Il terremoto del 20 maggio scorso non ha sorpreso tecnici, geologi e sismologi. La causa è da ricercarsi in uno spostamento verso est di una porzione dell’Appennino che si trova sepolta sotto i sedimenti della Pianura Padana e che, avanzando, produce delle compressioni.
Non è un fenomeno inaspettato. La Pianura Padana ha già tremato in passato e la sua sismicità, per quanto relativamente bassa, è ben nota da tempo ai geologi e ai sismologi. Nel 2009 un lavoro pubblicato sulla rivista Italian Journal of Geoscience, Bollettino della società di Geologia Italiana, a cura di Gianluca Valensise, geologo dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), in collaborazione con colleghi del Dipartimento della Protezione Civile e dell’Università di Pavia, analizzava proprio la struttura e l’evoluzione tettonica del fronte nord degli Appennini, quello che si affaccia appunto sulla Pianura tra Bologna e Ferrara.
Gli Appennini «sepolti» in pianura
Il lavoro di Valensise, riassunto e semplificato in questo contributo audio messo a disposizione dall’INGV dopo il terremoto del 20 maggio, conferma che la Pianura Padana è da considerarsi zona sismica a tutti gli effetti, pur se con un livello di pericolosità più basso rispetto a zone più critiche della nostra penisola. E spiega bene il perché. Una parte della catena appenninica, infatti, è di fatto sepolta sotto la coltre di sedimenti che costituisce la Pianura Padana. Noi vediamo dunque solo una parte dell’Appennino, quella che si è sollevata. Ma c’è una porzione che non si è mai sollevata e giace sotto il livello del mare e coincide con il cosiddetto livello di colmamento della pianura.
Mille metri di sedimenti
«Se togliessimo mille metri di sedimenti alla Pianura Padana» spiega Valensise, «vedremmo più Appennino di quanto ne vediamo oggi. In particolare, sarebbe visibile la dorsale ferrarese che è proprio quella che ha generato il terremoto del 20 maggio scorso danneggiando le province di Ferrara e Modena.» La pianura sarebbe dunque ancora molto ampia e piatta ma più piccola di quanto non lo sia oggi e vedremmo comparire delle dorsali alte anche 700-800 metri, nella zona del ferrarese appunto. Le dorsali del ferrarese infatti sono il fronte più avanzato dell’Appennino che nelle ultime centinaia di migliaia di anni continua a spostarsi verso Nordest.
«Su questo fronte di avanzamento si creano delle compressioni» continua Valensise, «mentre sul retro ci sono delle distensioni che generano terremoti come quelli registrati anche negli anni scosi in Appennino. Dunque, terremoti compressivi di fronte alla catena, terremoti distensivi dietro la catena.» Le ricerche dei geologi hanno appurato che ci sono almeno tre linee di compressione, una davanti all’altra. «E sappiamo anche che queste tre linee di sovrascorrimento tra Appennino e pianura possono essere tutte attive.» spiega ancora Valensise «La prima linea è ai piedi dell’Appennino, lungo la via Emilia nella zona di Bologna; poi ce n’è una un po’ più avanti e la più avanzata di tutte è appunto quella sul versante ferrarese.»
I terremoti si studiano in molti modi, unendo dati geologici, monitoraggi strumentali, record storici e anche tecniche satellitari che consentono di identificare le deformazioni. Tutti questi dati e conoscenze sono utili a comprendere le caratteristiche della sismicità e a migliorare le mappe della pericolosità.
«Mappe più precise sono utili per fornire a tutti, dalle amministrazioni ai cittadini, informazioni utili per indirizzare le scelte urbanistiche e costruttive», continua Camassi. «Oggi siamo in grado di dare indicazioni molto precise su qual è lo scuotimento atteso in futuro nelle varie zone, grazie a una rete molto densa di rilevamenti e a dati strumentali molto raffinati.»
Ma le conoscenze acquisite oggi sono utili anche per fare confronti con il passato. I terremoti storici, infatti, sono utilissimi per conoscere la sismicità di una zona e per operare confronti con il presente. Ma naturalmente, in assenza di strumenti, le tecniche adottate devono essere altre.
Come si studia il passato sismico?
«Un terremoto storico si studia attraverso tecniche di ricerca storica quantitativa, usando tutte le informazioni disponibili e registrate nelle varie epoche per stimare gli effetti sulle singole località, che vengono quindi assimilate a delle vere e proprie stazioni sismiche.» spiega ancora Camassi, «Ed è molto utile adottare le stesse tecniche anche nel caso dei terremoti presenti, come quello che si è appena verificato tra Modena e Ferrara. Confrontando i dati sperimentali con quelli raccolti valutando i danni sulle località, come si fa per i terremoti passati, abbiamo aumentato la nostra capacità di stimare accuratamente la sismicità di una certa zona nel tempo».
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[Errata corrige: l’articolo è stato in realtà pubblicato il 22 maggio 2012 e indicizzato per errore al 2 maggio 2012. Non abbiamo cambiato la data per evitare di interrompere i link già attivi]