Immagine di copertina per gentile concessione di Elena De Cia
Elena De Cia è una delle figure dietro ai successi dei piloti in MotoGP. Matematica di formazione, si occupa dell’analisi e della gestione delle strategie per migliorare le performance delle motociclette nel Campionato del Mondo. Per lei e il suo team ogni manovra si trasforma in numeri: il suo lavoro consiste nel sapere interpretare ogni mossa, studiando strategie per aumentare le prestazioni della moto e supportando i piloti nell’avere a disposizione un mezzo sempre più rispondente alle loro necessità.
INDICE
- ►Videointervista
- ►Potrebbe descrivere in che cosa consiste il suo lavoro?
- ►Come è arrivata a questo lavoro?
- ►Anche le figure professionali con lauree diverse da ingegneria sono richieste nel suo settore?
- ►Quanto, nello svolgimento del suo lavoro, la supportano gli studi svolti e quanto ha acquisito gli strumenti necessari durante la pratica professionale?
- ►Quali sono le competenze che ritiene necessarie?
- ►Qual è il lato più appassionante del suo lavoro? A chi lo consiglierebbe?
- ►Qual è la routine nel suo lavoro? C’è una ciclicità?
- ►Quale percorso consiglierebbe per fare il suo lavoro?
- ►SCIENZA IN PRATICA – Quello che la matematica ci dice
- ►LE PROFESSIONI – Lavorare nel mondo delle corse motociclistiche
PER APPROFONDIRE
Videointervista
Il suo è un lavoro molto particolare: siamo abituati a vedere il suo mondo solo tramite i media, durante le gare di MotoGP. Potrebbe descrivere in che cosa consiste il suo lavoro?
Sono la responsabile delle strategie e metodi in Aprilia Racing, il ramo dell’azienda dedicato alle gare e al motorsport, in particolare il MotoGP. Mi occupo di analisi dati, definizione e ottimizzazione delle strategie per migliorare la performance della motocicletta durante le gare; si tratta, in particolare, di gestire e regolare il motore a seconda delle richieste del pilota, tra cui, per esempio, avere più forza frenante, ridurre la coppia per non impennare, avere un maggiore controllo della moto nell’uscita di curva ecc. In generale, cerco di massimizzare le performance analizzando i dati scaricati dalla moto dopo ogni uscita di pista. Il primo obiettivo del mio team è verificare il corretto funzionamento della motocicletta e, in secondo luogo, definire i nuovi strumenti da trasmettere a ingegneri e meccanici per ottimizzare al meglio le prestazioni del pilota.
Come è arrivata a questo lavoro? Era un sogno che coltivava da anni?
Fin dalla scuola elementare sognavo di fare l’insegnante di matematica, ho quindi seguito un percorso scientifico. Mi sono iscritta al liceo scientifico PNI [Piano Nazionale Informatica, NdR], sperimentale, e successivamente all’Università di Matematica a Padova. Non avevo dubbi su questa strada, tant’è che come indirizzo del terzo anno avevo scelto il percorso di didattica. Contemporaneamente, durante gli studi avevo scoperto il campo della matematica applicata e mi ero incuriosita a un percorso di tipo modellistico-applicativo, che ho poi approfondito nei due anni di Università magistrale. Erano studi dovuti a puro interesse, senza una prospettiva lavorativa: ero affascinata dall’idea di vedere la matematica applicata alla realtà e come tanti fenomeni potessero essere modellizzati grazie ai suoi strumenti.
Al rientro dall’Erasmus in Spagna mi capitò di vedere gli annunci di un’azienda di moto che cercava un tesista. Io sono da sempre un’appassionata motociclista: benché l’idea mi allettasse, ero frenata, convinta che ci fossero troppe richieste e che io non sarei stata presa in considerazione. Nei giorni seguenti gli annunci non erano ancora stati tolti: presi coraggio e mi candidai. Inaspettatamente fui scelta e così feci la tesi in Aprilia. Pensavo che fosse una bella esperienza ma destinata a finire: in realtà dopo la laurea sono rimasta in azienda, dove ho lavorato per diversi anni. Successivamente è arrivato il lavoro in pista, a contatto con la parte più attiva, quella del racing. Sono poi passata in un altro team, di un’azienda giapponese: è stata un’esperienza che mi ha profondamente cambiato. Ho imparato a lavorare con un metodo totalmente diverso. Successivamente sono tornata in Aprilia Racing come responsabile del reparto di strategia e metodi di analisi dati, la posizione che attualmente ricopro in azienda.
Anche le figure professionali con lauree diverse da ingegneria sono richieste nel suo settore? Le aziende sono in cerca di persone con competenze più teoriche?
Assolutamente sì. Spesso gli ingegneri (informatici, meccanici, elettronici) sono dotati di più conoscenze tecniche, mentre noi matematici e informatici siamo più astratti: nell’affrontare un problema confrontiamo i nostri diversi tipi di mentalità. Vediamo il problema sotto un’ottica differente: spesso la soluzione deriva dall’andare oltre al modo di pensare di entrambi, è un’unione delle due visioni. Matematici, fisici, informatici hanno una formazione che li ha preparati a imparare; le conoscenze si possono sempre acquisire ma lo spirito di apprendimento, di astrazione, il saper sezionare un problema per guardarlo sotto forme diverse è proprio di chi è più teorico. Cerchiamo di creare strumenti per visualizzare l’informazione in maniera concreta ma semplice da interpretare.
Quanto, nello svolgimento del suo lavoro, la supportano gli studi svolti e quanto ha acquisito gli strumenti necessari durante la pratica professionale?
Direi che siamo a un 50%: aver fatto un percorso nella matematica mi ha forzato a essere precisa, attenta, analitica. Cerco, quindi, di capire quale, tra gli strumenti che ho visto nel mio percorso di studio, posso sfruttare nel concreto. È una competenza che ho sviluppato proprio studiando. Ovviamente, un ambiente reale necessita di astrazioni, perché la realtà è imperfetta, non permette l’applicazione ideale del teorema. In matematica pura il contesto è perfetto: il dato, la regione, la misurazione ecc. La realtà non è così, è fatta di errori e di non ripetibilità degli eventi: nella pratica non sfrutto perfettamente il teorema, ma quotidianamente mi ritrovo a usare tante conoscenze di base (derivate, massimi, minimi, media aritmetica, deviazione standard). L’università mi ha insegnato a essere flessibile nel cogliere e nell’applicare gli strumenti: è un altro modo di vedere la matematica.
Quali sono le competenze che ritiene necessarie?
Il fatto di saper lavorare in gruppo è una competenza che non viene insegnata all’università ma è una caratteristica imprescindibile per questo lavoro. La velocità è un altro requisito fondamentale: bisogna saper prendere decisioni in fretta, cambiare strategie, essere efficaci ed efficienti. Non c’è il tempo di pensare alla soluzione perfetta, l’obiettivo è fare l’ottimo nel minor tempo.
Qual è il lato più appassionante del suo lavoro? A chi lo consiglierebbe?
È un ambiente multiculturale e mi piace lavorare con persone di nazionalità diverse. Nel mio lavoro sono circondata da persone che parlano tante lingue, che hanno tanti modi di ragionare: sono stimolata dal farmi capire dagli altri e sono riuscita a vincere la mia timidezza. È un lavoro che consiglio a chi è in cerca di motivazioni ed è disposto a cambiare spesso e a scostarsi dalla propria mentalità: è necessario essere obiettivi e aperti alla discussione con gli altri. Lo consiglio anche a chi ama cercare per se stesso: per migliorarsi e reinventarsi.
Qual è la routine nel suo lavoro? C’è una ciclicità?
Durante l’inverno lavoriamo in azienda, nella sede vicino a Venezia, per sviluppare tutte le novità da applicare alla moto. Sono settimane lavorative standard, in cui svolgo un lavoro di ufficio. La stagione del Campionato del Mondo parte verso fine gennaio: da gennaio a novembre, a settimane alterne, viaggiamo in tutto il mondo e abbiamo una routine abbastanza costante. I primi due giorni della settimana sono dedicati a riunioni di preparazione, dopodiché partiamo, generalmente il mercoledì, per raggiungere il luogo della gara. Il giovedì facciamo tutti i setup e i setting della moto, venerdì e sabato sono giornate di prove libere e qualifiche e, infine, la domenica c’è la competizione, che è la conclusione di tutto il lavoro. È il momento in cui mi posso rilassare e godere la gara: dato che durante la gara non c’è uno scambio di dati con le moto in tempo reale, quando il pilota parte è il momento in cui posso staccare. Subito dopo la gara ci sono le riunioni con i piloti per avere i loro feedback. In poco tempo, la sera stessa o la mattina dopo, siamo già di ritorno verso casa. Dal martedì si riparte con la settimana in sede, fatta principalmente di riunioni di allineamento. Da gennaio a novembre quindi viaggio una settimana sì e una no.
Quale percorso consiglierebbe per fare il suo lavoro?
Il matematico è una figura ancora nuova nella realtà aziendale. Spesso mi chiedono come fare: consiglio di essere liberi di scegliere il percorso in cui ci si sente più a proprio agio. E poi, cercare, provare, chiedere, mandare curriculum: sempre di più le aziende cercano figure eterogenee e non troppo specializzate. Mi capita di fare colloqui con persone candidate a posizioni lavorative nella mia azienda: consiglio di essere onesti su ciò che si sa veramente fare e sulle proprie competenze. Quello che è importante non è la formazione perfetta ma l’attitudine all’apprendimento, tenersi al passo: gli strumenti cambiano e bisogna sapere tenersi aggiornati costantemente. Il livello di conoscenza non arriva mai a un punto finale, ma è un percorso in continua crescita.
SCIENZA IN PRATICA
Quello che la matematica ci dice
Quando si acquisiscono i dati, dai sensori posizionati sulla motocicletta arrivano centinaia e centinaia di “canali”, simili a vettori matematici e serie di numeri. Per esempio, il sensore della velocità, sulla ruota posteriore, fornisce dati campionati ad alta frequenza, fino a 1 kHz, e trasmette informazioni di dettaglio ogni millisecondo. Contando che un solo giro di pista può durare anche un minuto e mezzo, si capisce che sono una quantità enorme di dati. Non possiamo analizzarli tutti: occorre avere strumenti di lettura. La matematica ci aiuta in questo: creiamo degli indici e delle funzioni che permettono di capire e semplificare quello che è successo. Per esempio, per vedere qual è stata la velocità massima, devo cercare la funzione massima; invece, per la velocità media dobbiamo utilizzare una funzione diversa. Per capire la quantità di benzina utilizzata, utilizziamo un integrale che approssimi quanta benzina è stata assorbita ogni secondo. Gli integrali ci aiutano tantissimo, anche per capire l’importanza dei problemi che abbiamo di fronte. Usiamo spesso anche le derivate: se un sensore che misura quanto si alza e si abbassa la sospensione di una ruota fornisce valori alti di derivate, sappiamo che la motocicletta si sta impennando molto velocemente o sta ruotando.
Tutto ciò che afferisce alla statistica è fondamentale: non solo la media, ma capire quanto “rumoroso” è un segnale, e se può costituire una soglia di allarme. Saper interpretare un grafico cartesiano è molto importante: è necessario saper fare approssimazioni e interpolazioni in poco tempo, quasi “a occhio”.
Il mio team costituisce l’ultimo step prima della scrittura di nuove informazioni dentro la moto: i motoristi ci forniscono le informazioni lato motore e noi scambiamo con loro i dati analizzati. Cerchiamo di trovare di concerto un parametro, più parametri, tabelle o matrici, che possano adattarsi per sistemare un eventuale problema o ampliare le possibilità della moto. Infine attraverso simulazioni, virtualizziamo e verifichiamo l’idea che ci siamo fatti dall’analisi dei dati.
LE PROFESSIONI
Lavorare nel mondo delle corse motociclistiche
Il mondo delle corse motociclistiche impiega molte figure professionali. In particolare, un team per il monitoraggio, l’analisi e la performance delle motociclette, generalmente comprende persone laureate in:
- ingegneria meccanica
- ingegneria elettronica
- ingegneria informatica
- matematica
- ingegneria gestionale
Un ruolo molto importante, inoltre, lo hanno le persone specializzate nelle operazioni meccaniche.
Per approfondire prospettive occupazionali e percorsi di studio, leggi Obiettivo: analisi dati.
Aggiornato al 21 marzo 2022
Fotografia per gentile concessione di Elena De Cia
Matematica e motori: Elena De Cia
Immagine di copertina per gentile concessione di Laura Titolo
Come sono gestiti i sistemi di sicurezza di un aereo o di un drone? Come sviluppare metodi sempre più automatizzati di volo? Il lavoro di ricerca di Laura Titolo è fornire una risposta a tutti questi quesiti. Informatica di formazione, Laura Titolo lavora da sei anni al NASA Langley Research Center, per sviluppare e implementare tecniche di analisi del software applicato ai sistemi aerospaziali.
INDICE
- ►Quando si dice NASA affiorano alla mente immagini di missioni spaziali. Di che cosa si occupa con il suo lavoro?
- ►Quello di lavorare alla NASA era un sogno nel cassetto?
- ►Qual è la sua routine lavorativa?
- ►Ha osservato approcci diversi nell’affrontare un problema da parte delle varie figure professionali?
- ►Gli studi effettuati le hanno dato una buona preparazione per lo svolgimento delle sue attività professionali?
- ►Quali sono gli aspetti più appassionanti del suo lavoro?
- ►Quali sono le difficoltà?
- ►Oltre alla preparazione scientifica, quali caratteristiche sono necessarie per svolgere il suo lavoro?
- ►Quale percorso di studi consiglierebbe per raggiungere la sua posizione lavorativa?
- ►SCIENZA IN PRATICA – Una questione di logica e derivate
- ►LE PROFESSIONI
PER APPROFONDIRE
- ►Obiettivo: analisi dati – Scopri percorsi di studio e sbocchi professionali
Quando si dice NASA affiorano alla mente immagini di missioni spaziali. Di che cosa si occupa con il suo lavoro?
Sono una ricercatrice al National Institute of Aerospace e precisamente lavoro nel campo dell’informatica applicata ai sistemi aerospaziali per il NASA Langley Research Center. La mia posizione lavorativa è quella di Research Scientist: non c’è una traduzione precisa in italiano, diciamo che posso immaginarmi come una sorta di “ricercatrice/scienziata”. Sono un’informatica e il mio campo di specializzazione è quello dei metodi formali: sono metodi, basati sulla matematica, per sviluppare tecniche rigorose di analisi e verifica del software e per garantire il suo corretto funzionamento; il ramo della NASA per cui lavoro infatti non si occupa delle missioni spaziali, ma di gestire alcuni aspetti legati alla sicurezza di un aereo o di un drone. Oltre a ciò, faccio anche ricerca su algoritmi di automazione del sistema di volo, affinché i voli di aerei e droni siano sempre più automatizzati.
Quello di lavorare alla NASA era un sogno nel cassetto?
Non era qualcosa che mi aspettavo o che sognavo di fare. Ho studiato informatica all’Università di Udine, sia alla triennale sia alla magistrale. Dopodiché ho intrapreso un dottorato di ricerca di tre anni, sempre a Udine, che prevedeva un periodo di ricerca all’estero a Valencia. Quello che desideravo era rimanere nell’ambito della ricerca: leggere articoli, risolvere problemi, fare ricerca… Dopo il dottorato sono rimasta a lavorare in Spagna, all’Università di Malaga: in quel periodo ho capito che mi sarebbe piaciuto allontanarmi dall’ambito più prettamente teorico, per avvicinarmi ad aspetti e applicazioni più concreti, con risvolti utili. Ho quindi iniziato a cercare nuove proposte di lavoro: un professore dell’università di Valencia mi accennò di questa posizione alla NASA. È stato lui a spronarmi alla candidatura, anche se avevo poche speranze e pensavo di non avere molte possibilità. Inaspettatamente sono stata selezionata e mi sono trasferita a Hampton, in Virginia, inizialmente solo per un anno, per lavorare alla NASA. Mi sono trovata molto bene e alla fine sono già sei anni che sono qui.
Qual è la sua routine lavorativa?
Il mio è un lavoro di ufficio: non vado nello spazio, come ci si immaginerebbe parlando di NASA! Non ci sono giornate standard: a volte scrivo un articolo, altre svolgo esperimenti su un software, altri giorni devo sviluppare prototipi di programmi, altri ancora mi occupo di dimostrazioni matematiche. Costantemente mi devo tenere aggiornata per andare avanti con la ricerca: leggo articoli e mi informo. A seconda del progetto su cui sto lavorando, mi confronto con colleghi diversi per sviluppare e portare avanti la ricerca: sono matematici, ingegneri aerospaziali, altri informatici. Ci aiutiamo molto a vicenda. Inoltre, organizzo e partecipo spesso a congressi in tutto il mondo che riuniscono ricercatori provenienti sia dal mondo accademico sia da quello aziendale.
Ha osservato approcci diversi nell’affrontare un problema da parte delle varie figure professionali?
È sempre un po’ una discussione: ogni persona vuole risolvere il problema in modo diverso. Gli ingegneri, per esempio, vogliono arrivare a una singola soluzione in maniera veloce, senza creare un modello generalizzato che possa essere applicato in futuro. I matematici e gli informatici cercano di trovare un pattern generico che si possa adattare a più situazioni. Oppure, i matematici sono molto più astratti di noi informatici e mi rendo conto che a entrambe le figure mancano alcune conoscenze di base: per esempio, a loro mancano le basi di teoria dell’informazione, a noi le nozioni di analisi matematica avanzata. Nel processo risolutivo avviene un completamento reciproco delle nostre conoscenze. È sempre un lavoro di squadra, andiamo nella stessa direzione con modalità diverse e la soluzione deriva dalla mediazione tra le due posizioni e dalla collaborazione reciproca.
Gli studi effettuati le hanno dato una buona preparazione per lo svolgimento delle sue attività professionali?
Assolutamente sì, costantemente applico conoscenze che derivano dagli studi: analisi numerica, analisi matematica, algebra. Nel momento in cui ci si iscrive a un corso di laurea in Informatica, non ci si aspetterebbe di studiare determinate materie. In realtà, tornano sempre utilissime nel mio lavoro, tanto che spesso mi capita di andare a ripassare gli appunti dell’università!
Ogni corso è stato utile: le conoscenze che mi servono cambiano a seconda del progetto che sto seguendo, ma ogni corso che ho seguito ha i suoi risvolti utili in quello che faccio. La facoltà di informatica mi ha dato una base di partenza molto solida: ovviamente il lavoro richiede un costante apprendimento, ed è anche il suo bello. La ricerca è in continua evoluzione e bisogna seguire i suoi aggiornamenti: l’università mi ha dato gli strumenti per capire e comprendere ogni possibile sviluppo futuro.
Quali sono gli aspetti più appassionanti del suo lavoro?
Mi piace la variabilità delle giornate: non è un lavoro ripetitivo, ogni giorno ci pone sfide diverse e la curiosità mi spinge a risolvere con passione ognuna di queste. Amo anche pensare all’impatto concreto di ciò che faccio: anche se può sembrare un lavoro teorico, staccato dalla realtà, nella lunga catena degli eventi i problemi di cui mi occupo impattano nel concreto sulla vita delle persone.
Quali sono le difficoltà?
Molte delle difficoltà sono legate alla burocrazia e alle regole della NASA. Per divulgare le nostre ricerche dobbiamo seguire un iter di approvazione e di controllo qualità molto lungo, compilare molti documenti, revisionare più volte ciò che scriviamo. Lavorando per un ente governativo abbiamo estrema visibilità e non possiamo permetterci di sbagliare: quando si utilizza il nome “NASA” si pone sempre estrema attenzione alla qualità di ogni articolo. A volte può essere un po’ frustrante: spesso devo correggere e ricorreggere le mie ricerche per adeguarmi agli standard, ma è necessario.
Oltre alla preparazione scientifica, quali caratteristiche sono necessarie per svolgere il suo lavoro?
Direi che è indispensabile essere curiosi e flessibili: avere una spiccata curiosità scientifica, spirito di ricerca, non essere legati a un determinato modo di lavorare, essere flessibili e disposti a cambiare.
Quale percorso di studi consiglierebbe per raggiungere la sua posizione lavorativa?
Sicuramente una laurea in una disciplina scientifica: matematica, informatica o ingegneria. Inoltre per lavorare alla NASA, se non si ha la cittadinanza americana, è praticamente indispensabile svolgere un dottorato di ricerca: sono molto rari i casi di persone che hanno avuto accesso solo tramite master. Il dottorato è la chiave per questo mondo: insegna a fare ricerca e permette di costruirsi una preparazione molto dettagliata su argomenti specifici, che non vengono approfonditi nei corsi universitari.
SCIENZA IN PRATICA
Una questione di logica e derivate
Quotidianamente lavoriamo con le derivate: derivate parziali e derivate totali. Servono per formulare espressioni che approssimano il comportamento di un aereo e per modellare sistemi dinamici. Le derivate ci permettono infatti di studiare come si muove l’aereo nello spazio, con che direzione, quale velocità, quali movimenti. Possiamo rispondere a domande del tipo: “Può entrare in una zona sbagliata durante il volo?”, “Può entrare in collisione con un altro aereo?” Questi quesiti sono modellizzati attraverso sistemi matematici basati, appunto, sulle derivate.
Ricorriamo spesso anche alla logica proposizionale, quella branca della logica basata su proposizioni elementari e sui connettivi logici and, or, not. Utilizziamo le proposizioni elementari per definire le proprietà di un sistema e analizzarne i meccanismi di comportamento.
La logica proposizionale è utile anche per trasformare programmi complessi e articolati in proposizioni più semplici: riassumiamo il comportamento dei programmi con espressioni logiche, analizzandolo e semplificandolo attraverso una formula che riassuma ed esemplifichi il comportamento del programma.
Nel mio lavoro, alla base di sistemi estremamente complessi è sempre possibile riconoscere idee molto semplici ed elementari.
LE PROFESSIONI
La ricerca dei controlli di sicurezza coinvolge diverse figure professionali che lavorano in squadra, tra cui persone laureate in:
- Matematica
- Informatica (generalmente con un background più teorico, molto vicino alla matematica)
- Ingegneria aerospaziale
Inoltre, collaborano anche figure che si occupano di comunicazione della ricerca, note come outreach, per la divulgazione scientifica delle ricerche tramite video, fumetti, articoli accessibili a più livelli (anche per l’infanzia), ed educators, che sviluppano piccoli concorsi, progetti o gare per studenti e studentesse, dalla scuola primaria all’università.
Per approfondire prospettive occupazionali e percorsi di studio, leggi Obiettivo: analisi dati.
Aggiornato a 21 marzo 2022
Immagine di copertina gentilmente concessa da Marcello Rambaldi
Fisico di formazione con una laurea triennale all’università di Modena e una magistrale a Pisa, dopo un dottorato alla Scuola Normale Superiore in matematica finanziaria e un’esperienza da ricercatore all’École polytechnique di Parigi, Marcello Rambaldi oggi applica le sue conoscenze scientifiche per creare modelli finanziari più efficaci per un’azienda francese. Utilizzando tecniche di intelligenza artificiale e di apprendimento automatico, lavora per prevedere le evoluzioni dei mercati in un continuo di fluttuazioni delle quotazioni che apparentemente, almeno a uno sguardo superficiale, sembra non seguire alcuna regola.
INDICE
- ►Il suo non è un lavoro comune né molto noto: anzitutto, come si svolge la sua giornata?
- ►La conoscenza delle lingue è un parametro rilevante? E quale usa di più?
- ►Qual è stata la fase che si è rivelata più importante del suo percorso di formazione?
- ►Quali sono peculiarità del suo settore lavorativo in relazione al mercato del lavoro?
- ►Quali sono le competenze più richieste nella sua quotidianità lavorativa?
- ►Che cosa la affascina dei mercati finanziari?
- ►SCIENZA IN PRATICA – Che cosa si fa, in pratica, nella finanza quantitativa?
- ►LE PROFESSIONI
PER APPROFONDIRE
- ►Obiettivo: analisi dati – Scopri percorsi di studio e sbocchi professionali
Il suo non è un lavoro comune né molto noto: anzitutto, come si svolge la sua giornata?
In concreto, il mio lavoro consiste nel seguire un certo numero di progetti collegati al mondo della finanza. La maggior parte del tempo in cui lavoro svolgo compiti simili a quelli di un ricercatore: analizzo dati, leggo letteratura scientifica, sistemo modelli, scrivo codici informatici, valuto correlazioni e cerco di risolvere problemi complessi utilizzando le informazioni a disposizione. Poi c’è una parte dell’attività quotidiana con caratteristiche più aziendali, fatta di riunioni di coordinamento, confronti tra colleghi e realizzazione pratica di quello che si è fatto durante il lavoro di ricerca.
Molto spesso si tende a identificare il mestiere del ricercatore come un lavoro individuale, ma in realtà durante la giornata ho tantissime interazioni con i colleghi e il tutto si svolge in maniera interattiva. Di frequente i compiti o i progetti che si devono portare a termine vengono gestiti in gruppo, e di conseguenza le mansioni individuali devono sempre essere inserite in un contesto più ampio di lavoro di squadra.
Lei è italiano, lavora in Francia ma si occupa di una materia in cui l’inglese è la lingua di riferimento: la conoscenza delle lingue è un parametro rilevante? E quale usa di più?
Nella mia attività lavorativa la conoscenza delle lingue è molto importante perché bisogna essere in grado di comunicare con persone provenienti da altri Paesi, oltre a essere capaci di comprendere pubblicazioni specialistiche scritte in varie lingue.
In generale, utilizzo per la maggior parte del tempo l’inglese, perché è la lingua di fatto universale e conosciuta da tutti nel settore finanziario, oltre che di uso comune in generale. Ovviamente non basta conoscere l’inglese in modo superficiale, ma è necessario riuscire a comunicare con scioltezza sia nel dialogo sia nella scrittura. Spesso uso anche l’italiano o il francese per comunicare con il gruppo di lavoro, in base alle caratteristiche specifiche delle persone con cui mi relaziono. Comunque sia, restando in Europa è necessario – e di fatto sufficiente – conoscere bene l’inglese.
Qual è stata la fase che si è rivelata più importante del suo percorso di formazione?
Probabilmente il dottorato è il momento di formazione che si è dimostrato più importante nel mio percorso di crescita. Mi ha permesso di ottenere tante competenze oggi essenziali e di imparare l’importanza del rigore scientifico, oltre a consolidare ulteriormente le basi di matematica, algebra lineare e altre discipline acquisite con la laurea. Questo tipo di nozioni non si può inventare o acquisire da zero, e la competitività del settore non ti permette di fare con calma esperienza sul campo: bisogna già essere capaci di operare in modo efficace nel momento stesso in cui si inizia a lavorare, portando risultati concreti. Nel mio caso, il dottorato mi ha permesso anche di acquisire la forma mentale necessaria per fare questo tipo di carriera lavorativa. L’attività professionale che sto portando avanti ora prevede l’utilizzo di modelli molto diversi da quelli che usavo in fisica, ma l’approccio e i metodi di utilizzo degli strumenti matematici sono ancora molto utili e mi permettono di avere fondamenta solide su cui costruire elementi nuovi.
Quali sono peculiarità del suo settore lavorativo in relazione al mercato del lavoro?
Il mercato del lavoro nell’ambito della finanza quantitativa è molto attivo e c’è grande competizione, soprattutto in questo momento storico. Ci sono anche tanti lavori simili che possono essere adatti a persone che, come me, hanno competenze come machine learning (l’apprendimento automatico) e analisi dati. Per questo le opportunità non mancano e l’esperienza nel mondo della finanza permette di acquisire una preparazione spendibile pure in altri settori che di fatto – nella loro realizzazione pratica – sono legati al mondo scientifico. Questo vale in molti filoni della tecnologia di frontiera, nell’ambito dei social network e delle reti sociali, così come in un settore forse poco chiacchierato quale quello della gestione pubblicitaria sul web e in particolare all’interno di siti e social network. In generale, molte professioni ruotano attorno alla creazione di modelli predittivi in grado di anticipare l’evoluzione del mercato e cercare di cogliere le opportunità migliori, e tra un settore e l’altro cambiano i parametri specifici ma non l’impostazione generale e l’approccio ai problemi.
Quali sono le competenze più richieste nella sua quotidianità lavorativa?
Di sicuro sono molto importanti le competenze tecniche, altrimenti non si è in grado di essere utili al gruppo di lavoro per la risoluzione dei problemi. La quasi totalità delle persone che svolgono questo lavoro ha un dottorato di ricerca e competenze tecnico-scientifiche molto specialistiche e di alto o altissimo livello. Ma serve anche altro: in particolare, le soft skills non sono trascurabili perché è importante sapere comunicare e interagire in modo non solo positivo per il lavoro, ma anche per la qualità dei rapporti umani. Poi i risultati ottenuti con la ricerca vanno presentati, e per ottenere credibilità bisogna sapere essere convincenti ed empatici, riuscendo a trasmettere l’importanza e la qualità del lavoro svolto. Si può anche essere bravissimi nella parte tecnica ma, se è complicato interagire con la persona, tutte le sue qualità vengono vanificate. Non tutto, insomma, è sapere tecnico.
Un altro aspetto troppo spesso sottovalutato è la creatività: tenersi aggiornati e avere grandi conoscenze in materia non sempre è sufficiente per ottenere buoni risultati, ma serve lo sforzo intellettivo nel cogliere gli elementi fondamentali e nel riuscire a trovare un modo, anche alternativo, per risolvere il problema.
Che cosa la affascina dei mercati finanziari?
Dal punto di vista di un fisico, o meglio di un fisico che non lavora più in fisica, è molto interessante confrontarsi con un mondo in continua evoluzione. È stimolante lavorare in un settore che non dà certezze: da un lato è molto difficile risolvere i problemi, dall’altro ci si abitua a gestire delle sfide complesse e di difficile interpretazione. Non si arriva mai a una soluzione definitiva, ma è sempre tutto in continuo mutamento e le informazioni nuove che arrivano rendono il lavoro sempre diverso. Certamente sono elementi presenti anche in altri lavori, ma nell’ambito della ricerca il fascino è particolare. Per il resto, il motore che mi ha avvicinato a questo lavoro è la curiosità: sono sempre stato appassionato di mercati finanziari e questo mi ha portato a informarmi e a essere attratto da un settore che riserva sempre sorprese.
SCIENZA IN PRATICA
Che cosa si fa, in pratica, nella finanza quantitativa?
Uno degli obiettivi che ci si pone nella finanza quantitativa è di predire il prezzo futuro di determinati oggetti finanziari, che possono essere per esempio le azioni di una società. A quel punto occorre anzitutto capire e definire quali variabili entrano in gioco e come ciascuna di queste interagisce e interferisce con la previsione che si intende fare. Tutto ciò non è così distante, come approccio, dalla modellizzazione di molti fenomeni fisici, in cui si osserva un certo comportamento e si cerca di capire come legare fra loro le variabili di interesse. Può essere la meteorologia, per esempio, o la circolazione oceanica o un comportamento su scala subatomica. Nel caso della finanza, in particolare, le variabili possono essere i rendimenti, i prezzi passati o altri strumenti e indici che sono legati al valore di ciò che si intende predire. La differenza tra la fisica e la matematica finanziaria è che in quest’ultimo caso c’è molta più libertà, in quanto come variabile si può usare potenzialmente qualsiasi cosa, a patto che funzioni e si riveli efficace per il risultato che si vuole ottenere.
Le professioni
Nella matematica finanziaria sono coinvolte persone con competenze diverse, di ambito scientifio, economico e finanziario, per esempio laureate in:
- matematica
- statista
- informatica
- tecnologia dell’informazione (it)
- economia
Inoltre, ci si interfaccia con il personale di vari enti, tra cui principalmente banche e società finanziarie.
Per approfondire prospettive occupazionali e percorsi di studio, leggi Obiettivo: analisi dati.
Aggiornato al 21 marzo 2022
Immagine di copertina per gentile concessione di Lina Salmon
Lina Salmon è laureata in ingegneria elettronica e ha ampliato con corsi ed esperienza sul campo le sue conoscenze per imparare a gestire – e far crescere - progetti e team di lavoro. Oggi lavora in qualità di business unit manager presso Tesi SpA, una grande azienda che opera a livello nazionale e internazionale fornendo servizi per ottimizzare i processi logistici per clienti di vario tipo e dimensione: aziende del mondo alimentare, della moda, della filiera agroalimentare e della grande distribuzione, per citarne alcuni. Si tratta di un lavoro complesso, in cui si intersecano competenze tecniche dell’information technology con la conoscenza dei processi coinvolti e con la capacità di gestire un gruppo di lavoro, oltre all’abilità di interfacciarsi con i clienti, ideando di volta in volta la soluzione più adeguata.
INDICE
- ►Lei fa un lavoro che forse non è molto noto, ce lo può descrivere?
- ►Dal punto di vista pratico, in che cosa consiste il suo lavoro?
- ►Di che tipo di prodotti si occupa?
- ►Che percorso di studi ha fatto per fare questo mestiere?
- ►Quali conoscenze e competenze che usa oggi nel suo lavoro derivano direttamente dagli studi di ingegneria e che cosa ha dovuto aggiungere in seguito?
- ►E per quanto riguarda le soft skill?
- ►Quali sono quegli aspetti che è bene conoscere prima di affrontare il suo lavoro, perché magari bisogna esserci “portati”?
- ►Questo per il team di lavoro. E verso i clienti?
- ►E che cos'è che la entusiasma di più nel suo lavoro?
- ►Quali sono le sfide che vede nel futuro, pensando a chi sta iniziando l'università adesso?
- ►Ci può fare un altro esempio concreto per capire in che modo l’IT migliora il processo decisionale?
- ►Quante donne fanno questo mestiere?
- ►C’è qualcosa che ha imparato nel tempo, lavorando, e che pensa sia utile sapere già prima di iniziare l’università
- ►Che cosa vuol dire lavorare secondo lei?
- ►SCIENZA IN PRATICA – Ci può fare degli esempi di applicazione dell’IT nella logistica?
- ►LE PROFESSIONI – Il team di lavoro
PER APPROFONDIRE
Lei fa un lavoro che forse non è molto noto, ce lo può descrivere?
In realtà penso che il mio ruolo sia molto diffuso, anche se sicuramente al momento ci sono poche donne che lo rivestono. È un ruolo a cavallo tra gestione di persone e gestione di progetti, a cui si aggiunge una parte di supporto alle vendite, quella che viene chiamata prevendita. Si tratta di una figura professionale con un mix di competenze che in aziende di dimensioni come quella in cui lavoro è sempre più frequente: ossia un’organizzazione fatta di business unit che si estende “a matrice” verso funzionalità commerciali.
Se capisco bene, quindi, si tratta di gestire un lavoro che in parte è “verticale”, all’interno della propria business unit, e in parte è “in orizzontale” dovendo interagire a matrice con altre componenti aziendali. Dal punto di vista pratico, in che cosa consiste il suo lavoro?
A livello macroscopico, io mi occupo di due cose. Una è gestire un gruppo di persone, la business unit, che ha dentro diverse tipologie di seniority: persone più giovani che devono crescere e profili più senior; possono essere figure di project manager, tecniche, funzionali. Si tratta di un gruppo di un po’ più di una decina di persone che sta crescendo. L’altra parte del mio lavoro è gestire i progetti con i clienti e soprattutto la loro crescita. Nella sostanza, mi sono attribuiti dei clienti, che, a seconda della loro dimensione, gestisco con team di dimensioni diverse. Di solito opero con un team composto da persone della mia business unit, ma anche di altre business unit secondo un’organizzazione a matrice. La dimensione del team può variare in base all’esigenze dei clienti e delle progettazione in corso. Dal punto di vista operativo, si tratta di creare una relazione di ascolto con i clienti, nuovi o già in essere, per portare la nostra offerta e, soprattutto, per ragionare insieme di soluzioni che creino valore per loro. Una cosa bella del mio lavoro è che anche se la mia azienda ha una sua offerta, cioè ha dei prodotti a catalogo, esiste una parte di innovazione legata alla possibilità di comporre nuove soluzioni a partire da prodotti che abbiamo già, per aiutare il cliente a risolvere il suo specifico problema e ottimizzare i processi esistenti.
Di che tipo di prodotti si occupa?
La nostra è un’azienda che offre servizi rivolti alla supply chain, la catena di forniture in ingresso e in uscita di varie aziende. Questo significa lavorare con i clienti, che operano in tutti i settori merceologici, tra cui molte aziende con nomi noti anche ai non addetti al settore: importanti aziende alimentari, automobilistiche, della moda, della grande distribuzione ecc. Si tratta in tutti i casi di aziende che hanno bisogno di far entrare merci e far uscire prodotti, lavorando con una galassia di attori: fornitori, corrieri (che sono di tanti tipi), i loro clienti. I servizi che offriamo noi sono volti a ottimizzare i processi logistici mettendo a sistema questa galassia di attori che lavorano con relazioni complesse tra di loro.
Che percorso di studi ha fatto per fare questo mestiere?
Io ho studiato ingegneria, in parte anche per seguire le orme paterne, perché in casa mia si respirava un’aria scientifica, dove con “scientifico” si intendeva la passione per risolvere problemi. Mio padre è stato un ingegnere meccanico abbastanza noto nel suo campo, si occupava di robotica, in un ambito molto avanzato per quei tempi e aveva quindi una forte spinta al problem solving e per affrontare sfide nuove attraverso l’innovazione. C’era poi anche un tema di employability; ai miei tempi non era come adesso, in cui c’è un ampio ventaglio di corsi di laurea tra cui, immagino, non sia molto facile orientarsi. Io avevo davanti pochi corsi di laurea tra cui scegliere. Ho scelto ingegneria perché tra i corsi dell’epoca sembrava dare più spazio a una crescita professionale. In particolare, ho studiato ingegneria elettronica: all’epoca non c’era l’ingegneria gestionale, ma era possibile specializzarsi nell’ambito gestionale, che stava iniziando in quegli anni. Ho dato anche un esame di Marketing a Economia e Commercio, proprio per cercare di ampliare le mie conoscenze. Poi, quando ho terminato gli studi, ho provato a restare in università. Mi sarebbe piaciuto, sia per gli aspetti dell’insegnamento e di crescita dei giovani – che è una cosa che mi interessa tutt’ora – sia di ricerca. Però alla fine sono andata a lavorare in azienda: ho girato più aziende, facendo ovunque potessi dei corsi per la mia crescita professionale e per poter ampliare il bagaglio che mi derivava dagli studi a Ingegneria. Gli studi sicuramente mi hanno dato tanto, soprattutto con il percorso che ho fatto io, che sono uscita con un approccio più ampio e completo che se non avessi fatto corsi extra rispetto a quelli previsti dai percorsi più tradizionali e verticali.
Quali conoscenze e competenze che usa oggi nel suo lavoro derivano direttamente dagli studi di ingegneria e che cosa ha dovuto aggiungere in seguito?
Nel mondo professionale di solito si distingue tra hard skill e soft skill. Per quanto riguarda le hard skill, ingegneria sicuramente ti da l’approccio speculativo e il bagaglio tecnico che servono per indirizzare la risoluzione dei problemi: il famoso paradigma “dell’elefante che si mangia a piccoli morsi”. Ingegneria ti aiuta ad approcciare i problemi, a renderli “masticabili”, a ridurli eventualmente in “fette” che siano più gestibili, pianificabili, affrontabili. Questo è sicuramente qualcosa che fa bene anche nella vita, come forma mentis. Per il resto, io non ho mai fatto la sviluppatrice, ho fatto soprattutto lavori di analisi funzionale e di verifica di dati. Per queste attività ho dato degli esami specifici che mi hanno aiutato molto. Dopodiché ho aggiunto, come strumenti, dei percorsi di project management, di negoziazione, di cultura del feedback, per imparare a relazionarsi. Questi corsi li ho fatti negli anni di lavoro. Ho fatto uno stage durante l’università alla Procter&Gamble: era solo di qualche settimana, però è stato interessante perché mi ha permesso di vedere sul campo che cosa significasse lavorare. Poi c’è la questione delle lingue: io ho avuto la fortuna di fare un anno negli Stati Uniti quando ero al liceo, il che mi ha permesso di imparare l’inglese con una profondità che non ho mai perso.
Quindi per quanto riguarda le hard skill, per riassumere: problem solving da ingegneria e poi vari corsi successivi, anche di pubblic speaking, per esempio. Sono importanti perché nel complesso ti permettono di passare dalla figura di un tecnico che conosce verticalmente una determinata materia, a una persona che ha un approccio più sistemico e sa parlare con persone di formazione diversa. Anche perché, a meno che non si sia il genio che crea soluzioni da solo in laboratorio, tutti noi abbiamo bisogno di interloquire con più persone di tipo diverso per il nostro lavoro. Ed è importante imparare a capire chi hai davanti. L’ultimo corso che ho fatto è la cultura del feedback e l’ho trovato profondamente utile e stimolante, consiste nell’abituarsi a chiedere frequentemente un riscontro alla controparte, sia esso un superiore, un pari, o un collaboratore, su cosa pensa di come sono state fatte le cose, su come si poteva fare meglio, senza isolarsi ne perdere di autonomia, ma per mantenere un approccio critico e non rischiare di essere preda di abitudini. Tutte queste io le considero hard skill, anche se alcune sono meno codificabili come tali.
E per quanto riguarda le soft skill?
Le soft skill per definizione non si possono imparare, ma si possono esercitare. C’è sicuramente l’ascolto attivo. E l’altra cosa che ho imparato a fare, e che forse non tutti gli ingegneri fanno volentieri, è concentrarmi sulle mie aree di debolezza, anche tramite degli assesment specifici di management che mi sono stati fatti nel tempo, per lavorarci sopra, cercando di uscire dalla cosiddetta comfort zone: non è facile, ma è l’unico modo di crescere e fare un po’ di carriera.
Quali sono quegli aspetti che è bene conoscere prima di affrontare il suo lavoro, perché magari bisogna esserci “portati”?
Gli aspetti di gestione delle persone sicuramente sono molto importanti. Non bisogna mai pensare che gli altri la pensino come la pensi tu. Bisogna avere la mente completamente libera: come tu reagisci a una cosa non è come reagisce il tuo collaboratore. Questo devi averlo sempre in mente per non stupirti, per non rimanerci male e per affrontare veramente con la testa libera le cose che possono succedere. Negli ultimi due anni, con la pandemia, abbiamo avuto degli esempi forti: delle 10-12 persone con cui lavoro, ognuna ha reagito in modo diverso. Nel gestire le persone, la cosa più importante credo che sia quello che si chiama l’ascolto attivo: in cui si chiede “cerca di farmi mettere nei tuoi panni, fammi veramente capire come stai e cosa vuoi”. Per motivare le persone devi capire che cosa le “accende”. E solo ascoltando capisci effettivamente come puoi coinvolgere una persona, perché ognuna ha interessi diversi: c’è chi vuole essere messo in mostra nella bacheca aziendale, chi vuole fare dei corsi ecc. Ma questi sono solo esempi, la cosa importante è capire che cosa veramente “muove” una specifica persona, che cosa le fornisce energia nel lavoro.
Questo per il team di lavoro. E verso i clienti?
Anche verso i clienti c’è l’ascolto. A volte si va dal cliente con il catalogo e si parte dicendo noi abbiamo “questo, questo e questo” e non si ascolta minimamente il cliente. Invece, bisogna lasciarlo parlare. Se non lo si fa, il rischio è quello di non mettersi più in discussione, andando lì con delle sicurezze e non accorgersi che non è quello che il cliente vuole. Questo è un errore che fanno in tanti, ed è un errore che è facile fare perché è sedersi dal cliente e fare la propria lezione. Mentre, mettersi in discussione è difficile, magari rischiando anche di scoprire di non essere il fornitore giusto e di doverlo dire. Ma in questo caso, il cliente magari non prenderà il nostro prodotto al momento, ma è quasi sicuro che tornerà da noi perché riconoscerà in noi l’onesta intellettuale e la volontà di fare veramente il bene del cliente. Questo vale in realtà anche con un collaboratore, anche se chiaramente con il cliente bisogna fare un certo tipo di attenzione, dato che di mezzo ci sono dei budget. È importante non sedersi mai nelle proprie convinzioni, anche perché altrimenti non si fa innovazione. L’innovazione non è solo l’invenzione di una cosa nuova, ma anche fare le stesse cose in modo diverso.
E che cos'è che la entusiasma di più nel suo lavoro?
Nel lavoro che facevo fino a qualche anno fa non avevo persone che lavoravano con me, invece da tre anni nell’azienda dove lavoro oggi, ho delle persone con cui lavoro e questo mi piace molto. In particolare, mi piace parlare con i giovani, provare a essere un punto di riferimento nella loro crescita professionale: mi entusiasma. Poi mi diverto sempre molto nel trovare una soluzione innovativa per un cliente insieme ai colleghi.
Quando ho scelto di lavorare per questa azienda c'erano due fattori importanti per me, che mi hanno spinto al cambiamento: il fatto che avrei avuto un mio team di lavoro e la possibilità di lavorare anche fuori dall’Italia. Quest’azienda ha un forte progetto di espansione all'estero che è già partito e questo è uno degli aspetti che sicuramente mi piace perché implica andare a conoscere il resto del mondo, vedere come lavorano. Ho già molti contatti con l'estero, ma andare a seguire progetti completamente fuori Italia mi interessa molto.
Quali sono le sfide che vede nel futuro, pensando a chi sta iniziando l'università adesso?
L'information technology è oggi a mio avviso un tipo di studi particolarmente cruciale e ad ampio spettro in quanto è, di fatto, un facilitatore applicabile in tutti i campi. Talvolta si legge che l'information technology e l’automazione si sostituiscono alle persone. No: il loro ruolo è quello di fornire supporto per le decisioni e lo fanno in maniera decisamente rilevante. L'IoT [Internet of Things], i big data ecc. non sono aspetti tecnologici nuovi, ma oggi è necessario trasformare in valore reale e concreto tutto ciò, sviluppando sì la raccolta dati e le potenzialità di calcolo e analisi, ma anche lavorando verso l’ideazione di strumenti e logiche a supporto, ovvero di una strumentazione: veri e propri cruscotti che con le loro informazioni ci permettono di ottimizzare i processi, il che vuol dire spendere meno e consumare meno energia, territorio, tempo.
L'IT ha il fascino di essere uno strumento con funzione di facilitatore in praticamente qualsiasi campo: da come raccolgo le informazioni tramite la pletora di strumenti di IoT, a come le elaboro e conservo e, infine, a come le rendo disponibili. La grande applicabilità di questi strumenti è una sfida da cogliere per il futuro: abbiamo un sacco di dati, ci vuole qualcuno capace di creare innovazione per usare in modo utile questi dati. E ciò vale per tantissimi campi, dal giornalismo alle scienze, per fare degli esempi.
Ci può fare un altro esempio concreto per capire in che modo l’IT migliora il processo decisionale?
Prendiamo una macchina che ha in pancia migliaia di radiografie, grazie all’analisi e al confronto tra tutti i dati in suo possesso, la macchina potrà suggerire al medico se quella che si vede su una data radiografia è una frattura o no. Sarà il medico a prendere la decisione finale, ma questa analisi preliminare permette di scremare più velocemente. Si dice che si lavora per eccezioni, usando il termine “eccezione” in senso positivo: una gran parte di cose va avanti da sola e io, essere umano, mi posso concentrare solo sui casi più specifici o particolari. Prendiamo il caso dell'agricoltura, se monitoro con l’IT le mie colture e in generale vedo che i parametri di irrigazione vanno bene, non agisco nello stesso modo in tutti i campi, ma opero solo su quelli in cui il sistema mi segnala, per esempio, che manca acqua.
Quante donne fanno questo mestiere?
Pochissime. Per un po' di anni ho fatto degli interventi al corso di Employability a Ingegneria e sicuramente posso dire che ora vedo più donne che studiano ingegneria rispetto al passato, se vado invece a vedere tra gli sviluppatori della mia azienda ce ne sono pochissime. Per contro ci sono donne in posizioni apicali, ma quando si va nel middle management, in cui ci sono anche io, saremo circa o meno del 10%. Ma probabilmente aumenteranno: mi aspetto che stiano arrivando. Comunque è necessario un cambiamento culturale anche negli uomini: per esempio, capita che abbiano un atteggiamento come di riguardo, che però implica una decisione da parte loro su quello che una donna con impegni familiari si sente o non si sente di fare e che quindi non tiene in considerazione che se sono qui è perché ho scelto io di esserci, cioè non devo essere in una situazione lavorativamente diversa solo in quanto donna. Poi ovviamente anche le donne devono fare un passo avanti, dobbiamo sentirci più sicure delle nostre scelte; dobbiamo sentire che possiamo affermare le nostre idee e non sentirci in difetto in alcun modo: non c'è nessuna differenza.
C’è qualcosa che ha imparato nel tempo, lavorando, e che pensa sia utile sapere già prima di iniziare l’università?
Una cosa che ho imparato è che è importante specializzarsi, però bisogna tenere la mente un po' aperta, che vuol dire anche andare a conferenze di filosofia, leggere un libro diverso ecc. Lo specialista verticale su una cosa serve, ma fino a un certo punto, perché sicuramente quella cosa cambierà: è veramente difficile che qualcosa duri a lungo nel tempo. Tenere la testa aperta vuol dire anche tenere in considerazione temi che non sembrano finalizzati direttamente al lavoro, ma che creano un approccio alla vita più sistemico, che ti permette di capire le persone, perché sono le persone la vera risorsa. Se vuoi crescere e fare carriera - intendendo con carriera la possibilità di vedere più cose, cambiare orizzonte, partecipare a progetti sempre diversi - non sarà possibile se sarai sempre e solo il genio di quella piccola cosa, anche perché proprio per questo motivo la gente ti terrà lì, a fare solo quello e quando quella cosa non va più di moda... sarai considerato “vecchio”. Quindi il mio consiglio è di tenere la testa aperta su tanti temi. Spesso a ingegneria i ragazzi disdegnano i temi economici e commerciali, saper leggere un bilancio, saper fare un avanzamento economico di un progetto e ti guardano come per dire "a me cosa mi interessa, io voglio fare il circuito...": ci vuole anche il circuito, ma non basta. Il mondo ha una sua complessità, non è fatto di camere stagne e quindi è necessario un approccio più completo e olistico ai problemi, se si vuole crescere. Poi ovviamente non è qualcosa a cui tutti ambiscono, però secondo me questo è il modo con cui si può creare un valore di lungo periodo.
Che cosa vuol dire lavorare secondo lei?
Durante l'università ho fatto un sacco di lavoretti, e durante il primo colloquio di lavoro mi chiesero "ma lei ha mai lavorato?" e io dissi "no", e poi ho citato alcune delle tante cose collaterali che avevo fatto ma che non mi sembravano pertinenti al colloquio. E loro mi dissero "anche questo è lavoro": lavoro vuol dire avere un compito, un responsabile, un obiettivo, un orario e l'essere pagati. Se uno ha fatto delle esperienze che contemplano tutti questi aspetti, ha avuto esperienza di che cosa vuol dire lavorare e questo è di grande valore al di la del tipo di lavoro svolto. L'esperienza del lavoro, qualunque essa sia, ti permette di tornare a casa con un bagaglio importante. Nel mondo anglosassone lo fanno di più, anche se oggi le cose stanno cambiando anche da noi; è proprio una forma mentis: non disdegnare l'esperienza del lavoro, capire l'etica del lavoro e che cosa vuol dire lavorare. Non è nemmeno lo stage che fai durante l’università, che ha un altro scopo; si tratta proprio di imparare un nuovo paradigma.
SCIENZA IN PRATICA
Ci può fare degli esempi di applicazione dell’IT nella logistica?
Abbiamo due applicazioni che mi piacciono molto. Una riguarda la logistica in senso generale. La sede principale dell’azienda in cui lavoro è nelle Langhe, ma vale per qualsiasi posto. Noi abbiamo delle applicazioni che monitorano tutta la logistica dei trasporti. Ci immaginiamo come può essere il traffico durante la vendemmia. Il territorio è particolare, ci sono un sacco di stradine di provincia. Abbiamo fatto una partnership con Telepass e con un partner francese che ci consente di avere alcuni dati sul monitoraggio dei mezzi. Abbiamo messo insieme un cruscotto dove è possibile ottimizzare l’analisi dei dati legati al trasporto dell'uva, degli imballaggi e di tutti i materiali che servono alle cantine, in modo da evitare che ogni cantina debba avere tutti i camion che gestiscono ogni singolo trasporto. Ci sono delle cantine che si sono messe insieme e noi abbiamo costruito un “oggetto” all'interno del quale sono analizzati più dati: le caratteristiche dalla strada, le indicazioni sul traffico, la presenza di un incidente, di una festa paesana, di lavori, il meteo, la stagionalità, i carichi (quanta uva deve essere trasportata e dove devo portarla). In questo modo un solo camion può servire più aziende, ottimizzando i trasporti, riducendo tempi e costi, e con meno impatto sull'ambiente.
E l'altro esempio?
Durante la pandemia abbiamo fatto delle esperienze di telemedicina, per la quale ora è stata fatta un'azienda separata perché stava diventando un business importante. Anche lì si trattava di raccogliere tante informazioni e condividerle livello nazionale. Abbiamo costruito un robottino che poteva andare dentro la camera del paziente, mentre il medico restava fuori, raccogliendo dati di varia natura ed inoltre evitando che il medico si dovesse cambiare continuamente per entrare e uscire dalle varie stanze. Il robottino aveva una telecamera che permetteva al medico di vedere il paziente, negli ospedali e anche a casa, senza quindi annullare il ruolo del medico, ma ottimizzando le presenze in un momento difficile e facilitando enormemente il tema cruciale della raccolta dati da far confluire all’interno di un unico collettore verso il Ministero della Sanità.
Oltre all’ottimizzazione dei trasporti, c’entra anche la gestione del rischio?
Certamente non esiste ottimizzazione dei processi senza la gestione dei rischi ad essi correlati. Abbiamo sviluppato un cruscotto di gestione del rischio in cui si possono mettere a sistema ogni genere di informazioni che possono servire: logistiche, finanziarie, geopolitiche, meteo, ecc. La complessità di questo tema è notevole, ma gli strumenti possono facilitarne l’approccio. Per esempio, prendiamo il caso di un cliente che deve far arrivare della merce dalla Cina. Potrà disporre di strumenti proattivi e di previsione con delle grafiche semplici e intuitive che lo aiuteranno a prendere le proprie decisioni, come una mappa in cui sono evidenziati i vari fattori di rischio: eventi occasionali (per esempio, il blocco del canale di Suez), la presenza di guerre, le varie questioni legate all’epidemia di COVID-19 ecc.
Ma quanti sono gli indicatori che servono per prendere delle decisioni?
Una storia interessante è quella che gli astronauti hanno sei indicatori con cui prendono tutte le loro decisioni. Gli astronauti sono abituati a maneggiare molti dati e ciononostante hanno solo sei indicatori. Noi “comuni esseri umani” se abbiamo 2-3 indicatori fatti bene, basati su tanti dati, dati storici e aggiornati continuamente, abbiamo già un bel cruscotto utile per decidere.
LE PROFESSIONI
Il team di lavoro
Quali figure professionali ci sono in un team di lavoro come il suo e quali relazioni ci sono tra le varie figure professionali?
Nel mio team lavoro con figure tecniche, che si occupano dello sviluppo software, con figure funzionali, necessarie per analizzare le soluzioni, e con project manager, per gestire i progetti.
Con le risorse umane ho lavorato molto negli ultimi anni per disegnare i profili di crescita per le persone del mio team, per dare loro il giusto sviluppo di carriera e mantenere un team con il corretto mix di ruoli e professionalità.
Poi ci sono le persone dell'amministrazione e del controllo di gestione. Ovviamente, la mia business unit ha anche degli obiettivi di margine e di valore di produzione, quindi ci sono da gestire tutti gli aspetti amministrativi ed economici. Inoltre, mi relaziono con il mio responsabile che mi giudica e monitora basandosi su macroindicatori economici. In alcune situazioni è poi necessario relazionarsi con varie figure apicali.
Settimanalmente faccio un lavoro di coordinamento nella mia business unit. Quello di cui mi occupo sono i progetti fino a un certo livello di dettaglio, e ovviamente anche io devo usare degli indicatori che mi permettano di andare dai clienti per relazionarmi con loro e portare avanti in modo efficace i progetti. Il lavoro di management nel mio caso vuol dire proprio questo: rispondere dei risultati, coordinare persone, gestire progetti. Una costante è che la capacità non è mai infinita e quindi bisogna giostrarsi tra le cose che devi fare, le persone a disposizione, i soldi che hai nel budget – e questo è un aspetto sicuramente affascinante.
Nella mappa delle persone con cui ci si interfaccia, ovviamente ci sono anche i clienti, con i quali è fondamentale saper interagire e farlo con i tempi giusti, per conoscere il mercato sempre meglio e sapere ideare soluzioni e progetti veramente a valore aggiunto e sostenibili.