte di una comunità arborea che si trasmette risorse alimentari e informazioni chimiche, grazie all’ectomicorriza.

Viene in mente il film di fantascienza Avatar, quando i Na’vi si connettono all’Albero Madre con la loro coda:

Come gran parte della fauna di Pandora, i Na'vi possiedono una "coda neurale" che proteggono intrecciandoci attorno i propri capelli. Essa possiede nella parte finale delle terminazioni nervose esterne, i cosiddetti "tendrilli", con cui i Na'vi possono intessere una connessione a livello biochimico con le piante e gli animali di Pandora, dotati tutti di una coppia di simili appendici, da loro chiamato tsaheylu (trad.: "legame"). [Brano tratto da Wikipedia]

Le domazie

Il bello della migliore divulgazione scientifica risiede anche nella sua capacità di provocare in noi il sentimento della meraviglia. Laurent Tillon è capace di farlo praticamente in ogni pagina, anche più volte, tanto che la mia copia è martoriata da sottolineature e appunti in tutte le pagine.

Un altro esempio che ho trovato straordinario riguarda il modo in cui l’evoluzione ha risolto il problema del “naso chiuso” degli alberi, se mi passate la personale metafora. Quando noi umani abbiamo il naso chiuso a causa del raffreddore ce lo soffiamo, oppure facciamo i lavaggi con soluzione fisiologica per poter respirare meglio. Le piante non hanno il naso, ma gli stomi.

Gli stomi sono aperture poste ovunque nell’albero e servono a scambiare anidride carbonica, ossigeno, vapore acqueo. Sono ovunque, è vero, ma soprattutto si trovano nella pagina inferiore delle foglie. Qui il numero di stomi varia da specie a specie, addirittura da individuo a individuo, anno dopo anno, ma siamo nell'ordine delle centinaia di migliaia per centimetro quadrato (sic!).

Permettendo lo scambio gassoso della pianta è quindi importante che non siano occlusi. Ma come fa l’albero a "soffiarsi milioni e milioni di nasi"?

Il motore ad acqua di Quercus è estremamente semplice e richiede poca energia per far circolare i fluidi. Tutto ciò di cui ha bisogno è che la luce del sole colpisca direttamente le sue foglie. L'atmosfera è però satura di spore, polline e semi. Fino a cinquecento particelle di queste polveri possono depositarsi ogni giorno sulle foglie di Quercus e ostruire gli stomi o creare una sottile pellicola che riduce l'efficienza della fotosintesi clorofilliana. Sarebbe assurdo mettere in pericolo la propria sopravvivenza per qualche particella di polvere depositata sulle lamine delle foglie! Così Quercus ha sviluppato un dispositivo di pulizia abbastanza semplice. Ha confezionato dei peli molto fini lungo le nervature, al riparo dalla pioggia, sulla parte inferiore delle sue foglie: le domazie, invisibili a occhio nudo. Questa minuscola pelliccia serve da rifugio per microscopici acari che si nutrono della polvere organica. Niente deve rallentare la fotosintesi! [p. 61]

La meraviglia dell’evoluzione all’opera e un esempio di simbiosi fra pianta e insetto: come nel caso delle piante mirmecofite. Anche loro hanno domazie per dare riparo alle formiche, che in cambio del favore eliminano le piante di specie concorrenti. Non è un caso che per i Celti la quercia fosse il simbolo dell’ospitabilità.

Nella foresta nulla si perde, tutto si ricicla

I Celti avevano ragione, perché si stima che ogni quercia adulta ospiti circa un migliaio di specie animali, fra insetti, uccelli e piccoli mammiferi. Anche se non sempre, fra quercia e animale, c’è reciproco rispetto mutualistico. Almeno in apparenza…

In questa meraviglia di biodiversità c’è anche Tortrix (per esempio Tortrix viridana), una farfalla le cui fameliche larve si nutrono delle foglie di Quercus. Il brano seguente di Tillon racconta come anche un pericoloso attacco al fogliame da parte delle larve possa, incredibilmente, diventare una risorsa, un punto di forza ecologico:

In questa fase del suo sviluppo, Tortrix è soprattutto un tubo digerente: mangia, digerisce e defeca, per la maggior parte della sua attività quotidiana. Nei mesi di maggio, può capitare di trovarsi a passeggiare nella foresta e sentire come delle gocce di pioggia, anche se il cielo è completamente sereno. Sono gli essudati dei nostri bruchi, i loro escrementi, che permettono di far cadere al suolo concentrati di potassio, azoto e fosforo non digeriti. A seconda del numero di bruchi, sono stati misurati fino a trecentotrenta kilogrammi di escrementi per ettaro, e due volte tanto d’azoto rispetto a quando non sono presenti. A questo si aggiungono tutti i detriti vegetali che cadono dagli alberi senza essere stati consumati, i prodotti di scarto del loro avido consumo, che favoriscono lo sviluppo dei batteri del suolo. Così, una gran parte di questi oligoelementi preziosi per la crescita di Quercus viene ridistribuita alla pianta in maniera indiretta, e in forma particolarmente concentrata anche se dovranno ancora passare attraverso altre fasi di degradazione delle molecole, e poi d'assorbimento nel terreno grazie ai microrganismi decompositori, prima di essere recuperati da Leccinum. Nella foresta, nulla si perde, tutto si ricicla. [pp. 69-70]

Le galle di quercia

Le querce consentono l'esistenza di un’altra cosa meravigliosa: le galle, dette anche cecidi. Le galle sono una sorta di tumore benigno, un’escrescenza di varia forma provocata da una serie di organismi in molte specie vegetali. A noi interessano le galle create dalla puntura di insetti soprattutto della famiglia dei Cinipidi, piccole e innocue vespe (Imenotteri) che sembrano piccole mosche.

Questi insignificanti insetti (in apparenza) compiono la magia delle galle per dare alle proprie larve protezione (una casa) e nutrimento (una dispensa senza fine). In base alla forma della galla (ne esistono parecchie) è possibile capire la specie che l’ha prodotta

Sembrerà bizzarro ma esiste una scienza che studia le galle e i profondi rapporti tra pianta e insetto: si chiama cecidologia. Da notare che di galle si occuparono grandi scienziati come Francesco Redi, Marcello Malpighi e Charles Darwin nel suo L’origine delle specie.

Al contrario di Leccinum, simbionte mutualistico, i Cinipidi sono parassiti, ovvero con l’inganno usano l’ospite (in questo caso Quercus) a proprio vantaggio. Così, in aprile, proprio durante la fioritura di Quercus, ecco comparire una femmina di Neuroterus. La piccola vespa, dopo essersi accoppiata con un maschio, trova un amento maschile appena germogliato, morbido e ipervascolarizzato, e con l’ovopositore depone le uova nei tessuti della pianta.

Dopo qualche settimana le uova si schiudono e le larve iniziano il loro lavoro di manipolazione dell’albero...

...“invitandolo” a reindirizzare la sua produzione di auxina, l’ormone della crescita di cui i suoi tessuti hanno bisogno per svilupparsi secondo la mappa genetica dell’albero, soprattutto durante la germogliazione. Crea quindi tessuti molto duri, che formano una piccola palla verde che circonda ogni larva d’insetto, isolandola. L’albero non sa di essere manipolato né che tutto ciò fa parte della strategia delle larve di Neuroterus.
[…] Si tratta di una sorta di guscio vegetale molto duro, simile a un ribes verde, che fornirà una protezione infallibile contro possibili predatori e contribuirà a metterla al riparo dalle condizioni esterne. La sua strategia è puramente parassitaria e per questo non vuole che il tessuto muoia. Al contrario, deve continuare a vivere ed essere nutrito dall’albero, perché la larva in crescita attingerà risorse dalla linfa in circolazione. [p. 91]

Non solo: la larva manda un segnale alla pianta in modo che quest’ultima la protegga dai tannini che le querce producono proprio per difendersi da attacchi parassitari (per scoprire come rimando al libro).

Da notare che nel mondo degli insetti nulla è semplice, e la vita è una lotta continua e iperspecializzata: infatti a loro volta molte galle vengono attaccate da altri parassiti, in una catena di biodiversità preziosissima.

Fra i vari “parassiti” delle querce (e non solo) c’è anche l’uomo, che grazie ai tannini ha potuto conciare le pelli degli animali, e grazie alle galle ha potuto produrre l’inchiostro ferrogallico, ovvero un inchiostro prodotto da galle di quercia miscelate a sali di ferro e gomma arabica, che ha sostituito il nerofumo di origine cinese.

Lo racconta l’entomologa norvegese Anne Sverdrup-Thygeson (1966) nel suo interessante libro Terra insecta (BUR Rizzoli, 2019, 253 pp., euro 18):

Il grande vantaggio della nuova miscela era la sua resistenza all’acqua: il pigmento modificava la struttura della pergamena o della carta, e quindi risultava indelebile. Per giunta era privo di grumi e facile da conservare. Tra il 1100 e il 1800 circa gli inchiostri ferrogallici sono stati i più utilizzati in Europa.
Se non fosse stato per le minuscole vespe che inducono la formazione delle galle di quercia non è detto che i grandi artisti e scienziati del Medioevo e del Rinascimento ci avrebbero trasmesso degli scritti ancora leggibili. [pp. 166-167]

Anne Sverdrup-Thygeson è specializzata nello studio delle querce cave, dunque vecchie querce plurisecolari che per loro natura, e per effetto del tempo, hanno i tronchi vuoti (questo non crea problemi alla pianta, visto che la linfa scorre sotto la corteccia).

È interessante il suo punto di vista sull’importanza del fatto che “nella foresta nulla si perde, tutto si ricicla”. Che ruolo hanno i vecchi alberi in tutto questo?

Una vecchia quercia cava è come una fortezza. Una fortezza della biodiversità. Lo strato esterno di indistruttibile legno di quercia protegge dalla pioggia, dal sole e dagli uccelli affamati le centinaia di specie diverse che abitano all'interno. […]
Il grosso delle specie abita proprio nella necromassa vegetale, una miscela vivificante di resti legnosi in corso di decomposizione e filamenti fungini, magari con i resti di un vecchio nido di uccello o alcune deiezioni di pipistrello. Quella miscela è una sorta di gastronomia per insetti. Qui perfino le creature più esigenti possono trovare un menù all'altezza del loro palato, perché nella penombra tiepida del cavo di una quercia possono annidarsi anche centinaia di bestiole diverse, e tutte contribuiscono a perpetuare l'eterno ciclo della natura trasformando a poco a poco i grandi alberi in terriccio dove un nuovo germoglio di quercia potrà germogliare. [pp. 129-130]

Non ci vuole molto per abbattere una quercia che intralcia il cammino del progresso, che si tratti di allargare una strada o di costruire un nuovo condominio. Cinque minuti con una motosega e un gigante germogliato all'epoca della Peste nera, testimone del Rinascimento e della Rivoluzione industriale, giace a terra, abbattuto. Eppure occorrono settecento anni per far crescere un'altra quercia di quel calibro. E gli insetti nel frattempo dove li mettiamo? [p. 156]

Vecchie querce come fortezze della biodiversità... Come abbiamo visto in un altro libro molto interessante, La foresta nascosta di David George Haskell, è incredibile la quantità di vita e di eventi che possono accadere in uno spazio ridottissimo di foresta.

Ma il “parassita” uomo non ha usato le querce solo per farci inchiostro per secoli. Questo è solo uno dei molteplici usi possibili delle querce, che hanno avuto un impatto notevole nella cultura e nella storia umana. E anche il  libro di Tillon è attraversato dalla storia umana: la storia della quercia e della vita che le gravita intorno coinvolge anche la storia del paesaggio e la Storia con la “s” maiuscola.

Vediamo, in breve, quanto, attingendo ad altri libri altrettanto significativi.

La quercia è l’Albero

La quercia è sinonimo, fin dall’antichità, di forza e robustezza, tanto che il nome latino della farnia (la più diffusa in Europa) è Quercus robur, dove in latino “robur” significa sia forza (fisica e morale) che quercia (da cui l’aggettivo “robusto”). Così all’espressione “essere forte come una vecchia quercia”, come abbiamo visto nella prima parte di questo articolo, potremmo aggiungerne una nuova: “essere vivo come una vecchia quercia”.

La quercia è talmente importante nella storia umana che in sanscrito quercia e albero sono la stessa parola: duir. La radice indoeuropea della parola quercia è daru, da cui il celtico druido, ovvero colui che conosce (wid) la quercia (dru).

Anche le ninfe greche (divinità legate alla natura) sono strettamente legate agli alberi. In greco drys significa sia “albero” sia “quercia sacra”, da cui le “driadi”, ninfe della mitologia greco-romana che vivevano sotto la corteccia delle querce. Nell’antica religione romana esistevano addirittura le querquetulanae, ninfe che abitavano esclusivamente i boschi di querce (querquetum).

Mentre le driadi potevano abbandonare il proprio albero, le “amadriadi” ne erano vincolate fino alla morte ovvero, in genere, fino all’abbattimento o la morte naturale della quercia, che nel caso della farnia può avvenire in modo naturale oltre i mille anni di età.

Per abbattere una quercia i sacerdoti dovevano svolgere cerimoniali e fino a che loro non dicevano che le driadi erano uscite dall’albero, questo non poteva essere abbattuto. Se qualcuno non autorizzato veniva sorpreso ad abbattere una quercia, veniva condannato a morte.

Se la vite, l’olivo e il grano sono le piante fondanti della cultura mediterranea con i loro prodotti (il vino, l’olio, il pane), in molti sostengono che il primo frutto dell’umanità, ben prima che si profilasse l’eventualità dei supermercati o che seimila anni fa circa venisse coltivato l’olivo dall’olivastro, fu la ghianda di quercia. Informazione non banale, poiché le ghiande sono associate all’alimentazione dei maiali e dei cinghiali, non certo degli esseri umani.

La balanicultura

Ne scrive l’arboricoltore statunitense William Bryant Logan (1952) nel denso saggio La Quercia – Storia sociale di un albero (Bollati Boringhieri, 2008, 253 pp., fuori catalogo), dove analizza e racconta lo strettissimo rapporto tra uomini e querce.

Sembra che le popolazioni si dirigessero e si stanziassero proprio là dove crescevano […]. Esiste una sorta di empatia di fondo tra la quercia e l’uomo: apprezziamo le stesse cose, le nostre virtù si somigliano molto e siamo arrivati entrambi ai confini estremi di ciò che ci piace. In tutti i luoghi dove siamo approdati, la quercia è diventata sempre un elemento essenziale della nostra vita quotidiana. Abbiamo plasmato un intero mondo servendoci dei suoi frutti e del suo legno e ne siamo stati a nostra volta plasmati. [p. 21]

In questo rapporto non c’è soltanto la religione e l’utilità del legno (per scaldarsi, costruire case oppure navi per esplorare terre ignote). C’è sorprendentemente anche il cibo per sopravvivere. Numerose le ricorrenze citate da Logan nella letteratura classica: Esiodo, Ovidio, Lucrezio, Plinio, Pausania scrissero del grande valore della quercia e della sua preziosa capacità di nutrire gli uomini con i propri frutti: le ghiande.

«Gli uomini giusti hanno sempre di che mangiare, poiché gli dei offrono loro cibo in abbondanza: querce ricche di ghiande, miele e pecore», scrive il poeta greco Esiodo nell’XIII secolo a.C.

Non solo grazie a Esiodo, numerosi indizi inducono Logan a pensare che le ghiande furono l’alimento più importante per l’umanità, prima delle graminacee come grano e riso. L’antico termine tunisino per “quercia” significa “albero del cibo”, ma esistono numerose prove che popolazioni molto distanti fra loro, dai nativi della California ad alcune popolazioni asiatiche, si servissero di farina di ghiande per fare il pane. Sono quelle che vengono definite balanoculture, ovvero culture fondata sulla ghianda (dal latino balanus). Coloro che si nutrono di ghiande, invece, vengono chiamati balanofagi.

Ancora oggi, secondo Logan:

a Cadice, in Spagna, è possibile usare olio di ghianda al posto dell’olio di oliva, mentre nella regione dell’Estremadura, sempre in Spagna, esiste un liquore a base di ghiande. [p. 37]

Logan racconta che in un supermercato coreano di Manhattan (Little Korea) ha comprato amido di farina di ghiande e gelatina di ghianda simile al tofu, sperimentando varie ricette con risultati inaspettati. Inodore e insapore, la farina di ghiande diventa buona se condita e lavorata (in pratica come si fa col tofu), e soprattutto è estremamente calorica, candidandosi – con gli insetti – a ingrediente perfetto per aiutare l’umanità ad affrontare le inevitabili sfide dell'immediato futuro.

Questo rapporto con l’albero e i suoi frutti ha avuto secondo Logan effetti estremamente significativi:

Avendo zuppa e pane di ghianda in abbondanza, non era più necessario macellare ogni singolo animale catturato. La possibilità di allevare pecore, capre e maiali è forse nata dal fatto che, sfruttando la ghianda come alimento base, diventava più utile mantenere in vita gli animali catturati, farli accoppiare a creare una “banca” di carne per eventuali periodi di carestia. È probabile che siano stati proprio questi animali a cibarsi per primi di piante e di cereali selvatici, oltre che delle foglie di quercia. [p. 44]

La quercia “salvatica”

Mario Rigoni Stern (1921-2008) è stato il primo autore italiano a scrivere un libro interamente dedicato agli alberi. La prima edizione è del 1991 e il libro si intitola Arboreto salvatico (Einaudi Tascabili, 2021, pp. 120, euro 10,50) perché, appunto, le piante e gli alberi possono salvarci, metaforicamente e materialmente.

Nel capitolo dedicato alla Quercia, a proposito della farnia Rigoni Stern conferma prima di Logan che «le ghiande erano privilegiate tra tutte quelle della famiglia delle querce perché poco tanniche e dolci al palato; fino a non molti anni fa erano cibo d’emergenza nelle carestie.»

E aggiunge:

La farnia è detta anche Albero di Giove e a lui consacrata. Era già simulacro di Saturno e la mitologia spiega che al tempo in cui gli uomini si cibavano con la carne dei loro simili, Giove, per far cessare questa crudeltà, indicò a loro la quercia invitandoli a cibarsi di ghiande. Da quel giorno fu dedicata a lui e per le sue ghiande dichiarata albero felice.
[…] Le querce furono anche le prime chiese perché sotto di esse si radunava il popolo per porgere preghiere alla divinità, ma anche a fare diete e assemblee, ad apprendere la sapienza dagli anziani. […] E dalle querce, con un falcetto d’oro, i sacerdoti Druidi recidevano il vischio, seme degli dèi, per ornare i tori sacrificali. Quel vischio che ancora oggi si usa donare agli amici all’inizio dell’anno, e viene appeso sull’architrave della porta di casa come propiziatorio, e sotto questo gli innamorati si scambiano il bacio augurale.

Come sottolinea Rigoni Sterm, oltre a tutti gli usi pratici già accennati le querce hanno avuto un ruolo importante anche nel nostro passato mistico, spirituale, religioso.

Mitologia della quercia

E infatti dal culto degli alberi, da un certo punto in poi considerata perversione dei pagani da estirpare, si è passati al culto della croce. I rapporti tra alberi e cristianesimo sono particolarmente interessanti e meritano un approfondimento, e per farlo ci rivolgiamo, in chiusura di questo lungo percorso di lettura, a quella sorta di “bibbia arborea” che è Mitologia degli alberi (BUR, 2004, euro 11,50, pp. 320) di Jacques Brosse (1922-2008), un altro libro che si presta a essere sottolineato e appuntato in tutte le pagine.

Nella notevole ricostruzione del passato che Brosse opera per portare alla luce il rapporto di molti popoli antichi con diverse specie di alberi, viene in mente la quercia di Santa Brigida:

Santa Brigida di Kildare, nata nelle seconda metà del quinto secolo, presentata dai suoi agiografi come figlia di un capoclan pagano e diventata una delle patrone d’Irlanda, era originariamente un’antica divinità celtica della rinascita del fuoco e della vegetazione, la figlia addirittura di Dagda, il dio supremo venerato dai druidi irlandesi. […] Nella Britannia veniva mantenuto un fuoco perpetuo nel tempio di una dea che i Romani identificavano con Minerva, ma che in realtà era Birgit, a un tempo guaritrice e patrona dei bardi – i quali possono per certi versi essere paragonati agli sciamani – e dei fabbri. Questa tradizione si conservò molto a lungo, se ancora nel sedicesimo secolo, fino alla soppressione dei monasteri compiuta da Enrico VIII, le suore di santa Brigida, a Kildare, in Irlanda, tenevano vivo un fuoco che, subito dopo la sepoltura della santa, si sarebbe acceso da solo sulla sua tomba. Quel fuoco non doveva spegnersi e possedeva certe qualità magiche. Kildare significa «chiesa delle querce», il luogo essendo stato precedentemente un nemeton, un bosco sacro pagano. […]
La festa di santa Brigida apriva il mese di febbraio, che da sempre era il mese delle purificazioni. In latino februare significa «purificare, fare delle espiazioni religiose». [p. 38]

La storia si santa Brigida è un esempio fra i molti possibili per sottolineare il lungo sovrapporsi di pratiche pagane e cristianesimo. E come i boschi (sacri) rappresentassero luoghi preposti al culto e alla spiritualità che successivamente verranno sostituiti da chiese e cattedrali. Non è un caso che Rigoni Stern definisca il bosco «cattedrale del creato» e «primo luogo di preghiera».

Nel capolavoro di Brosse vi sono poi 40 pagine interamente dedicate alle querce (terzo capitolo, La quercia oracolare) che attraversano mirabilmente la storia e la mitologia umana degli ultimi millenni mettendo in evidenza la sacralità di questi alberi per gli antichi (da qui abbiamo espunto le informazioni per il paragrafo La quercia è l’albero). Una sacralità che sarebbe bello, magari in diversa forma, rispolverare...

In Italia la quercia era non meno onorata che in Grecia. […] [A Roma] Il tempio di Vesta era circondato da un boschetto di querce e il fuoco perpetuo tenuto vivo dalle Vestali doveva consumare solo legna di quercia. Nel 1904, gli archeologi scoprirono sotto il Foro un cimitero preistorico dove ossa di bambini in tenera età erano collocate in tronchi di quercia grossolanamente lavorati, il che sta a dimostrare, oltre alla grande antichità della devozione alla quercia, la speranza di una reincarnazione per quei bambini che avevano vissuto troppo poco. [p. 79]

Memoria

Gli alberi sono memoria, a partire dalle preziose informazioni contenute nei loro anelli di accrescimento, studiati dalla dendrocronologia.

Ogni albero, proprio come ognuno di noi, racconta la propria storia a chi è in grado di vedere.

C’è solo vita, niente altro, scrive la poetessa. E gli umani, oggi più che mai, sentono a volte il bisogno di eleggere un albero a testimone della propria esistenza, o come simbolo di un momento importante. Spesso è l’infanzia, come ci ricorda anche Hayao Miyazaki nei suoi film e in particolare con l’enorme albero di canfora che ospita il protettore della foresta Totoro.

Sono memoria per Rigoni Stern, lo sono anche per Laurent Tillon e il suo “fedele compagno” Quercus.

Sono memoria per tutti noi, ognuno con i propri esemplari. Nel mio caso è proprio un rovere, che mio nonno piantò alla nascita di mio padre in mezzo al giardino. Chi sfreccia sulla strada non può sapere, sempre che riesca a vederla («questi uomini che ti passano accanto dentro le loro veloci automobili o in treno. E nemmeno ti notano» scrive Rigoni Stern a proposito del salice) che quella chioma gigantesca rappresenta una nascita avvenuta tanti anni prima, una chioma che a lungo sarà lì, vivendo il tempo in modo molto diverso da noi.

Un tempo gli esseri umani erano molto più vicini agli alberi e alle querce. Il tentativo di riavvicinarci e di capire queste creature così distanti e indecifrabili (non hanno volto) può passare attraverso i libri che – sembra quasi un paradosso – una volta erano alberi anch’essi.

Una cosa è certa: dopo aver scoperto le querce e tutta la vita che gravita loro intorno, le passeggiate al parco o nel bosco non saranno più le stesse, ma piene di meravigliosi segreti da svelare. E di storie da raccontare.

Bibliografia principale (in ordine di apparizione)
  • Laurent Tillon, Essere una quercia
  • Anne Sverdrup-Thygeson, Terra Insecta (pagine citate)
  • William Bryant Logan, La Quercia. Storia sociale di un albero
  • Mario Rigoni Stern, Arboreto Salvatico
  • Jacques Brosse, Mitologia degli alberi
Consigliamo anche la visione del film La quercia e i suoi abitanti, che ha più di un debito (non dichiarato) con il libro di Laurent Tillon. Qui il trailer:
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La quercia di Flagey, Gustave Courbet (immagine: Wikipedia)

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La copertina di Arboreto salvatico, di Mario Rigoni Stern

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Fra le galle più diffuse nelle nostre quercie quelle prodotte dal cinipide Andricus quercustozae (Sigur / Shutterstock)

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Vecchia superficie tagliata in legno di quercia (immagine: captureandcompose / Shutterstock)

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Uno stoma al microscopio ottico (immagine: Wikipedia)

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La Driade di Evelyn De Morgan (immagine: Wikipedia)

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Una vecchia quercia dal tronco cavo (immagine: Lukas Jonaitis / Shutterstock)

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Galle di quercia di Marcello Malpighi (immagine: Tavola XV de Anatome Plantarum)

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Gruppo di ife del fungo Podospora anserina (immagine: Wikipedia)

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La copertina di Essere una quercia, di Laurent Tillon

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Ramificazioni di un fungo nel terreno (immagine: wararara / Shutterstock)

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Sequenza della germinazione di un seme di quercia e successive fasi di crescita della pianta (immagine: Aleachim / Shutterstock)