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Giornalismo

Per approfondire percorsi di studio e sbocchi professionali leggi Obiettivo: giornalismo

Immagine di copertina per gentile concessione di Francesco Costa
Crediti fotografici: Marco Ragaini

Francesco Costa, giornalista e vicedirettore del giornale Il Post, autore di tre libri di grande successo sugli Stati Uniti, conduce ogni mattina Morning, una rassegna stampa commentata disponibile ogni mattina per gli abbonati del giornale per cui lavora. Inoltre, è autore del podcast Da costa a costa, realizzato da freelance e finanziato mediante crowdfunding, con cui ha approfondito e raccontato varie elezioni americane attraverso un giornalismo d’inchiesta sul suolo americano. Ha scritto tre libri sugli Stati Uniti e la miniserie di documentari The American Way.

Nato a Catania, dove si è laureato in Scienze storiche e politiche, si è poi trasferito a Roma, per continuare gli studi e, parallelamente, avviare le prime collaborazioni giornalistiche. Nel 2010 si è trasferito a Milano, per contribuire alla nascita e poi alla crescita del Post, fondato dal giornalista Luca Sofri e che oggi conta oltre 600 000 visitatori unici giornalieri e più di 50 000 abbonati.

In questa intervista ci racconta che cosa vuol dire fare giornalismo oggi, un lavoro che nei principi non è cambiato, ma in cui si innestano nuovi e vari modi di raccontare, nonché un rapporto diverso con chi legge; inoltre, condivide le passioni e racconta le difficoltà che possono caratterizzano il suo lavoro, e qual è stato il suo percorso di formazione, mettendo in risalto l’importanza dello spirito d’iniziativa personale per costruirsi una professionalità e trovare la propria strada in un settore lavorativo in continua innovazione.

INDICE

  • Come descriverebbe il suo lavoro?
  • Come si svolge il suo lavoro quotidiano?
  • Oltre all’attività all’interno del giornale per cui lavora, ha fatto delle inchiesta giornalistiche per conto suo. Ce ne può parlare?
  • Come nasce la sua passione per gli Stati Uniti?
  • Che cosa la entusiasma di più del suo lavoro?
  • Come è arrivato a fare questo mestiere? Dove nasce il suo interesse per il giornalismo?
  • Come è passato dagli studi al lavoro?
  • Che cosa si porta dietro dagli studi e che cosa ha dovuto imparare sul campo?
  • Quali sono le sfide di oggi per chi fa la sua professione?
  • Quali competenze e attitudini sono necessarie per fare il suo mestiere?
  • C’è qualcos’altro che ritiene utile sapere per chi intende intraprendere una carriera giornalistica?
  • CONCETTI IN PRATICA - Che cosa vuol dire scrivere un libro?
  • LE PROFESSIONI – Come funziona la redazione di un giornale?

PER APPROFONDIRE

  • Obiettivo: giornalismo – scopri percorsi di studio e sbocchi professionali
  • I numeri delle professioni: giornalismo – scopri quanti giornalisti e giornaliste ci sono in Italia e in quali settori lavorano

Come descriverebbe il suo lavoro?

La descrizione, diciamo “tecnica”, del mio lavoro è quella di giornalista, che è una definizione che riguarda più l’attività che la sua applicazione concreta. Il mestiere del giornalista è legato all’indagine della realtà, o meglio di porzioni di realtà. Per esempio, indagare e raccontare la politica industriale di un grande gruppo automobilistico, la politica estera della Cina o un omicidio avvenuto in un certo quartiere. In pratica, studiare gli elementi che determinano quello che accade attorno a noi e le ragioni per cui accade. E poi, a seguito di questa indagine, raccontarne e divulgarne i risultati. Quando avviene un fatto, quindi, innanzitutto studio e poi racconto quello che ho studiato. Però quello che studio può essere diversissimo, come anche il modo con cui lo racconto: con il testo, con le immagini o con la voce, in un programma televisivo o radiofonico, in un articolo o in un libro o in una storia su Instagram. Quindi, la definizione è necessariamente molto ampia, perché il giornalista è chi il giornalista fa, al di là di quello che dice la legge, che stabilisce un percorso di praticantato, esami, eccetera; il giornalismo è un’attività prima ancora che un mestiere.

Come si svolge il suo lavoro quotidiano?

Io lavoro in un giornale online, questa è l’attività che prende la maggior parte del mio tempo; il giornale si chiama Il Post, e ne sono vicedirettore. Oggi, la mia principale mansione al Post è condurre ogni mattina un podcast che si chiama Morning, una rassegna stampa commentata che esce intorno alle 8 del mattino e mi impegna fin dalle 5 del mattino. Poi sono coinvolto nelle decisioni strategiche del giornale: in quali aree investire, su cosa puntare, analizzare i progetti per il futuro: non sono più coinvolto nell’attività quotidiana su decidere che cosa pubblichiamo oggi, domani, o su cosa va in apertura di giornale, che invece è delegato all’altra vicedirettrice, Elena Zacchetti. Questo era il lavoro che ho fatto per dieci anni, in pratica fino a che non ho cominciato a fare Morning. Il lavoro di Morning non si esaurisce nelle tre ore in cui preparo la rassegna stampa: durante la giornata devo a restare in contatto con l’attualità, quindi, anche se non faccio il giornale, leggo le notizie e mi mantengo aggiornato.

Oltre all’attività all’interno del giornale per cui lavora, ha fatto delle inchiesta giornalistiche per conto suo. Ce ne può parlare?

Sì, ho un’attività parallela che svolgo da freelance. Si tratta di un’attività specialistica sugli Stati Uniti, su politica e cultura americana, che è un tema per cui ho avuto sempre grande interesse fin da quando ero studente universitario, e che poi si è trasformato per me in un’area professionale, in cui sono riuscita a pubblicare con testate importanti e da freelance nel tempo libero con le raccolte fondi. In particolare, ho condotto per quattro stagioni un podcast sugli Stati Uniti, Da Costa a Costa, e altri due più piccoli e brevi, The Big Seven e Milano Europa, ho scritto e interpretato una miniserie di documentari sugli Stati Uniti per DAZN, che si chiama The American Way, ho scritto a lungo una newsletter e ho pubblicato tre libri, sempre sugli Stati Uniti [v. Concetti in pratica a fine articolo – Che cosa vuol dire scrivere un libro?].

Come nasce la sua passione per gli Stati Uniti?

Nasce negli anni in cui ero a Roma: stavo cercando di lavorare, ma non lavoravo ancora, cercavo delle cose su cui scrivere per diventare più bravo, per farmi notare, provavo a scrivere articoli da mandare ai giornali per farmi pubblicare. La cosa che mi appassionava di più in quel momento era la candidatura di Barack Obama alle primarie democratiche, lui era uno sconosciuto, aveva un nome un po’ strano, una campagna elettorale apparentemente senza storia, era sfavoritissimo, mi appassionava sapere se ce l’avrebbe fatta. Però mi sono accorto, mentre provavo a scrivere dei pezzi su Obama da mandare ai giornali, che mi mancavano troppe informazioni: non capivo perché Obama in uno Stato vinceva e in un altro perdeva, perché le regole da uno Stato all’altro erano così diverse. Queste domande mi portarono a studiare, a leggere dei libri per essere in grado di capire meglio quella storia, che intanto settimana dopo settimana diventava più appassionante, quindi io non potevo più staccarmene. Quando sono entrato al quotidiano L’Unità alla fine del 2008 (Obama si è candidato nel 2007), tra le prime cose che mi hanno fatto fare, mi hanno mandato in un locale, dove gli americani residenti a Roma seguivano la notte elettorale. Quindi: provo a fare il giornalista per la prima volta nella mia vita e nella mia carriera, sono lì per lavoro, in mezzo agli americani che assistono a un evento storico e si commuovono per la prima volta per l’elezione di un presidente afroamericano. Io ovviamente vengo comprato a vita da tutto questo, voglio continuare a seguire queste storie, voglio cercare di continuare di cercare di capire queste persone per me così affascinanti, di cui pure non capivo tantissime cose.

Che cosa la entusiasma di più del suo lavoro?

Io sono una persona molto curiosa, quindi la cosa che mi appassiona di più è la possibilità di trovare risposte a delle domande, capire perché un quartiere è messo meglio di un altro dentro la stessa città, scoprire le ragioni per cui un’azienda riesce a crescere tantissimo e un’altra invece va molto male, comprendere perché un partito guadagna consensi e un altro li perde. Chiaramente non è questa l’unica forma di giornalismo possibile, c’è anche un giornalismo molto più legato alle indagini sul campo, il mio lo è, ma lo è meno rispetto, per esempio, a chi va a seguire la guerra in Ucraina. Il mio è un giornalismo più legato all’analisi dei dati e alla critica culturale.

Come è arrivato a fare questo mestiere? Dove nasce il suo interesse per il giornalismo?

Io ricordo che da ragazzino quando mi chiedevano che cosa avrei fatto da grande dicevo «fare quello del telegiornale», quindi è un interesse che avevo già da molto piccolo. Ho imparato a leggere molto presto, per mio desiderio, mi raccontano i miei genitori. Ho dei ricordi di me che gioco con libri e giornali, a casa dei miei sono sempre circolati molto. E poi durante gli anni delle scuole superiori si è concretizzato un mio interesse per la storia, come materia scolastica; grazie anche a un insegnante, un professore di storia e filosofia che per me è stato molto importante, con cui sono felice di essere ancora in contatto. E poi il lavoro nel giornalino scolastico: trovavo in quel contesto lì un modo, anche divertente, per scoprire chi fossi, per mettermi alla prova, per costruire delle amicizie; era una comunità e un’attività in cui mi trovato a mio agio. Poi sono andato all’università, ho studiato Scienze politiche, in particolare ho preso la laurea triennale in Scienze storiche e politiche all’Università di Catania. Inoltre, all’ultimo anno delle scuole superiori, ho scoperto un interesse per la Seconda guerra mondiale, per i fatti del Novecento, in generale, come la storia del fascismo, del comunismo, della guerra fredda, e da questi anche un interesse per l’attualità, per le informazioni che mi davano modo di capire meglio i fatti che accadevano attorno a me.

Come è passato dagli studi al lavoro?

Dopo la laurea triennale volevo provare a fare il giornalista davvero, ma non avevo idea da dove cominciare, perché nessuno nella mia famiglia faceva il giornalista o lo aveva fatto, non avevo nessun contatto. All’epoca vivevo all’epoca a Catania, in Sicilia, dove non c’è un grande mercato editoriale giornalistico, e sentivo che mi mancava un po’ di formazione. L’università mi ha formato sul piano storico, ma non su quello giornalistico. Ho scelto quindi di iscrivermi alla laurea specialistica in Editoria e scrittura a La Sapienza, a Roma. Il corso aveva poche materie davvero giornalistiche, molta letteratura, era molto interessante ma non erano le cose che cercavo. Una volta a Roma ho cominciato a lavorare, all’inizio quasi gratis, con dei contatti che mi ero costruito attraverso un blog di attualità che ho aperto nel 2003 mentre studiavo all’università; nella comunità dei blogger italiani mi ero fatto qualche lettore ed ero diventato lettore di altri, facevo parte di quella community e a Roma ho cercato di valorizzare quei contatti. Ho cominciato a scrivere gratis su qualche sito di politica, su un giornale che si chiamava Liberal, ho scritto forse un paio di pezzi sul Riformista, su Europa, tutta stampa che parlava di politica romana. Finché non sono riuscito a ottenere un contratto a progetto al quotidiano L’Unità, dopo aver mandato un curriculum: sono entrato come collaboratore, in particolare come moderatore dei commenti del sito, però avevo messo un piede in una redazione per la prima volta e lì ho cominciato a imparare il mestiere. Da lì ho lasciato l’università, quindi non ho mai preso la laurea specialistica alla fine, perché ho cominciato al lavorare, prima a L’Unità, poi a Internazionale, poi di nuovo a L’Unità e poi sono andato a Milano a fare Il Post con Luca Sofri nel 2010, e sono ancora lì.

Che cosa si porta dietro dagli studi e che cosa ha dovuto imparare sul campo?

Mi porto dietro molto dagli studi, per quanto non mi abbiano dato nulla rispetto a  quello che mi serviva sul piano tecnico del mio lavoro. Quello che mi è mancato è stata la professionalizzazione, nessuno mi ha insegnato a fare il giornalista, per esempio rispetto alla verifica delle notizie, alla lettura dei giornali stranieri, e alla comprensione di meccanismi che oggi fanno parte del mio lavoro quotidiano. Mi ritengo anche fortunato di aver trovato dei contesti in cui ho potuto impararle bene quelle cose lì. Vedo con i miei colleghi quanto i posti dove passi i primi anni della tua carriera possano in qualche modo, non segnare, perché poi si cambia, ma mettere su dei binari da cui non è facile dopo cambiare carriera. Però mi ha aiutato molto il percorso che ho fatto durante l’università, quelli sono gli anni che ho dedicato alla mia formazione in senso più ampio, non solo universitario: quelli degli studi sono gli anni in cui scopri un autore che ti piace, ti compri tutti i suoi libri e te li leggi tutti, ti immergi nella cultura, non solo quella dei libri accademici. Quindi, quegli anni lì, li ritengo particolarmente importanti, soprattutto il periodo che ho passato a Roma.

Quali sono le sfide di oggi per chi fa la sua professione?

Ne cito tre. La prima: questo è un momento molto strano per l’industria che sostiene questo lavoro, perché avvengono due fenomeni contemporanei, giganteschi e contradditori. Da una parte, i media di informazione e i giornali non sono mai stati letti così tanto, abbiamo accesso ai giornali di tutti il mondo, tramite un dispositivo che chiunque ha in tasca; questa è la prima generazione dell’umanità che ha problemi con l’abbondanza, e non con la mancanza, di informazioni. Eppure le aziende che producono queste informazioni, sono ormai sempre più “pericolanti”: dalla pubblicità, dagli abbonamenti che si riducono, ai costi che crescono, i giornali non stanno bene. Queste due condizioni convivono e portano a un sacco di distorsioni del nostro mercato: io devo fare il giornalista, ho bisogno di utilizzare i social media, ma i social media rispondono a regole che non sono pensate per la mia professione, come la sintesi, l’engagement, l’emotività ecc. Io sono costretto a nuotare in un’acqua che non è sempre la mia, rispetto ai mezzi con cui cerco di fondare la mia attività giornalistica; i libri hanno ancora un grosso spazio nel mercato culturale, però non ti danno l’accesso a un gran parte della popolazione, per cui la televisione per esempio è ancora importante; anche i social sono importanti, ma funzionano con regole che oggi penalizzano i contenuti giornalistici a vantaggio dell’intrattenimento.

Secondo grosso problema: una conseguenza di questi fenomeni, ma anche un’opportunità di chi fa oggi questo mestiere, è cercare di costruire delle community personali. A me è capitato, per esempio. I follower che ho sui social media sono persone che leggono anche Il Post, ma poi seguono me e se qualcosa non gli piace di quello che ho scritto, cercano me. Ci sono molte opportunità in questo processo, per esempio, le persone che sono delle complete outsider possono costruirsi un pubblico e una carriera in un modo che non sarebbe stato possibile prima. Per contro, questi meccanismi costringono chi fa questo mestiere a un rapporto così diretto, intimo e personale con le persone che in certi casi è dannoso, perché può dare alla testa del giornalista che si crede chissà chi, perché l’ego quando ricevi tanti messaggi poi ne risente, o può dar luogo a conformismo, nella ricerca dell’applauso facile della tua community. O, ancora, può sottoporre a linciaggio e campagne di odio che prendono di mira chi dice una cosa contro qualcuno di particolarmente popolare.

Chi faceva questo mestiere, per esempio nel 1978, non aveva a che fare con questo fenomeno, al massimo incontrava qualcuno al bar, che, se lo riconosceva, gli diceva qualcosa. Era completamente anonimo, oggi non lo è più.

E la terza sfida?

Sul piano personale, ma penso che non sia solo il mio caso, è un lavoro che richiede moltissime energie. Non energie fisiche, perché non andiamo a lavorare in miniera, o in fabbrica in una catena di montaggio, però è un lavoro in cui si fa fatica a staccare, che non prevede orari stabili, che ti porta a viaggiare tanto. Non è un caso che tanti giornalisti e giornaliste hanno poi come partner altri giornalisti o giornaliste: è difficile costruirsi una vita normale facendo questo mestiere. Non è l’unico mestiere faticoso, ce ne sono sicuramente di peggiori, però va tenuto presente che è un mestiere che ti chiede tanto.

Quali competenze e attitudini sono necessarie per fare il suo mestiere?

Il nostro mestiere si fa con le parole, poi, al di là che ci sia un testo scritto, o letto, magari alla radio o in tv, c’è sempre una scrittura dietro qualsiasi contenuto giornalistico. Quindi, tutte le competenze che hanno a che fare con le parole e con l’utilizzo delle parole, la lettura di contenuti in modo approfondito, l’avere anche una cultura e una competenza su come cambia la lingua, sono importanti. È un mestiere in cui bisogna essere bravi nello scegliere le parole, quindi anche l’etimologia è utile. Insomma, bisogna conoscere i nostri attrezzi e saperli maneggiare nel miglior modo possibile.

Per quanto riguarda un’altra competenze, si può parlare di “lingue”. Ogni lingua che impari a leggere ti apre una porta verso nuove storie, un nuovo mercato, ti fornisce nuovi spunti e informazioni che ti possono aiutare a lavorare meglio. Direi che ci vuole anche quella curiosità nell’andare a guardare oltre le cose. Servono anche disponibilità a viaggiare, a mettersi in una posizione di ascolto, e la capacità di arrivare in un contesto, in un luogo, cercando di non avere verità preconfezionate. Osservare e saper osservare: non so come sviluppare queste competenze, se non con l’esperienza. Però può essere utile anche conoscere qualcosa che riguarda la sociologia, dato che si parla di persone, e l’antropologia: la storia degli esseri umani e la storia del passato ci spiegano molte cose sul nostro presente e quindi ci aiutano a capire il futuro.

Poi ci sono le competenze tecniche relative alla diffusione del contenuto della tua ricerca. Quindi, dai corsi di scrittura veri e propri, che ti insegnano a scrivere un articolo e i testi più letterari, a corsi di montaggio video e audio, quelli per la produzione di un documentario, per imparare a fare un podcast o a gestire un canale di Telegram: non bisogna per forza padroneggiare tutte queste tecniche, e se ne aggiungeranno altre di nuove ogni giorni che passa, ma più ne conosciamo, e più opportunità abbiamo quando maneggiamo una storia per decidere se farne un articolo, un podcast, un video o qualsiasi altra cosa.

C’è qualcos’altro che ritiene utile sapere per chi intende intraprendere una carriera giornalistica?

Il mestiere del giornalista dal punto di vista della missione è rimasto lo stesso rispetto alle prime persone che facevano questo mestiere. Oggi bisogna molto di più “inventarselo”: mandare un curriculum e vedere se qualcuno risponde è il metodo con cui è meno probabile trovare lavoro in questo settore. Provare a farsi notare per le proprie capacità e il proprio lavoro è importante, anche se comporta fare un investimento in termini di tempo, magari mentre si fa un altro lavoro e occupandosene nel tempo libero. Oppure, cercando di fare degli stage, o producendo in proprio dei contenuti: oggi anche da casa si possono produrre contenuti di alta qualità se si è un po’ svegli, senza spendere troppo soldi, studiando, diventando competenti e bravi su qualcosa e cercando di farsi notare per la qualità della cose che si fanno. Non è garantito che si riesca,  anzi, è anche difficile. Possiamo dire anche che non è giusto che sia così, perché ci sono molto persone che sono ottimi giornalisti ma non sono in grado, o non vogliono, stare con la faccia davanti al video e raccontare sé stessi, però la realtà oggi è purtroppo questa. Questa non è una professione che ha un accesso trasparente, non trovi gli annunci sul giornale “cercasi redattrice”, quindi bisogna inventarsi dei modi per entrare. Ci sono quelli relazionali, però lì consigli non ne servono, ma gli altri hanno a che fare con il cercare di diventare bravi e farsi notare con qualcosa di più che il singolo curriculum.

CONCETTI IN PRATICA

Che cosa vuol dire scrivere un libro?

Scrivere un libro è forse la cosa più difficile che mi è capitato di fare nella mia carriera, a lungo ho anche pensato di non essere stato in grado, al di là della qualità, intendo proprio in grado di scrivere così tante parole una dietro l’altra. Tant’è che prima che uscisse il primo, per due anni ci sono state discussioni, pensieri, offerte che ho rifiutato perché non mi sembrava di avere un libro da scrivere. La cosa più difficile è la forma, che secondo me ti costringe ad avere le idee più chiare prima di scrivere, a raccogliere il maggior numero di fonti, il maggior numero di dati, e a non sbagliare. Un po’ per l’eternità dell’oggetto libro, in quanto non lo puoi correggere, una volta che è stampato è stampato. Un po’ per la presunzione dello sforzo: davvero ho una cosa da raccontare così importante, da prendere la carta dagli alberi, stamparla, e poi spedire con dei furgoni questa cosa che ho da dire a tutte le librerie d’Italia? Ogni pagina ti chiedi: ma ha senso che io scriva questa cosa? Mentre una storia la faccio su Instagram, non mi costa nulla e l’indomani è sparita. Quindi, il libro mi mette molta più pressione, richiede una qualità più alta del lavoro ed essendo un testo molto più lungo di qualsiasi altro che leggiamo sui giornali, o nei vari dispositivi, la lotta per ottenere l’attenzione di chi ti legge è particolarmente difficile, specialmente in un momento così ricco di stimoli. Ti costringe davvero a pesare ogni singola parola, ogni singolo avverbio, ogni singola frase, ogni scelta di contenuto. Per me è un lavoro veramente complicato, eppure  il risultato finale se ti riesce bene, o se comunque alla fine ne sei soddisfatto, è il modo più completo possibile per raccontare una cosa, perché noi siamo evidentemente limitati come essere umani quando seguiamo un fenomeno; ma non c’è nessun fenomeno che non sia legato a tantissimi altri fenomeni, non c’è nessun problema che abbia una sola causa, e quindi l’unico modo per provare a raccontare una cosa nella sua interezza, è farlo in trecento pagine, non lo puoi fare in 10 storie su Instagram o un in articolo. Però, appunto, cammini su una corda sospesa, o almeno io è così che mi sento quando scrivo un libro.

LE PROFESSIONI

Come funziona la redazione di un giornale?

Dipende molto dalla dimensione dalla redazione, e da quello che il giornale sceglie di coprire, perché il mondo è grande e di storie ce ne sono quante ne vuoi. Il New York Times, ha scritto sulla sua prima pagina «All the News That's Fit to Print», cioè ogni numero «contiene tutte le notizie che meritano di essere stampate». Però poi ci si chiede: com’è che ogni giorno ci sono esattamente il numero di notizie che ci stanno nel giornale? C’è una scelta, e quella scelta se sei in cinque la fai in un certo modo, mentre se la redazione è fatta da quaranta persone la fai in un altro modo. Detto questo, le redazioni si compongono di due tipi di figure: le persone che scrivono, che poi sono anche quelle che indagano e che raccolgono il materiale, e le persone che commissionano, editano, valutano e pubblicano i pezzi delle persone che scrivono. Queste ultime sono dette editor, mentre le persone che scrivono sono dette staff writer. Nelle redazioni italiane solitamente non c’è questa distinzione, in genere sono tutti giornalisti e giornaliste, però ci sono sempre figure (caporedattori e caporedattrici) che svolgono azioni di supervisione e di responsabilità nella scelta dei contenuti. In particolare, valutano le proposte arrivate dalla redazione e scelgono di cosa scrivere, chi scrive e che cosa, quanto spazio dedicare a ogni notizia, e attraverso queste scelte comporre il giornale. Se il giornale è di carta, la prima riunione si svolge ogni mattina intorno alle 10 o anche un po’ prima, più tardi si fa un punto della situazione, e a fine giornata si fa l’ultima riunione sulla prima pagina, che si fa per ultima; nel frattempo, nel corso del pomeriggio, si costruisce il giornale.

Nel caso di un giornale online, quindi di un giornale che non esce una volta al giorno ma è continuamente “fuori”, ovviamente non si può stare perennemente in riunione. Per la mia esperienza, nella redazione di un giornale online ci sono molte più relazioni interpersonali durante la giornata; mentre per il giornale cartaceo ci si vede al mattino, ci si spartisce le cose da fare e poi ci si rincontra a un certo punto, in un giornale online il lavoro è più collettivo, capita di lavorare in due o tre allo stesso pezzo, per esempio uno scrive e l’altro raccoglie il materiale. Il modo di lavorare è più collegiale ma, sostanzialmente, la struttura organizzativa è la stessa: chi scrive fa delle proposte, spesso in un ambito delimitato di competenze, che siano esse scientifiche, politiche, economiche - al Post un po’ meno perché ci piace sempre l’idea che tutti possano fare tutto naturalmente seguendo le inclinazioni di ciascuno -, quindi il caporedattore decide quali proposte mandare avanti. La decisione viene presa insieme alla redazione, ma la responsabilità della scelta alla fine è del caporedattore, così come il distribuire il lavoro. Le persone che scrivono, quando hanno finito tornano dal caporedattore, e questo scambio avviene più volte al giorno: ogni volta che c’è un articolo da chiudere, non soltanto quando si chiude il giornale.

Farian Sabahi è un’islamologa, ricercatrice, scrittrice e giornalista che si occupa di ricerca sul Medio Oriente, Caucaso e Asia Centrale con un approccio e una metodologia multidisciplinare.

INDICE

  • Come si definirebbe?
  • Di che cosa si sta occupando adesso?
  • Che percorso di studio e professionale ha fatto?
  • Che cosa pensa della sua professione?
  • Come pensa si evolverà la sua professione?
  • Quali sono le cose che la appassionano di più?
  • Quali sono le cose che la appassionano di meno?
  • Come rientrano le competenze scientifiche nella sua professione?
  • Con quali altre figure professionali interagisce?
  • Quali libri ha scritto?
  • CONCETTI IN PRATICA - Cos’è il fact-checking o verifica dei fatti
  • LE PROFESSIONI - Che cosa fa chi si occupa di islamologia?

PER APPROFONDIRE

  • Scopri dove studiare storia
  • I numeri delle professioni: giornalismo, quanti sono i giornalisti e le giornaliste in Italia
  • Obiettivo giornalismo: percorsi di studio e sbocchi professionali

Come si definirebbe?

Sono iranista e islamologa. Mi occupo di Medio Oriente, Caucaso e Asia Centrale con una metodologia multidisciplinare che tiene conto di storia, economia, aspetti religiosi e culturali, incluse le questioni di genere che mi sono particolarmente care. Ho appena preso servizio a fine dicembre 2022 come ricercatrice senior di Storia contemporanea presso l’Università dell’Insubria. Sono autrice di numerosi volumi. Sono iscritta all’Ordine dei giornalisti del Piemonte e scrivo, principalmente di Iran, per il manifesto e il Corriere della Sera. Sono spesso ospite di trasmissioni radiofoniche e televisive per commentare l’attualità mediorientale e l’immigrazione musulmana in Europa.

Di che cosa si sta occupando adesso?

Il 20 febbraio 2023 inizierò a insegnare un corso di 64 ore di Relazioni internazionali dell’Europa Orientale e del Medio Oriente all’Università dell’Insubria, nella sede di Varese. I miei attuali progetti di ricerca sono principalmente tre, due dei quali sono destinati alla pubblicazione in una rivista scientifica e l’ultimo diventerà un volume. Il primo progetto di ricerca ha come protagonista Ashraf Dehqani, guerrigliera dei Fadaiyan-e Khalq nell’Iran degli anni Settanta, al tempo dell’ultimo scià Muhammad Reza Pahlavi. In seguito all’arresto e alla morte sotto tortura del fratello Behruz, il 13 maggio 1971 anche lei fu arrestata e torturata. Grazie all’aiuto di altri prigionieri, il 25 marzo 1973 Ashraf riuscì a scappare dal carcere di Qasr. Dapprima in clandestinità, ha lasciato l’Iran e dato testimonianza delle sue vicende in un memoir intitolato L’epica della resistenza. Tra le prime aderenti al movimento di guerriglia, nonché fautrice della prima scissione all’interno dei Fadaiyan dopo la rivoluzione del 1979, Ashraf diventò un simbolo politico e sociale, un modello da imitare. Il mio secondo progetto di ricerca riguarda i rapporti tra l’Italia e lo Yemen durante il regno dell’Imam Yahya, nella prima metà del Novecento. Il terzo progetto è la traduzione e la curatela del diario di viaggio di un diplomatico polacco che nel 1926 si recò alla corte di Persia per l’incoronazione di Reza Shah, il fondatore della dinastia Pahlavi.

Che percorso di studio e professionale ha fatto?

Sono nata e cresciuta ad Alessandria, una cittadina di provincia equidistante da Milano, Torino e Genova. Mio padre è iraniano e mia madre piemontese, entrambi appassionati di arte tessile e tappeti. Ho narrato le vicende di famiglia, tra Iran e Piemonte, nel memoir Non legare il cuore. La mia storia persiana tra due Paesi e tre religioni dato alle stampe da Solferino nel 2018. Mi sono laureata in Economia aziendale all’Università Bocconi (1991), avevo 23 anni. Lavorando a tempo pieno, ho conseguito una seconda laurea in Storia orientale all’Università di Bologna (1995). In entrambi i casi mi sono laureata con tesi in Storia economica. Dopodiché ho iniziato un PhD in Storia dell’Iran alla School of Oriental and African Studies di Londra (1999) facendo ricerca su un programma di alfabetizzazione messo in atto dallo scià Mohammad Reza Pahlavi tra il 1963 e il 1979. Il passo successivo è stato un post dottorato sui contratti petroliferi buyback in Iran (2001) e poi un assegno di ricerca sulle zone di libero scambio nel Golfo persico (2002). Nell’autunno del 2002 ho iniziato a insegnare un mio corso, di Storia dell’Iran, presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Ginevra. Ho tenuto corsi presso l’Università Bocconi, l’Università di Torino, l’Università di Ginevra, l’Academy of Diplomacy di Baku e presso la John Cabot di Roma dove sono stata titolare del corso “History and Politics of Iran”.

Che cosa pensa della sua professione?

Fare ricerca è un mestiere bellissimo ma spesso lo svolgi in totale solitudine: ci sei tu, le tue fonti, e nessun altro se non – a fine progetto – un collega che non conosci e giudicherà il tuo lavoro permettendone la pubblicazione, oppure bocciandola. Per quanto riguarda scrivere per i giornali, andare in onda sulle radio e le televisioni è entusiasmante ma veramente impegnativo perché devi essere sempre aggiornata, sempre pronta ad andare in onda con un preavviso – talvolta – di una manciata di secondi. Non sei mai veramente in ferie, non puoi mai staccare veramente. È un mestiere che richiede tanta passione.

Come pensa si evolverà la sua professione?

L’evoluzione c’è già stata, con la pandemia: in caso di necessità, lezioni e interviste si possono fare da remoto, su Skype o con l’ausilio di altre piattaforme. I tempi si velocizzano. Muoversi, andare in Medio Oriente a fare ricerca, è invece diventato sempre più complicato a causa delle guerre – per esempio in Yemen, una delle mie aree di specializzazione - e della repressione di regime in Iran in seguito alla morte della ventiduenne curda Mahsa Amini lo scorso 16 gennaio. Quando ho iniziato a lavorare era tutto più facile, in termini di libertà negli spostamenti e quindi in termini di accesso alle fonti scritte e orali.

Quali sono le cose che la appassionano di più?

Viaggiare, scoprire, fare ricerca negli archivi e anche con una metodologia di Storia orale, ovvero facendo interviste a persone che hanno vissuto un determinato evento storico.

Quali sono le cose che la appassionano di meno?

Le questioni burocratiche, tenere i conti.

Come rientrano le competenze scientifiche nella sua professione?

Dietro al mestiere di ricercatore senior in Storia contemporanea c’è una solida preparazione accademica nella materia e nella metodologia. Nel giornalismo devi rispettare, con rigore, la deontologia e – soprattutto di questi tempi – andare a fondo per verificare le notizie facendo fact checking.

Con quali altre figure professionali interagisce?

In realtà sono un essere solitario, interagisco laddove necessario. Per esempio con i colleghi, in università e nelle redazioni, che comunque frequento poco. E poi con personaggi di ogni tipo: premi Nobel, scrittori, ma anche personaggi umili che con me hanno condiviso il loro sapere, la loro esperienza. Il bello di questi due mestieri – ricercatore e giornalista – è che non ti annoi mai.

Quali libri ha scritto?

Il mio ultimo libro si intitola Noi donne di Teheran (Jouvence, 2022) ed è composto da tre parti: una prefazione sulle proteste in corso in Iran; il reading teatrale che dà il titolo all’opera e che leggo ad alta voce nei teatri accompagnata da brani del compositore torinese Ludovico Einaudi; e una lunga intervista al Nobel per la Pace Shirin Ebadi, avvocato iraniana. I miei libri precedenti sono Storia dello Yemen (Istituto per l’Oriente C.A. Nallino, 2021) e Storia dell’Iran 1890-2020 (Il Saggiatore, 2020). 

CONCETTI IN PRATICA

Cos’è il fact-checking o verifica dei fatti

Il fact-checking o la verifica dei fatti o verifica delle fonti è il lavoro che deve essere fatto in ambito giornalistico per accertare la validità degli avvenimenti accaduti, o dei dati utilizzati per scrivere un articolo di giornale o comporre un discorso. È un lavoro molto importante che ha lo scopo di evidenziare eventuali imprecisioni. Spesso giornalisti e giornaliste si avvalgono di specifiche persone o organizzazioni che svolgono tale tipo di attività.

 

LE PROFESSIONI

Che cosa fa chi si occupa di islamologia?

L’islamologo/a è la figura professionale che studia l’islamologia, ovvero la disciplina che studia la cultura islamica nei suoi vari aspetti e nelle varie epoche storiche. Ha un approccio multidisciplinare alla materia e si occupa di varie discipline tra cui teologia, diritto, storia del mondo islamico, economia.

Immagine di copertina per gentile concessione di Ornella Favero

Ornella Favero, giornalista, oltre 20 anni fa ha creato Ristretti Orizzonti, un giornale coordinato e scritto da persone detenute, che racconta la vita reale in carcere. Oggi è responsabile del volontariato nazionale nelle carceri. «Il mio lavoro è creare un ponte fra il mondo dentro, e la realtà esterna, colmare il baratro. Negli anni ho capito che le persone possono cambiare».

Ancora oggi non esiste un modello di offerta formativa condiviso nelle carceri, al di là della possibilità di frequentare la scuola per chi non ha un titolo di studio. Ogni realtà si gestisce a suo modo. L’80% delle attività rieducative è gestita dal volontariato; sono pochi i bandi e i progetti di questo genere finanziati, e comunque ogni struttura gestisce in autonomia le proprie risorse e attività. C’è estremo bisogno per il futuro di figure competenti, che possano affiancare operatrici e operatori penitenziari, che sappiano lavorare in squadra per rendere questo luogo sempre meno una prigione e sempre più un’opportunità di rimessa in gioco.

INDICE

  • Che cosa trova più esaltante del suo lavoro?
  • Ci spiega che cosa fa una giornalista in carcere?
  • Come si svolge una sua giornata tipo?
  • Che cosa ha imparato studiando e che cosa sul campo?
  • Come si arriva a fare il suo lavoro?
  • Per concludere, che cosa è bene sapere se si vuole fare il suo lavoro?
  • CONCETTI IN PRATICA - Ci racconta un progetto che ritiene particolarmente utile?
  • LE PROFESSIONI – Educazione carceraria e mediazione penale

PER APPROFONDIRE

  • Scopri dove si studiano le scienze umane

Che cosa trova più esaltante del suo lavoro?

L’aspetto più appassionante del mio lavoro in carcere è vedere che anche chi ha commesso dei reati gravissimi può veramente cambiare. Non accade sempre, ma molto più spesso di quanto immaginiamo. Dipende da che cosa queste persone trovano qui dentro. Negli anni ho scoperto che da fuori tendiamo a cedere a semplificazioni rispetto al dipingere l’indole di una persona, o a credere alle sue reali possibilità di cambiamento. Siamo abituati ad affibbiare delle etichette con enorme facilità, in particolare su persone che hanno commesso dei reati pubblicamente riconosciuti come “Male assoluto”. In realtà, è tutto più complesso e appassionante. Bisogna ascoltare le storie dei detenuti, che è ciò che da più di 20 anni facciamo con Ristretti Orizzonti, e aiutarli a raccontarsi, a condividere quello che vivono con le persone fuori dal carcere, come per esempio i ragazzi delle scuole: che cosa hanno fatto e perché, dalla loro prospettiva. Questo è fondamentale per fare prevenzione, e per far sì che una persona che ha commesso un reato grave inizi ad assumersene la responsabilità.

Ci spiega che cosa fa una giornalista in carcere?

Di fatto la nostra è una redazione a tutti gli effetti. Produciamo un giornale scritto da detenuti e detenute che racconta come si vive realmente in carcere. Quando ho messo in piedi questa rivista mi sono posta due obiettivi: cercare di creare un ponte fra il mondo dentro e la realtà esterna, colmare il baratro, e nel contempo fare seriamente informazione dal carcere. La qualità prima di tutto: non ho mai inteso questa attività come un palliativo per alleviare la noia ai detenuti, ma come un modo per investire sulle loro potenzialità per migliorare le condizioni di tutti. Non ci sono persone che non vengono coinvolte a priori: persino “ex mafiosi” collaborano con il nostro giornale. E vorremmo cercare di coinvolgere anche le sezioni dei cosiddetti sex offender, che a loro volta hanno spesso storie di abuso alle spalle. Molti di loro hanno bisogno di cura più che di galera, e anche fra loro in alcuni casi ci sono persone pronte per essere coinvolte. La valutazione è comunque collettiva, da parte di tutto il team che lavora con le persone detenute.

Il ruolo del giornalista in carcere non è tuttavia strutturale. Si tratta per lo più di volontari o di persone assunte per progetti educativi finanziati da progetti terzi. Le figure strutturali presenti in carcere sono l’educatore e, da poco, il mediatore penale.

Come si svolge una sua giornata tipo?

Vado quasi ogni giorno in redazione dentro il carcere, e nelle riunioni discutiamo sugli argomenti da trattare nel giornale. Facciamo molte interviste, specie in videoconferenza; recentemente abbiamo intervistato Gad Lerner, per esempio, devo dire che persone competenti, conosciute per la loro professionalità, tendono a dare la disponibilità per iniziative di questo tipo, dato che non è così frequente farsi intervistare da un detenuto. È molto arricchente per tutti. Quando inizia l’anno scolastico poi abbiamo mattine dedicate ai ragazzi, in cui ospitiamo dentro il carcere gli studenti delle scuole superiori o dell’Università dando loro la possibilità di dialogare direttamente con i detenuti, di confrontarsi con loro in redazione.

Che cosa ha imparato studiando e che cosa sul campo?

Io studio moltissimo, per esempio sul fronte della rieducazione, e partecipo a incontri di formazione; alcuni li organizziamo anche noi, per esempio momenti di formazione con magistrati di sorveglianza che si occupano di esecuzione della pena. Chiaramente la vera esperienza poi la si fa con le persone, entrando in carcere. Ci si rende subito conto che in Italia non si fa ancora abbastanza per la rieducazione, che dovrebbe essere l’essenza della pena, e che ci sono moltissime cose che andrebbero messe in discussione. Il carcere è un tema molto complesso e trascurato dalla politica. Basti pensare che per 54 mila detenuti ci saranno 35 mila agenti e neanche 800 educatori: i numeri parlano da sé. Di riflesso c’è poco dibattito sulla rieducazione dei detenuti, sui percorsi graduali di reinserimento, che sono la chiave per abbattere i tassi di recidiva per chi esce dal carcere, ancora molto alti. Insomma: dal di dentro e ascoltando le loro storie, ho imparato che serve investire non solo sul carcere ma sui percorsi di accompagnamento, mentre oggi ci si concentra maggiormente sulla sicurezza. La stessa Costituzione dice chiaramente che la pena deve tendere alla rieducazione, mentre non parla di altre funzioni della pena. E la Costituzione, non dimentichiamo, è stata scritta da persone che il carcere l’avevano sperimentato!

Come si arriva a fare il suo lavoro?

Ci sono arrivata un po’ per caso. Mia sorella insegnava in carcere e un giorno mi ha chiesto di fare formazione sulla comunicazione. Lì, un gruppo di detenuti mi chiese se potevo aiutarli a scrivere qualcosa che li rappresentasse e da lì ho iniziato a pensare di fare un foglio di informazione. Abbiamo cominciato discutendo intorno a un tavolo delle loro storie, di come erano finiti a commettere dei reati. All’inizio passavo le mie giornate a correggere i testi scritti a mano. Si trattava per lo più di storie sconnesse, di racconti che esprimevano nella loro struttura e scrittura la confusione, il caos, che la persona aveva dentro, ma anche la voglia di mettersi in discussione. Ricordo la storia di una persona detenuta, che aveva un unico punto in tutta una pagina. Un flusso di coscienza senza punteggiatura, che ricalcava esattamente la vita di questa persona, confusa, ingarbugliata, senza punti fermi. Con il tempo ho iniziato a costruire la redazione, e Ristretti Orizzonti è diventato un luogo di dibattito riconosciuto anche fuori Padova, dove lavoro. Oggi sono responsabile del volontariato nazionale nelle carceri. Nel mio caso si tratta appunto di volontariato, io facevo l’insegnante come mestiere. Una delle battaglie è che il volontariato  sia sempre più considerato nel dialogo con le istituzioni. Non siamo ospiti e al contempo dobbiamo portare professionalità, consapevolezza, competenza. Per questo i volontari in carcere vengono formati con corsi specifici da noi e da altre associazioni in tutta Italia. Rimane il fatto che – e questa è un’altra battaglia che portiamo avanti – è necessario che ci siano momenti di formazione congiunta tra operatori professionali del carcere e operatori del Terzo Settore, bisogna mettere insieme sguardi diversi. Oggi sono sempre più i progetti di cooperative sociali che danno lavoro, progetti sostenuti e finanziati da enti locali, comuni e regioni. Ma c’è bisogno di più spinta, di persone competenti che vogliano cambiare le cose. Io stessa ho seguito corsi di formazione per volontari e poi un corso per diventare mediatrice penale. Per le figure “strutturate” come gli educatori oggi ci sono i concorsi pubblici, ma sono ancora troppo pochi, serve un impulso forte per creare progetti di inclusione sociale finanziati e che coinvolgano persone con diverse professionalità.

Per concludere, che cosa è bene sapere se si vuole fare il suo lavoro?

La cosa forse più importante da sapere è che si dovrà imparare a mantenere non la “giusta distanza” ma la “giusta vicinanza”, come dico sempre io. Il nostro compito non è essere equidistanti dalle persone detenute, ma, un concetto che ho ripreso dalla Giustizia riparativa, equiprossimi, cioè vicini in modo giusto a chi è in carcere, ma con grande attenzione anche a chi i reati li ha subiti. Bisogna inoltre sapere che non è un volontariato semplice perché non abbiamo di fronte persone fragili e richiedenti aiuto come sono i malati, gli anziani, le persone fragili. I detenuti sono persone anche forti, che però stanno vivendo una situazione di difficoltà, e serve la forza di aiutarli, ma anche di richiamarli alla responsabilità.

CONCETTI IN PRATICA

Ci racconta un progetto che ritiene particolarmente utile?

La prima è la possibilità di organizzare incontri fra detenuti e studenti delle scuole. Negli anni abbiamo vissuto insieme momenti incredibilmente intensi. Una volta per esempio una studentessa ha raccontato la sua esperienza di persona rapinata in casa, e la sua paura, non solo in quel momento ma anche successivamente al reato. Parlava della sensazione di aver sempre paura che qualcuno potesse entrare in casa sua e farle del male. È stata un’esperienza molto forte per alcune persone detenute presenti, che non erano abituate a questo genere di condivisione da parte delle vittime. Chi compie questi reati tende solitamente a minimizzare il proprio gesto, per esempio adducendo il fatto che mai avrebbe usato un’arma, o che mai avrebbe fatto del male.

Un’altra cosa che trovo utilissima sono i percorsi con le vittime di reati gravi come Agnese Moro e Fiammetta Borsellino, la figlia del magistrato ucciso in un agguato di mafia. Questi incontri hanno dato una svolta importante anche alla nostra percezione del confronto fra vittima e autore di reato, perché spesso il detenuto per il fatto di essere in carcere si ritiene una vittima, mentre qui si ribalta completamente la prospettiva. Dico solo che un detenuto che ha fatto questo percorso di confronto e dialogo con le vittime, oggi che ha finito di scontare la sua pena è diventato mediatore penale!

 

LE PROFESSIONI

Educazione carceraria e mediazione penale

Il volontariato è un modo importante per approcciare un mondo così particolare come il carcere, e valutare se è la strada professionale che fa per noi.  Se lo è, si può diventare educatore in carcere, professione per la quale è necessario superare un concorso a cui si accede con titoli considerati validi dal Ministero di Grazia e Giustizia, solitamente afferenti al campo umanistico, e in particolare al corso di laurea in Scienze dell’Educazione o della Formazione. Sono solitamente incluse anche le lauree vecchio ordinamento in pedagogia, i laureati in scienze dell’educazione degli adulti e della formazione continua, e alcune lauree di ambito sociologico, psicologico e giuridico, da verificare con attenzione in ogni bando di concorso.

Nella riforma del Processo penale recentemente approvata c’è una parte dedicata alla Giustizia riparativa e alla mediazione, che per la prima volta detta le disposizioni per la formazione di questa figura abbastanza recente: il mediatore penale.  La formazione iniziale consiste in almeno duecentoquaranta ore, di cui un terzo dedicato alla formazione teorica e due terzi a quella pratica, seguite da almeno cento ore di tirocinio presso uno dei Centri per la giustizia riparativa. L’accesso ai corsi è subordinato al possesso di un titolo di studio non inferiore alla laurea e al superamento di una prova di ammissione culturale e attitudinale. La formazione continua consiste in non meno di trenta ore annuali, dedicate all’aggiornamento teorico e pratico, nonché allo scambio di prassi nazionali, europee e internazionali.

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