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Oppenheimer e l’etica della scienza

Insieme a Giovanni Boniolo, ordinario di Filosofia della scienza all’Università di Ferrara, riflettiamo sul film campione di incassi del regista Christopher Nolan

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L’ultimo film sul progetto Manhattan, cioè l’impresa scientifico-militare che permise al laboratorio di Los Alamos diretto da Robert J. Oppenheimer di costruire le prime bombe atomiche, era stato L’ombra di mille soli di Roland Joffe: uscito nel 1989, ebbe scarso successo. Si è tentati di pensare che, con la fine della guerra fredda, per Hollywood e per il mondo questa storia non fosse più così importante da meritare un lungometraggio.

Se è così, i tempi sono cambiati. Oppenheimer, l’ultimo film di Christoper Nolan sul «padre della bomba atomica», è uscito in tutto il mondo dopo un’agguerrita campagna pubblicitaria. Quasi tutto il mondo, per essere precisi. Le eccezioni sono significative: in Giappone potrebbe non uscire mai per via del tema; in Russia forse arriverà in autunno, perché Hollywood sta boicottando il paese a causa dell’invasione dell’Ucraina. Potrebbe bastare solo questo per capire quanto sia lunga e oscura l’ombra del secolo scorso. O, più concretamente, possiamo ricordarci che nel mondo ci sono ancora 12.500 testate nucleari, quasi tutte di proprietà di Stati Uniti e Russia.

Puoi trovare una serie di attività per riflettere sull’importanza dell’abolizione delle armi di distruzione di massa nel sito di Zanichelli dedicato all’educazione civica, cliccando qui.

Tratto dall’approfondita biografia American Prometheus (in italiano: Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica: il trionfo e la tragedia di uno scienziato, Garzanti 2007), scritta dal giornalista Kay Bird e dallo storico Martin J. Sherwin, l’Oppenheimer di Nolan è ora già un successo di critica e di pubblico. Mentre il libro procede in ordine cronologico, il regista (e sceneggiatore) curva la linea del tempo per intrecciare diversi periodi e punti di vista dei protagonisti attraverso flashback. Questo non impedisce di raccontare quello che è accaduto in modo sostanzialmente accurato per un blockbuster, e allo spettatore di ripassare rapidamente anni densi di avvenimenti scientifici e storici.

All’inizio del film Robert J. Oppenheimer è uno dei brillanti esponenti della nuova fisica, la meccanica quantistica. Fisici a parte, noi spettatori non possiamo capire dal film di cosa si tratti davvero, ma intuiamo quanto basta per capire che la disciplina, nella prima metà del XX secolo, sta attraversando una fase di rinnovamento.

Il protagonista ha studiato coi maestri in Europa e porta la nuova dottrina a Berkeley. Nel 1938 vediamo i fisici americani eccitati alla notizia della fissione dell’atomo in Germania da parte di Otto Hahn, Fritz Strassmann, e Lise Meitner (non nominata). Il risultato è rapidamente replicato, e Oppenheimer ci ricorda che ogni fisico del mondo ora sa che, in teoria, è possibile fabbricare un nuovo tipo di arma. Con lo scoppio della guerra l’anno successivo, Albert Einstein e Leo Szilard avvertono il presidente Roosevelt che i nazisti potrebbero costruirla.

Qui puoi trovare un ritratto di Lise Meitneir, una delle protagoniste, spesso dimenticate, della fisica del Novecento.

Gli Stati Uniti sono l’unico paese che può costruire la bomba prima dei nazisti. Per farlo servono non solo i fisici, ma anche dei «domatori» di fisici, manager capaci di guidare i colleghi verso l’obiettivo. Nel 1942 Oppenheimer, ebreo con simpatie comuniste, non vede l’ora di diventare direttore di Los Alamos e portare a termine il lavoro, anche se questo significa entrare nell’esercito. Ma quando le armi sono pronte i nazisti non sono più una minaccia. Diversi scienziati pensano che sia sbagliato usarle per attaccare il Giappone anche se ha rifiutato la resa, ma ormai la «reazione a catena» della Storia è cominciata e non si può fermare. Gli Stati Uniti vogliono chiudere la guerra nel Pacifico e dimostrare la loro supremazia agli alleati comunisti. Oppenheimer, che non era un pacifista, passa il resto della sua vita a cercare di limitare i danni della corsa agli armamenti che aveva contribuito a mettere in moto. Ma dopo il progetto Manhattan non è più indispensabile, e i suoi nemici hanno ampio materiale per mettere in dubbio la sua condotta.

Nelle 3 ore di film vediamo intorno a Oppenheimer un carosello di colossi della storia della scienza come mai era successo prima sul grande schermo: da Einstein a Niels Bohr, da Richard Feynman a Werner Heisenberg, da Enrico Fermi a Edward Teller, fino a Ernest Lawrence e Vannevar Bush. Persino Kurt Gödel fa una comparsata. Nonostante questo, il film non ruota intorno alla fisica della bomba: al centro c’è il potere che la scienza ha assunto a partire dalla metà del Novecento, i rischi legati al suo utilizzo e l’etica delle azioni di chi porta avanti la ricerca scientifica. Oppenheimer racconta la storia di un uomo che è stato necessario per trasformare una teoria scientifica nelle armi di distruzione di massa che hanno posto fine alla Seconda guerra mondiale, dando avvio alla Guerra Fredda. Per questo motivo abbiamo chiesto un parere sul film a Giovanni Boniolo, Professore di Filosofia della scienza all’Università di Ferrara, nonché fisico di formazione.

Giovanni Boniolo, per cominciare: il film le è piaciuto?

Ho trovato il film epico, grandioso. Ho avuto la fortuna di vederlo alla sua uscita mentre mi trovavo ad Harvard con la mia famiglia. La sala era piena di fisici dell’università che all’uscita commentavano con entusiasmo la storia, la sua realizzazione cinematografica e ovviamente la fisica citata. Il film coglie molto bene la complessità del protagonista ed è anche abbastanza corretto dal punto di vista tecnico e storico.

Il regista si è preso ovviamente delle libertà, per esempio manca del tutto un riferimento a John Von Neumann, un matematico che fu fondamentale per la riuscita del progetto Manhattan. Fra l’altro, Von Neumann è anche la persona che coniò il termine «kilotone», cioè l’unità di misura che esprime la potenza esplosiva in migliaia di tonnellate di tritolo. Nel film, invece, è lo stesso Oppenheimer che la propone. Anche la versione di Albert Einstein che vediamo sullo schermo è un po’ caricaturale. Detto questo, c’è indubbiamente lo sforzo di accontentare anche un pubblico esigente come quello della sala in cui mi trovavo. Per esempio, a un certo punto su una lavagna si riconosce un grafico che rimanda all’effetto tunnel quantistico, la cui scoperta si deve principalmente a Oppenheimer.

Ho trovato accurato anche il modo in cui è rappresentato lo sviluppo intellettuale del giovane Oppenheimer, che lascia l’America per andare in Europa a studiare con i grandi della fisica. Oggi l’istruzione superiore e universitaria non funziona più così, ma al tempo c’era questa idea di andare dove vi trovavano i maestri migliori per poter imparare di più e soprattutto quello che c’era alla frontiera del sapere. A proposito di allievi e maestri, anche il Niels Bohr cinematografico ricorda suo malgrado che Werner Heisenberg, indicato con simpatie naziste, era stato suo allievo.

Passiamo ai temi della pellicola. In una scena Oppenheimer confessa al presidente Truman di sentire il sangue sulle sue mani per Hiroshima e Nagasaki. Il presidente gli allunga sarcasticamente un fazzoletto e sentenzia che non importa chi abbia fatto la bomba, ma chi l’ha fatta sganciare. Chi ha ragione?

Gli scienziati hanno sempre una responsabilità etica e sociale delle loro azioni. A quel tempo uno scienziato americano sentiva la responsabilità di lavorare contro un nemico: il nazismo. È possibile che questi scienziati non riuscissero a «visualizzare» la potenza distruttiva della bomba prima del test Trinity, cioè l’esplosione di prova nel deserto del New Mexico, ma tutti già sapevano cosa stavano costruendo. Avevano accettato di lavorare ed essere pagati dal governo per fare un’arma che avrebbe dovuto essere così potente che non sarebbe esistito un obiettivo militare abbastanza grande. La giustificazione era basata sul classico argomento del «male minore», cioè l’esistenza e l’uso della bomba atomica poteva essere pensata come un male minore rispetto all’incombente e orribile nazismo.

Sarebbe stato realisticamente possibile evitare i bombardamenti delle due città giapponesi dopo che il nazismo era caduto? Gli scienziati avrebbero dovuto o potuto avere più voce in capitolo? Forse sì, alla prima domanda; ma la scelta era ormai politica. «Adesso ci pensiamo noi» si sente dire nel film da un ufficiale americano. Relativamente alla seconda, alcuni scienziati hanno rifiutato di lavorare a Los Alamos, altri si sono ritirati quando hanno capito, altri hanno tentato di limitare i danni, altri hanno accettato e sostenuto tutto. Una normale dinamica di gruppo, si potrebbe dire, in quanto gli scienziati sono esseri umani e ve ne sono di molti tipi. Vi sono da dire due cose. La prima è che chi finanzia ha il maggior potere di decisione, specie se chi finanzia è il potere militare. La seconda è che tutti gli scienziati interessati sapevano quello che stavano facendo: non stavano giocando con equazioni ma lavorando per costruire uno strumento di morte.

Nell’ambito del progetto Manhattan, che ha portato allo sviluppo della prima bomba atomica, sono stati condotti studi su esseri umani inconsapevoli per valutare gli effetti di sostanze radioattive. Puoi leggerne qui.

Nel film vediamo che gli scienziati hanno un ruolo pubblico che va oltre i prodotti della sua ricerca scientifica. Anche oggi uno scienziato può usare il suo prestigio per portare avanti le cause che ritiene giuste. I critici bollano questo atteggiamento come «attivismo», perché la scienza dovrebbe essere «neutra»: che ne pensa?

Il ruolo di scienziato non comporta l’esenzione dal riflettere sulle proprie azioni. Gli scienziati non sono militari, che per lavoro devono attenersi a una certa condotta e a una certa gerarchia. Se intendiamo la scienza in termini astratti di equazioni, dimostrazioni e tecniche sperimentali, allora possiamo anche affermare che la scienza è neutra. Ma gli scienziati in quanto persone non lo sono, e sarebbe pericoloso pretendere da loro un perfetto isolamento dalla sfera pubblica. Non solo hanno la libertà di parola di ogni cittadino, ma direi anche il dovere di esprimersi pubblicamente sulle ricadute etiche e sociali del loro lavoro e di quello dei colleghi.

Coerentemente coi propri principi, possono anche smettere di fare ricerca in certi ambiti e rivendicarlo senza essere meno scienziati. Insomma non solo è possibile, ma sarebbe necessario che proprio gli scienziati si esprimessero su temi di ricerca caratterizzati da un doppio effetto: uno positivo per l’avanzamento della conoscenza e uno negativo per un loro uso scorretto o malvagio. Insomma, la neutralità degli scienziati è rivendicata solo da chi dietro a questo slogan scorretto nasconde il proprio interesse a continuare a lavorare per fini che non sono socio-eticamente meravigliosi.

Con il processo di Norimberga nel dopoguerra l’etica in medicina ha cominciato a evolversi, introducendo per esempio la pratica del consenso informato. Dopo il progetto Manhattan nella fisica c’è stata un’analoga riflessione?

Sì, ma con caratteristiche molto diverse. Lo sviluppo dell’etica in medicina ha investito tutta la professione e ha portato nel tempo a codificare una serie di principi etici e di procedure, che tutt’ora si evolvono. Nel caso dei fisici invece sono esistiti, per un certo periodo, dei gruppi che si sono sforzati di riflettere criticamente sul rapporto tra scienza e società, e quindi anche sull’etica.

Un esempio italiano è stato il gruppo del fisico Marcello Cini, il cui testo più celebre è L’ape e l’architetto, una raccolta di saggi sulla scienza da una prospettiva marxista. Quel gruppo proponeva analisi critiche anche attraverso una rivista, Testi e contesti, interamente dedicata all’epistemologia e alla storia della scienza, una disciplina che negli anni ‘60 ancora non esisteva nelle facoltà di fisica italiane. Non tutti i lavori di quegli anni sono brillanti dal punto di vista concettuale. Molti erano fortemente ideologici e anche troppo di parte, come quelli che sostenevano le teorie di Lysenko solo perché esempio di «scienza materialista» (nel senso staliniano, sic).

Un altro esempio, sempre italiano ma totalmente diverso e per certi versi contrario, è dato dalla nascita del Centro Internazionale di Fisica Teorica (ICTP) di Trieste. Fondato dal premio Nobel Abdus Salam nel 1964, è stato fortemente supportato dal fisico Paolo Budinich, uomo di enorme valore, specie in ambito di ideazione e creazione di istituzioni scientifiche, oggi dimenticato anche nella sua città. Il Centro, espressione della collaborazione internazionale, è ancora oggi un’eccellenza mondiale della fisica e nacque dall’idea che la scienza potesse essere uno modo per unire le culture e per combattere il terrorismo non con le armi, ma con il sapere scientifico.

Per questo motivo ha offerto e offre formazione e laboratori a scienziati e scienziate provenienti soprattutto da paesi in via di sviluppo. Budinich pensava, infatti, che i paesi meno fortunati dal punto di vista economico e sociale avessero bisogno dei loro scienziati. Solo così, infatti, avrebbero potuto svilupparsi e produrre benessere per i loro cittadini. La scienza, nel pensiero di Budinich, era un bene comune che poteva contribuire a un futuro più pacifico per tutti. Al giorno d’oggi, a essere sinceri, vedo meno fisici disposti a riflettere criticamente sulle conseguenze etico-sociali della loro disciplina.

Dalla rivoluzione bolscevica al Progetto Manhattan, qui puoi leggere la storia di Evgeny Rabinovich, un botanico innamorato della fisica, ma acerrimo nemico delle armi nucleari.

Il progetto Manhattan era anche un nuovo modo di fare scienza, cioè una immensa mobilitazione di menti e risorse rivolta a un obiettivo. Oggi parliamo di «Big science», ma anche questo modello ha i suoi critici…

Con una battuta, è impossibile che al giorno d’oggi una sola persona isolata e con carta e penna risolva problemi fondamentali. Gli scienziati per essere produttivi devono essere circondati da altri colleghi: se hanno un problema, possono bussare alla porta a fianco e farsi dare una mano.

Nella storia della scienza è capitato che grandi personalità si siano trovate, per motivi diversi, a lavorare fianco a fianco producendo grandi risultati. Un esempio è il gruppo dei Ragazzi di via Panisperna e un altro è dato dall’enorme concentrazione di menti fisico-matematiche che si ebbe a Gottinga nei primi decenni del XX secolo; entrambi peraltro videro la fine prima della seconda guerra mondiale: in Italia a causa del fascismo e in Germania a causa del nazismo.

La Big Science realizzata con il progetto Manhattan non è altro che un esempio di pianificazione governativa di condizioni ideali per la ricerca, ossia denaro per farla e un gruppo di menti accuratamente scelte in grado di produrre risultati rilevanti. Questo approccio è costoso e molto rischioso, ma può produrre grandi risultati. Senza andare troppo indietro nel tempo, ci basti ricordare la mobilitazione mondiale della scienza contro il Covid.

Certo, questo approccio ha anche lati discutibili. La Big Science è spesso realizzata grazie a enormi investimenti pubblici e privati, quindi si rischia di prosciugare i fondi che potrebbero essere a disposizione di gli altri ricercatori per altri progetti. A volte è mirata a progetti militari di cui si sa poco o nulla. Non sempre funziona. Per esempio, i progetti di mappatura del cervello umano, cominciati 10 anni fa, non hanno prodotto risultati all’altezza delle aspettative.

Infine, è da tener conto che la Big Science è uno dei motori del brain drain, cioè la migrazione interna ed esterna dei ricercatori verso i progetti più grandi e remunerativi. In altre parole, oggi i paesi e le istituzioni che se lo possono permettere si «comprano» gli scienziati migliori, specie se sono giovani, come se fossero giocatori di pallacanestro.

Secondo lei scienziati e cittadini possono imparare qualcosa da questo film?

Non le saprei rispondere. Penso che la capacità di questo film di far riflettere dipenda dalla sensibilità individuale. Del resto, il cinema è prima di tutto un grande diletto, poi è un «testo» che persone con preparazione e background diversi leggono diversamente. Così accade per Oppenheimer, come accade per il film lanciato in contemporanea, ossia Barbie.

Penso che molti fisici che hanno visto Oppenheimer ne siano usciti divertiti, anche per il fatto che han riconosciuto le equazioni scritte sulla lavagna nelle scene di insegnamento o di discussione scientifica. Un po’ come accade quando i fisici guardano la serie The Big Bang Theory e giocano a riconoscere il significato di ciò che è scritto nella lavagna di Sheldon Cooper. Altri fisici, forse non tanti, sono usciti e han discusso sull’impatto socio-etico della loro disciplina. Ma ormai questo modo di pensare la fisica e la scienza in generale è meno «di moda». Siamo tutti sfortunatamente meno critici, ma fortunatamente anche meno ideologici. E poi, ricordiamolo sempre, solo chi ha l’animo predisposto a farsi scuotere da eventi con rilevanza socio-etica si fa scuotere. Ma questo non è da tutti e tutte.