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Sviluppo economico

Per approfondire leggi Dove si studia economia

Immagine di copertina per gentile concessione di Annamaria Lusardi

La finanza non dev’essere un tabù, bensì un argomento da sviluppare e discutere anche nel quotidiano. È partito da Piacenza il cammino di Annamaria Lusardi, attualmente professoressa di economia e contabilità alla George Washington University, negli Stati Uniti. L’economia è stata sempre presente nella sua vita, e la passione è maturata durante gli studi alla Bocconi di Milano, poi all’università di Princeton per il dottorato di ricerca. Nel suo lavoro coesistono tre incarichi differenti: oltre a quello accademico, è fondatrice e direttrice di un centro di ricerca dedicato all’educazione finanziaria (il Global Financial Literacy Excellence Center) e – in Italia – è direttrice del Comitato per la programmazione e il coordinamento delle attività di educazione finanziaria, creato dal Ministero dell’economia e delle finanza, di concerto con i ministeri dell'istruzione, dell'università e della ricerca e  dello sviluppo economico.

INDICE

  • Lei si dichiara sempre molto entusiasta del suo lavoro: ci sono aspetti della sua professione che le piacciono particolarmente?
  • Come possiamo immaginarla, quotidianamente, al lavoro?
  • Quali esperienze hanno contribuito di più a condurla dove è ora?
  • Quali capacità, professionali e non, occorre possedere per riuscire ad affermarsi?
  • Come spiega questa sua passione per la finanza e per l’economia?
  • Cosa ha imparato sul campo, svolgendo l’attività di insegnamento?
  • Oltre alle tante ore lavorate, cosa occorre per realizzare un percorso come il suo?
  • Quali sono i princìpi della finanza personale?
  • LE PROFESSIONI

Lei si dichiara sempre molto entusiasta del suo lavoro: ci sono aspetti della sua professione che le piacciono particolarmente?

Ce ne sono davvero tanti. Amo fare ricerca perché, attraverso l’analisi di dati e informazioni, posso avere un impatto, contribuire a qualcosa di importante, sia dal punto di vista professionale sia sociale. La ricerca in ambito economico-finanziario, che ha effetti diretti sul comportamento e sulla vita delle persone, mi ha permesso di comprendere quanto la conoscenza finanziaria media sia bassa, e soprattutto mi ha fatto capire quanto sia decisivo provare ad aumentarla. Mi piace l’insegnamento perché posso interagire con gli studenti, dando loro strumenti utili per interpretare il mondo che li circonda. Dal 2013 ho anche istituito un nuovo corso di finanza personale: mentre la macroeconomia ci permette di capire gli aspetti economici globali, la finanza personale ci insegna come gestire le nostre finanze, tenendo conto della struttura dei mercati. Un altro aspetto che ritengo di grande valore è la possibilità di fornire ai policy makers dei dati e dei risultati in grado di influire sul loro lavoro, che possano aiutarli a prendere decisioni importanti in maniera corretta e consapevole.

Come possiamo immaginarla, quotidianamente, al lavoro?

Le mie settimane sono piuttosto piene e fitte di impegni, visti i tre cappelli professionali che alterno nel corso della giornata. La mattina, di solito, è prevalentemente dedicata al lavoro per l’Italia, per via del fuso orario. Poi all’università seguo riunioni per i progetti in corso, svolgo attività di ricerca, preparo documenti e leggo report e paper accademici. In questo semestre sono anche in classe per tre corsi: insegno agli studenti (nei corsi di laurea di base e nei corsi di Master) e svolgo tutte le attività didattiche collegate.
Una parte importante della mia giornata è dedicata alla gestione delle relazioni, attraverso l’utilizzo della posta elettronica e la condivisione delle attività con i co-autori delle ricerche e dei progetti che sto seguendo. Condividere e confrontarsi con gli altri è davvero importante per ciò che faccio, perciò dedico tempo quotidianamente a questo genere di attività.

Dall’esordio della pandemia le conferenze in presenza sono diminuite in numero, quindi viaggio meno che in passato. Questa evoluzione, a mio avviso, ha avuto l’effetto di aggiustare il tiro: pur essendo utile instaurare dei rapporti personali, sacrificare molto tempo per viaggiare può essere controproducente. Fino a qualche anno fa non c’era alternativa alla presenza fisica a una conferenza, mentre oggi la tecnologia ci ha offerto altre opzioni. Non è certo la stessa cosa, perché interagire personalmente è più efficace, ma anche i costi possono essere ridotti di molto.

Quali esperienze hanno contribuito di più a condurla dove è ora?

Ci sono stati vari fattori che mi hanno portato a svolgere l’attività che faccio oggi. Anzitutto, ho avuto bravi maestri in tutto il mio percorso, a partire dalle elementari, tanto che per esempio ricordo ancora molto bene la mia maestra. Credo che la scuola abbia un ruolo significativo, non solo nei gradi più avanzati ma lungo tutto il percorso. All’università, poi, ho avuto l’onore di avere come mio coordinatore Mario Monti, una persona straordinaria e ispiratore per la mia carriera. Di certo una figura che lascia il segno, come è accaduto anche nel caso del premio Nobel Angus Deaton, mio advisor ai tempi di Princeton.

Sono stata fortunata a lavorare e a ricevere insegnamenti da persone di grande spessore. Il mio modo di pensare ne è stato condizionato, perché ho lavorato in prima persona con chi ha inventato le teorie che ho studiato: tutta un’altra cosa rispetto al sentirsela raccontare da altri. Insomma, penso che il vero valore aggiunto delle mie esperienze di formazione siano stati proprio i mentori con cui ho interagito e condiviso molte attività.

Quali capacità, professionali e non, occorre possedere per riuscire ad affermarsi?

Serve scegliere il proprio percorso, fare qualcosa in cui si crede, che interessa profondamente. Insomma: la passione, ciò che dà la forza di impegnarsi a fondo. Ritengo sia importante anche il background, non solo per quanto riguarda il percorso formativo ma anche dal punto di vista umano e valoriale. Per questo devo molto alla mia famiglia, perché mi ha trasmesso valori basilari quali l’impegno e la serietà nel lavoro e non posso pensare alla mia vita senza ricordare il sostegno ricevuto dalle mie sorelle, che mi hanno dato modo di lavorare all’estero, di concentrarmi sulla mia carriera e di renderla possibile.

Come spiega questa sua passione per la finanza e per l’economia?

Sono poche le donne in Italia che come me si occupano di economia e finanza. Ma a casa mia era abitudine, persino in cucina o a tavola, parlare di soldi e di finanza. Ho notato questo tipo di esperienza anche nel passato di molti altri esponenti di spicco della finanza, quindi, come dicevo prima, credo che conti molto la scuola ma anche la famiglia, specialmente se affronta quotidianamente, e senza tabù, argomenti come quelli finanziari. Per capire il mondo intorno a noi occorre comprendere l’economia e sapere i concetti base della finanza personale, che è diventata importante per ognuno di noi, per esempio perché dobbiamo occuparci della nostra pensione. Se si sbagliano decisioni finanziarie si rischia di condizionare in peggio l’intera vita.

Cosa ha imparato sul campo, svolgendo l’attività di insegnamento?

Ho imparato che c’è sempre tanto di nuovo da conoscere e apprendere: ho avuto l’opportunità di rapportarmi con studenti veramente bravi, lavorando in uno degli otto college “dell’edera”, a Dartmouth, una realtà piccola che mi ha dato molte opportunità e mi ha preparato per l’attuale esperienza alla George Washington University. Non si impara solo dai professori senior, ma anche dai giovani, da persone meno esperte di noi che hanno talento e inventiva. Lì ho compreso quanto occorra essere capaci di adattarsi, facendo fronte a situazioni impreviste con poco tempo a disposizione e la necessità di trovare soluzioni efficaci. E ancora, le tantissime ore passate al lavoro hanno sicuramente avuto un effetto formativo, perché mi hanno permesso di interessarmi e di conoscere argomenti che nel corso della mia carriera lavorativa si sono poi dimostrati molto utili.

Oltre alle tante ore lavorate, cosa occorre per realizzare un percorso come il suo?

In particolare nella ricerca, credo occorra persistenza: chiudere gli occhi davanti alle difficoltà e pensare di poterle superare senza abbattersi. Magari molti pensano che il mio percorso sia stato semplice, invece non è così. Per esempio, sono stati rifiutati più volte i miei lavori che avrei voluto pubblicare, non sono riuscita a concludere progetti e mi sono trovata più volte nelle condizioni di dovere ricominciare da capo. Insomma, il mio percorso ha comportato fatica e impegno. È importante sapere che è la persistenza che porta al successo e ai risultati: lo ricordo spesso ai miei collaboratori, facendo loro notare che si può anche cadere, anzi si cade spesso, ma soltanto così si impara ad andare oltre gli ostacoli. Ho avuto il coraggio di intraprendere questa sfida, pur sapendo di entrare in un settore molto competitivo: di questo non ho mai avuto paura perché avevo frequentato scuole di eccellenza che, oltre a formarmi, mi hanno trasmesso sicurezza e determinazione. Occorre usare bene i propri talenti, e credo che soprattutto le donne dovrebbero fare proprio questo messaggio.

Quali sono i princìpi della finanza personale?

Con financial literacy si intende un insieme di conoscenze utili per gestire al meglio la propria vita finanziaria. Il punto di partenza è che per potere prendere decisioni e consapevoli servono competenze di base sui principi fondamentali dell’economia e della finanza. Contrariamente alla finanza d’impresa, la finanza personale riguarda i nostri soldi, quelli che otteniamo lavorando e che dobbiamo cercare di investire al meglio. Anche in questo ambito esistono concetti scientifici che è utile sapere per compiere le scelte giuste. Il rigore nelle scelte finanziarie è importante anche quando si guarda a un piccolo patrimonio personale, non soltanto quando si investono grandi somme di denaro. E non si tratta solo di investimenti in borsa, ma anche di aspetti come la scelta del conto bancario, la decisione su quanto risparmiare, come proteggere la propria ricchezza, come gestire il passaggio dei valori alle prossime generazioni, quanto investire nella propria educazione.

LE PROFESSIONI

Chi opera nell’ambito della ricerca e dell’educazione finanziaria a livello internazionale collabora con altri docenti universitari e persone che fanno ricerca in vario ambito; inoltre, si interfaccia con vari policy maker e, in particolare, con personale bancario, del mondo dell’imprenditoria e della Commissione europea.

Immagine di copertina per gentile concessione di Marica Signorello

Laureata in Chimica e Tecnologia farmaceutiche all'Università degli Studi di Milano, dopo una breve esperienza in campo farmaceutico nel controllo qualità, dal 2013 lavora nell’ambito della distribuzione di materie prime cosmetiche. Attualmente in Cometech, ricopre il ruolo di tecnico commerciale, con il compito di effettuare business development; mantenere il rapporto con la clientela assegnata ed acquisita, attraverso un elevato livello di servizio e un’alta attenzione alla relazione; gestire i clienti in essere con relazioni sistematiche, costruttive ed efficaci; produzione di reportistica periodica sulle azioni intraprese, sull’evoluzione del mercato di riferimento, su eventuali nuove opportunità commerciali.

INDICE

  • Il suo è un lavoro particolare, che in pochi conoscono. Può raccontarci di che si tratta?
  • Quale è stato il suo percorso formativo? Ha una laurea in chimica farmaceutica: durante gli studi immaginava che avrebbe lavorato in un’azienda di cosmetici?
  • Quanto è utile la formazione in chimica per il suo lavoro attuale?
  • Quali sono le attitudini richieste dal suo lavoro, doti che ha scoperto di avere o che ha via via sviluppato?
  • Lei si occupa anche di divulgazione scientifica e ha un seguito non indifferente…
  • C’è un messaggio particolare che vuole dare a chi legge queste righe?

Il suo è un lavoro particolare, che in pochi conoscono. Può raccontarci di che si tratta?

Lavoro in un’azienda che distribuisce materie prime cosmetiche, vale a dire tutti quegli ingredienti che si leggono sulle etichette di prodotti come trucchi, detergenti, prodotti per capelli, per l’igiene orale ecc. In generale, tutto quello che non è un farmaco e non è cibo, e che in Italia viene realizzato da aziende con un proprio marchio o aziende terziste, che lavorano cioè per conto di aziende straniere. Io lavoro principalmente con i terzisti, perché i marchi italiani sono pochi.

Vendo materie prime e sono distributrice, nel senso che non ho a mia volta una produzione alle spalle. Le materie prime che vendo sono quelle che i produttori decidono di affidarci o che troviamo sul mercato. Ci si potrebbe chiedere perché un’azienda di prodotti finiti non vada direttamente a comprare gli ingredienti da chi li produce ma si rivolga a noi distributori, visto che per il nostro lavoro aggiungiamo un ricarico sul prezzo. Le ragioni sono diverse. Innanzitutto il distributore si occupa di seguire le quotazioni degli ingredienti e di prendere i contatti con i produttori, poi si occupa della logistica, organizza le spedizioni e sbriga tutte le pratiche amministrative e doganali, tenuto conto che spesso le materie prime arrivano dall’estero. Per le aziende che realizzano il cosmetico è più comodo affidarsi a un distributore piuttosto che seguire in autonomia tutti questi passaggi. Il distributore può anche fare da magazzino per l’azienda produttrice, comprando grandi quantità di ingredienti per risparmiare sulle spedizioni e rifornendo l’azienda via via che questa ne ha bisogno. Il distributore, infine, conosce la situazione del mercato nel Paese in cui opera e di solito fa anche da agente commerciale per i produttori di materie prime, perché sa a chi proporre gli ingredienti e conosce la concorrenza. Per questo motivo le aziende che producono materie prime spesso affidano i loro ingredienti in esclusiva a un distributore e non vendono direttamente a chi realizza il prodotto finito.

Quale è stato il suo percorso formativo? Ha una laurea in chimica farmaceutica: durante gli studi immaginava che avrebbe lavorato in un’azienda di cosmetici?

Mi sarebbe piaciuto molto lavorare in ambito farmaceutico, la mia ambizione era trovare il vaccino contro il virus che provoca l’Aids. Ma una volta uscita dall’università mi sono scontrata con una realtà difficile. Per laurearmi ho impiegato un anno e mezzo in più dei cinque previsti e per questo ero preoccupata, avevo paura di essere in ritardo. Ho iniziato a mandare curriculum alle aziende ancora prima di finire l’università e ho continuato per i due anni successivi. Ho capito subito che la ricerca non era la mia strada, avrebbe significato ritardare l’indipendenza economica che invece era uno dei miei obiettivi. A un certo punto ho trovato lavoro nel settore del controllo qualità. Questo voleva dire restare nel mondo del farmaco ma seguire solo una piccola parte della filiera produttiva. Inoltre era un lavoro troppo routinario e non faceva per me, quindi ho deciso di guardarmi ancora intorno. Avendo fatto l’esame di stato da farmacista, sapevo di avere una rete di protezione su cui ancora oggi posso contare: in qualsiasi momento potrei trovare lavoro in una farmacia. Cercavo però qualcosa che avesse direttamente a che fare con la chimica. Mandavo curriculum a tappeto, anche se non avevo sempre le caratteristiche richieste dall’offerta o se il lavoro non corrispondeva del tutto alle mie esigenze. Non avevo niente da perdere, facevo un lavoro che non mi piaceva più e avevo capito che volevo cambiare. A un certo punto ho trovato un’occasione come tecnico commerciale in ambito cosmetico. Mi sono detta: perché no? e mi sono presentata al colloquio.

Quanto è utile la formazione in chimica per il suo lavoro attuale?

Le materie prime che tratto sono ingredienti che andranno a costituire un prodotto finito e quindi hanno naturalmente a che fare con la chimica. Magari non è importante conoscere la trasposizione pinacolinica dei dioli vicinali o sapere come si fanno le sintesi delle eterociclica, per fare due esempi molto lontani dal quotidiano, ma avere le basi della materia mi permette di dialogare facilmente con i clienti: nelle aziende dove vado a presentare gli ingredienti mi trovo di fronte a tecnici di laboratorio che hanno almeno un diploma da perito chimico, per cui sapere che cos’è il pH, come si calcola, che cosa vuol dire essere solubile in acqua o in olio, che cos’è un’analisi qualitativo-quantitativa mi aiuta molto.
È utile anche per diventare referente dell’azienda rispetto ai clienti, che sanno di avere qualcuno su cui contare. Se per esempio un’azienda che produce saponi vuole capire come mai un certo ingrediente che compra da te provoca un’alterazione del colore, conoscendo la chimica puoi capire qual è il problema e magari risolverlo senza scomodare chi produce quell’ingrediente. In questo modo risparmi tempo e diventi un valore aggiunto per l’azienda. È anche molto più divertente, perché non ti limiti a proporre un catalogo ma puoi confrontarti su tanti aspetti.

Quali sono le attitudini richieste dal suo lavoro, doti che ha scoperto di avere o che ha via via sviluppato?

La dote principale è senz’altro la capacità di interagire con gli altri. Bisogna fare amicizia anche con i muri, per così dire. Devi avere voglia di parlare con tante persone diverse che hanno funzioni diverse ed essere sempre un punto di riferimento, perché queste persone fanno affidamento su di te. Per questo motivo devi prima di tutto prepararti, sapere che cosa dire. Non basta conoscere il prodotto che stai vendendo. Occorre individuare le proprie lacune e ogni giorno cercare di colmarle ripassando o studiando da zero. Serve poi mantenere una visione complessiva, non basta sapere se una certa materia prima si scioglie o meno in acqua, che colore assume o quanto costa al kilogrammo, bisogna sapere come si colloca nel panorama del settore, quali sono le regole che la riguardano, quali sono i marchi che la usano, o che magari non la usano più e perché. Non bisogna focalizzarsi su un aspetto, ma avere voglia di studiare tutto per fornire una consulenza il più completa possibile. Ci vuole infine una certa flessibilità nell’organizzazione della propria giornata. Il lavoro è molto vario e richiede a volte di trascorrere più tempo in ufficio, altre volte fuori ufficio o in trasferta per la visita alle aziende.

Lei si occupa anche di divulgazione scientifica e ha un seguito non indifferente…

Quella che faccio io non è divulgazione in senso stretto. Conosco alcune cose e ne parlo per il piacere di condividerle con chi potrebbe essere interessato. Cerco più che altro di far conoscere i diversi aspetti del mio lavoro, un lavoro che si svolge dietro le quinte e di cui molti ignorano l’esistenza. Mi diverto a smontare convinzioni, a sfatare certi miti che riguardano la cosmetica. Le persone si stupiscono di scoprire che l’ombretto non si ricompatta con l’alcol, che il bagnoschiuma non si allunga con l’acqua, che c’è una differenza sostanziale tra bagnoschiuma e bagnodoccia, e così via.
Ma faccio informazione anche perché voglio proteggere il mio lavoro, che sta diventando via via più difficile. Negli ultimi anni è cresciuto l’interesse per la cosmetica ed è cresciuta di pari passo l’informazione in proposito. Spesso però si tratta di informazione distorta, se non proprio sbagliata. Certe materie prime sono finite in una specie di lista nera per via di una cattiva fama totalmente immeritata e le aziende si trovano in difficoltà ad utilizzarle nei loro prodotti, perché i clienti non le vogliono. Ogni anno sono sempre di più quelle che non si riescono a vendere, magari a causa di una stroncatura su Internet da parte dell’influencer di turno. Pensare che i parabeni provochino tumori, o che la paraffina non vada usata perché è un petrolato sono convinzioni senza un vero fondamento scientifico: se faccio divulgazione è anche per mettere in guardia dalla deriva che sta prendendo l’informazione in ambito cosmetico. Il lato positivo è che la presenza sui social mi permette di avere il polso della situazione: spesso riesco ad anticipare le preoccupazioni dei miei clienti perché conosco le discussioni tra gli utenti finali e le aziende mi chiedono consigli sulla comunicazione.

C’è un messaggio particolare che vuole dare a chi legge queste righe?

Il consiglio che mi sento di dare è di non avere fretta. È bene prendersi tutto il tempo che serve e soprattutto essere consapevoli che nulla è irreversibile. Se a un certo punto del percorso ti rendi conto che qualcosa non va, devi avere la lucidità di capirlo e provare ad aggiustare il tiro. Anche perché non c’è nessun percorso di studio, nessuna accademia, nessun master che ti prepara davvero alla vita lavorativa. Mi ricordo la mia prima esperienza nel laboratorio di controllo qualità: quando sono entrata ero ferratissima sulla teoria, conoscevo perfettamente gli strumenti che avevo intorno e sapevo come funzionavano, ma non ero minimamente pronta a quello che mi veniva chiesto dal punto di vista del lavoro. Il lavoro si impara lavorando.

Immagine di copertina per gentile concessione di Stefano Sotgia

Stefano Sotgia, di formazione veterinario, lavora per l’Unione Europea da 20 anni, prima come controllore nell’ambito della sicurezza alimentare e oggi come vice capo sezione cooperazione  in una delegazione dell’Unione Europea in Africa.

“Negli anni ho sempre amato molto il mio lavoro perché mi dava modo di soddisfare la mia curiosità, di viaggiare e impegnarmi in attività che mi divertivano e soprattutto che mi impegnavano in qualcosa in cui credevo”.

INDICE

  • Che cosa significa lavorare per l’Unione europea nel mondo della cooperazione allo sviluppo?
  • Come si svolge, per esempio, una sua “giornata tipo”?
  • Quali sono le maggiori difficoltà nel fare il suo lavoro?
  • Che cosa ha imparato studiando e che cosa sul campo?
  • Il suo percorso è iniziato come veterinario...
  • E oggi qual è il percorso più indicato per fare il suo lavoro?
  • SCIENZA IN PRATICA – Ci racconta un progetto a cui ha partecipato?
  • LE PROFESSIONI

Che cosa significa lavorare per l’Unione europea nel mondo della cooperazione allo sviluppo?

Significa sostanzialmente gestire i fondi che un’istituzione come l’Unione europea stanzia per progetti di sviluppo e assistenza in una serie di settori in un dato Paese. Io coordino il lavoro del mio team, dove ci sono professionisti che gestiscono le varie fasi dei progetti in collaborazione con gli enti locali del paese dove ci troviamo a operare: dall’ideazione del progetto alla sua messa in opera. C’è la fase di stesura del progetto, le fasi di correzione, poi il progetto deve essere presentato a Bruxelles: un iter burocratico che può durare anche mesi, fino ad arrivare alla proposta di contratto vera e propria. Quando questo è firmato, il mio compito è controllare che il lavoro giornaliero venga eseguito secondo il cronoprogramma e che tutti i pagamenti siano in regola.

Come si svolge, per esempio, una sua “giornata tipo”?

Quasi tutta la mia giornata avviene in ufficio, nella nostra sede ma anche presso un ministero o presso una sede delle organizzazioni locali o internazionali con cui ci troviamo a collaborare. Prevede una parte di studio e di negoziazione su progetti da sviluppare con le controparti locali, e non è sempre facile perché si tratta di imparare a dialogare con le persone, spesso di culture e con consuetudini molto diverse dalla nostra.

Quali sono le maggiori difficoltà nel fare il suo lavoro?

Bisogna ammettere che talvolta il lavoro del cooperante può essere frustrante. Ci sono dei Paesi dove la volontà politica da parte delle istituzioni locali a collaborare con enti sovranazionali è molto forte e si mettono in piedi dei progetti importanti insieme, mentre altre volte è più difficile dialogare con la politica, negoziare con agilità le priorità su cui lavorare.

Che cosa ha imparato studiando e che cosa sul campo?

Nel mio percorso di studi ho imparato i regolamenti internazionali e le procedure che devono essere seguite per realizzare un progetto. Sul campo ho imparato come parlare con la gente e affrontare qualsiasi tema, che è la capacità fondamentale per fare il mio lavoro. Le competenze tecniche si possono imparare anche in poco tempo, volendo, ma porsi di fronte agli altri nel modo corretto ed efficace è la vera sfida, e non viene purtroppo quasi mai insegnata nei percorsi accademici. È importante invece capire che cosa non sai di fronte all’altro, a non porti con deferenza ma nemmeno con prepotenza. Bisogna avere l’atteggiamento di una persona che sa che può imparare sempre. È fondamentale, altrimenti non puoi fare bene questo lavoro.

Il suo percorso è iniziato come veterinario...

Sì, studiare medicina veterinaria era il mio sogno di bambino. Io sono nato fra le montagne della Sardegna e sono cresciuto nelle campagne Umbre, dove i miei genitori facevano i pastori. Avevo uno zio che faceva il veterinario e questo mestiere mi ha sempre affascinato. Quindi, dopo il liceo classico mi sono iscritto a Veterinaria e mi sono laureato. Al tempo – siamo a metà degli anni Ottanta – era obbligatorio il periodo di servizio militare, ma io scelsi il servizio civile, che mi portò in Mali. Era la prima volta che mi trovavo in Africa, e lavoravo a un progetto che comprendeva una parte veterinaria. Rientrato in Italia sono stato per qualche tempo all’istituto Zooprofilattico occupandomi di allevamento e produzione animale, poi un po’ all’università, per poi ha vincere un concorso come ispettore veterinario all’Unione Europea. Un ispettore veterinario, che in inglese si chiama auditor come si dice ora, in pratica viaggia tantissimo. Ho viaggiato in Paesi di cui non avevo mai sentito i nomi prima. Si fanno ispezioni nei Paesi membri. Le ispezioni nei paesi membri servono per controllare che gli Stati applichino correttamente le regole dell’Unione europea, mentre i controlli nei paesi non UE servono per garantire che i prodotti animali, o anche gli animali vivi, che entrano in UE abbiano seguito controlli paragonabili ai nostri. Questo è stato il mio lavoro per i primi 13 anni in UE fino al 2013. Poi ho chiesto di passare alle relazioni estere e ho lavorato prima in Africa Occidentale poi in Maghreb e ora in africa Orientale. Il nostro lavoro prevede che lavoriamo in un Paese per massimo 5 anni.

E oggi qual è il percorso più indicato per fare il suo lavoro?

Oggi alcune cose sono cambiate, ma rimane il fatto che si può arrivare in diversi modi a lavorare per un’organizzazione come l’Unione Europea. Uno dei percorsi è applicare per una serie di posti messi a bando ogni anno per i neolaureati o gli studenti (si chiama Bluebook) che permette di fare uno stage di formazione di 5-6 mesi dentro l’istituzione e iniziare a formarsi e a farsi dei contatti. È possibile applicare sia per Bruxelles sia per le delegazioni all’estero. Una volta concluso un periodo di stage si può candidarsi come junior expert e iniziare un percorso all’interno dell’istituzione per arrivare negli anni e non senza fatica a diventare amministratore. Per cominciare possono essere molto utili le lauree in discipline legali, economiche, scienze politiche e amministrative. Ma soprattutto secondo la mia esperienza è importante per una persona che ambisce a lavorare in un’organizzazione come la nostra, aver chiaro che cosa significa amministrare la cosa pubblica, che responsabilità comporta, e questo non è scontato purtroppo. Serve una solida formazione di base sul diritto e l’amministrazione, e sulle dinamiche della vita pubblica. Credo che dovrebbero essere formazioni obbligatorie per chi sceglie questa strada.

Le lingue sono fondamentali, non solo l’inglese. Mi chiedo spesso perché non sia altrettanto comune per un ragazzo oggi studiare l’arabo o il russo, oltre a francese e spagnolo, che sono ancora fra le lingue più parlate al mondo. Ma al di là di questi aspetti tecnici, io penso che per un giovane sia importante non arrivare a lavorare in una realtà come l’Unione europea o le Nazioni unite per una scelta a priori. Serve prima un percorso più ampio in se stessi, per chiarirsi le idee su quali sono le nostre priorità e gli ambiti della gestione della vita pubblica su cui più ci preme impegnarci.

SCIENZA IN PRATICA

Ci racconta un progetto a cui ha partecipato?

Proprio negli ultimi mesi ho concluso quello che forse è il lavoro più di valore a cui sento di aver contribuito negli ultimi 35 anni: un progetto, ora finito, di elettrificazione rurale, per portare l’elettricità in villaggi che ne erano ancora sprovvisti. Si è trattato di un progetto semplice e fattibile e soprattutto a impatto immediato, con la produzione di due piccole stazioni di produzione di energia rinnovabile con pannelli solari, che oggi arriva a 40 mila persone. Queste sono le cose che ripagano di mesi di fatiche e di negoziazioni non sempre facili con le realtà locali.

LE PROFESSIONI

Chi si occupa di cooperazione internazionale per l’Unione europea ha a che fare con le istituzioni locali, politiche e amministrative, dei Paesi in cui si coopera, e con le ambasciate. Inoltre, si interfaccia con le realtà che operano nei vari Paesi, come i servizi locali e quelli privati. A livello internazionale, si collabora con uffici delle Nazioni unite (UN), con le organizzazioni non governative (NGOs) e con il mondo accademico locale e internazionale.

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