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Ricerca e produzione chimica

Per approfondire prospettive occupazionali e percorsi di studio, leggi:

Immagine di copertina per gentile concessione di Elisabetta Passone e Stefania Manferdini

Elisabetta Passone e Stefania Manferdini dirigono un’azienda chimica che opera come service per aziende farmaceutiche, si occupano di ricerca e sviluppo di prodotti per varie fasi del processo di produzione e controllo dei farmaci. Dopo la laurea e i primi lavori, hanno deciso di costruire qualcosa di nuovo, tutto loro. Giorno dopo giorno, partendo da zero, hanno imparato come mettere in piedi e gestire un’azienda, su quali prodotti e servizi era più utile concentrarsi, come comunicare efficacemente con i clienti e come districarsi tra burocrazia e normative.

INDICE

  • Da dove nasce l’idea di mettere in piedi un’azienda?
  • E la passione per la chimica da dove arriva?
  • Che cosa vuol dire aprire un’impresa?
  • Ora veniamo al vostro lavoro, di che cosa si occupa la vostra azienda?
  • Quale parte del vostro lavoro trovate particolarmente interessante?
  • Nella pratica, come si svolge la vostra giornata lavorativa?
  • Per il vostro lavoro, che cosa vi è servito di più degli studi che avete fatto e che cosa invece avete dovuto imparare da sole in seguito?
  • Quali sono le difficoltà più rilevanti al giorno d’oggi per un’azienda come la vostra?
  • Ci sono dei cambiamenti nel vostro settore?
  • SCIENZA IN PRATICA – Che cos’è uno standard di riferimento?
  • LE PROFESSIONI

PER APPROFONDIRE

  • Obiettivo: ricerca e produzione chimica – Scopri percorsi di studio e sbocchi professionali

Da dove nasce l’idea di mettere in piedi un’azienda?

M: All’epoca le offerte di lavoro non mancavano, ma con poche prospettive o per lavori che mi sembravano poco entusiasmanti, monotoni. Io cercavo un’alternativa che mi desse più soddisfazione, e piano piano cresceva anche la voglia di creare qualcosa che fosse più “nostro”.

P: Un altro aspetto rilevante è che quando abbiamo fondato l’Alchemy andava di moda l’idea di mettere in piedi piccole aziende, sullo stile americano, anche se ancora non si parlava di startup. Quindi, nel nostro piccolo ci siamo dette: proviamo a fare qualcosa per conto nostro. Uno spunto importante ce l’ha dato un docente universitario, che ci ha parlato di imprese analoghe all’estero e ci ha dato alcuni suggerimenti utili su come procedere.

E la passione per la chimica da dove arriva?

P: Io in verità volevo studiare Medicina, ma all’epoca era un percorso di studi che veniva scoraggiato, si diceva che c’erano troppi medici. A un certo punto sono incappata in un articolo che parlava di un docente dell’Università di Bologna che promuoveva l’iscrizione a Chimica industriale, raccontando che c’era necessità in quel settore e gli iscritti erano poco. Io all’epoca vivevo a Latina e avevo fatto il liceo classico, di chimica ne avevo studiata veramente poca, ma mi incuriosiva l’idea di fare qualcosa di quasi ignoto per me, era un’avventura che mi attraeva. Così, forse per sfida, mi sono iscritta a Chimica industriale all’Università di Bologna.

M: Per me è stato diverso, alle medie coltivavo già una passione per le scienze, in particolare per la biologia. Alle superiori però non c’erano scuole orientate alla biologia, così mi sono iscritta a chimica, che era la materia più vicina. All’università ero indecisa tra chimica e biologia, alla fine ho scelto chimica perché sembrava più promettente. Ed era vero, noi li vedevamo gli studenti più grandi che ricevevano offerte di lavoro prima ancora di laurearsi. Poi da lì a quattro anni (1992, “tangentopoli”) c’è stato il crollo del settore…

Che cosa vuol dire aprire un’impresa?

P: Oggi per chi vuole fare impresa c’è un ampio supporto da parte di università e altri enti pubblici; per esempio, le iniziative come le start cup, che permettono di accedere a fondi e a servizi di tutoraggio, o altri strumenti che incentivano il passaggio dalla ricerca all’impresa. Ci sono persone che aiutano a fare il business plan, che forniscono supporto per gli aspetti economici e che conoscono le problematiche principali del fare impresa per ambiti specifici, avendo competenze anche sui contenuti; inoltre, spesso vengono messi a disposizione locali universitari già attrezzati per i primi anni. All’epoca non c’erano questi servizi, noi abbiamo fatto dei corsi per l’imprenditoria femminile promossi da enti locali, ma era difficile far capire cosa volessimo fare, perché negli sportelli per l’impresa non c’erano persone in grado di capire che cosa volessimo fare e quali erano le problematiche specifiche del settore chimico.  Le problematiche sono tante: dal trovare i locali, a capire come fare i prezzi dei prodotti, scoprire se ci sono sgravi fiscali ecc. Ma una cosa molto importante per noi è che abbiamo incontrato delle persone nelle imprese che ci hanno dato fiducia all’inizio e ci hanno permesso di avere le prime commesse lavorative.

Ora veniamo al vostro lavoro, di che cosa si occupa la vostra azienda?

P: All’inizio volevamo mettere in piedi un laboratorio per chi aveva bisogno di determinati prodotti chimici ma non aveva un laboratorio interno. Con il tempo è diventato chiaro che chi si poteva permettere l’outsourcing, erano le aziende che avevano budget ampi, cioè quelle dell’industria farmaceutica. Questo lo abbiamo capito dopo circa un anno, provando a tastare il mercato con vari tentativi. Oggi funzioniamo come service per quelle aziende che hanno bisogno di molecole non disponibili nei cataloghi dei grossi fornitori di sostanze chimiche. In genere si tratta di produzioni di piccole quantità, da pochi milligrammi a qualche centinaia di grammi di sostanze che vengono usate negli ambiti più diversi. Possono essere, per esempio, standard di riferimento per impurezze,  metaboliti o di altri prodotti chimici. Oppure, scaffold di intermedi da utilizzare per progetti di ricerca. Un altro esempio riguarda la produzione di analoghi di prodotti già esistenti, cioè molecole simili a quelle già usate, ma leggermente diverse in alcuni punti della struttura molecolare, per vedere se alcune proprietà della molecola “capostipite” possono essere migliorate. Si preparano quelle che vengono chiamate delle librerie di analoghi che vengono sottoposte a dei test iniziali in vitro e si vede se ci sono delle molecole che soddisfano i requisiti desiderati. In più, adesso abbiamo anche una parte di servizi analitici per il controllo dei principi attivi farmaceutici.

Quale parte del vostro lavoro trovate particolarmente interessante?

P: La parte più interessante è quella di essere utili per una certa tipologia di industria, di fare un pezzettino di un lungo percorso che porta alla produzione dei farmaci. Un altro aspetto interessante, ma anche terrorizzante per certi versi, è che ogni giorno c’è una cosa diversa di cui occuparsi.

M: Sì, ogni giorno affrontiamo problematiche diverse, per cui è necessario studiare continuamente, impegnarsi per capire: anche se alcuni problemi inizialmente sembrano uguali ad altri già incontrati, spesso non si risolvono allo stesso modo. Per esempio, si può pensare che gli analoghi di certe molecole chimiche si comportino in modo identico, ma non è detto che ciò accada, anzi.  Quindi, ogni giorno si presentano delle difficoltà; quello che si progetta sulla carta e sembra uguale a quello che avevi fatto il mese prima, alla prova dei fatti non si comporta nello stesso modo. Per cui bisogna rivedere il processo di purificazione, di sintesi, di analisi. Questa è la parte entusiasmante, perché non ti annoi mai, poi ogni tanto, però, vorresti annoiarti…

P: Un altro esempio pratico è quando si cambia la scala di produzione. Magari hai già sintetizzato una sostanza in piccole quantità, ma devi produrne un po’ di più. Si può pensare che in fondo si tratta solo di fare in grande quello che è già stato fatto in piccolo, e invece possono succedere vari imprevisti. Anche cose banali, ma che hanno un peso sul risultato finale: come, per esempio, la  maggiore  difficoltà a  lavorare una massa  di prodotto viscoso,  che, richiedendo  molto  tempo per  essere recuperato dal reattore, potrebbe obbligare a dei cambiamenti di procedura rispetto a quanto visto su piccola scala. Per questo motivo i passaggi di scala  vengono sempre effettuati  1:10 , in modo da rilevare  in modo graduale eventuali criticità.

Nella pratica, come si svolge la vostra giornata lavorativa?

P: Oggi siamo quattro soci, io, Stefania, Roberto Aureli e Giovanni Bernardi. Tre di noi lavorano in azienda e al momento abbiamo otto dipendenti, tutti laureati in chimica. All’inizio facevamo tutto noi, ci occupavamo direttamente del lavoro “sotto cappa”. Da un po’ di anni questo lavoro lo deleghiamo ai nostri dipendenti. Noi ci occupiamo di supervisionare il lavoro sperimentale: possiamo farlo perché conosciamo il lavoro in quanto lo abbiamo fatto. Inoltre, ciascuno di noi si occupa di alcuni aspetti specifici, per esempio io mi occupo anche dei rapporti con i clienti, di tenerli aggiornati, preparo i report. Inoltre, seguo la sicurezza, lo smaltimento rifiuti e la ricerca di fornitori. Roberto, invece, si occupa anche dei processi di produzione, studia la letteratura, cerca le soluzioni più adeguate a seconda dei casi.

M: Io sono responsabile del laboratorio di analitica e seguo anche la parte di amministrazione, tengo sotto controllo il budget, mi interfaccio con la commercialista e chi gestisce le buste paga, e altre attività di questo tipo. Poi anche io mi occupo dell’organizzazione del lavoro di produzione e dell’interfaccia con i clienti. Talvolta questo è un punto molto delicato: bisogna capire bene quali sono le richieste dei clienti e assicurarsi che si stia fornendo effettivamente il servizio/prodotto richiesto.  Infine, mi occupo anche della certificazione di qualità, attività necessaria per alcune produzioni, che richiede molto lavoro perché va tutto tracciato. Inoltre, c’è voluto molto anche per mettere in piedi il sistema di certificazione. Un altro aspetto di cui ci occupiamo e che non è facile, è fare i preventivi: bisogna imparare a stimare il valore economico di un lavoro, facendo previsioni sul tempo necessario

Per il vostro lavoro, che cosa vi è servito di più degli studi che avete fatto e che cosa invece avete dovuto imparare da sole in seguito?

M: Sicuramente la cosa più importante che mi sono portata dietro dagli studi è stata l’apertura mentale per comprendere cose nuove: ci sono state date delle basi utili per approfondire i contenuti specifici che ti servono nel lavoro. Per esempio, l’acquisizione di tecniche di ragionamento che permettono di capire processi e concetti nuovi.

P: Quando studiavamo noi, la preparazione universitaria indirizzava prevalentemente alla carriera della ricerca, per cui abbiamo dovuto colmare molte lacune su aspetti tecnici e imprenditoriali che ci servivano per costruire la nostra impresa.

Quali sono le difficoltà più rilevanti al giorno d’oggi per un’azienda come la vostra?

P: In Italia non ci sono molte aziende che fanno service per le farmaceutiche come noi, si contano sulle dita di una mano, invece all’estero sono più diffuse, soprattutto negli Stati Uniti, ma non solo. Alcune di queste possono offrire servizi analoghi ai nostri ma a prezzi più competitivi, perché sono in zone dove il costo della vita è più basso. Per noi è difficile essere competitivi sulla semplice sintesi di una singola molecola, ma tutto cambia quando si parla di un’attività di servizio più articolata, che dura anni, in cui adattiamo in corsa la nostra produzione a nuove esigenze, seguiamo i clienti passo a passo nella scelta di soluzioni migliori. Si tratta di un servizio complesso, che richiede molto tempo ma che a conti fatti ripaga.

Ci sono dei cambiamenti nel vostro settore?

P: In Italia c’è una grande tradizione di aziende che fanno principi attivi per aziende europee (in  proporzione in Germania e in Francia, sono molto meno), i quali vengono prodotti a partire da prodotti chimici che spesso vengono dalla Cina, dall’India o comunque dall’estero. Con la pandemia ci sono stati diversi problemi di approvvigionamento, per cui ora si stanno valutando vie alternative per essere più indipendenti. Questo aspetto riguarda anche noi per altri versi. Ora, probabilmente come conseguenza collaterale dei problemi generati dalla pandemia sulle produzioni e sulle spedizioni, ci accorgiamo che c’è una minore tendenza a guardare all’estero e una tendenza a riportare in Europa almeno certe produzioni e questo potrebbe ridarci un vantaggio competitivo, ma non sarà semplice.

SCIENZA IN PRATICA

Che cos’è uno standard di riferimento?

P: Quando leggi il bugiardino di un farmaco, trovi indicati il principio attivo e l’elenco degli eccipienti. Ci sono aziende che formulano il farmaco, che può essere una pastiglia o uno sciroppo, per esempio: comprano il principio attivo, aggiungono i vari eccipienti, quindi lo confezionano. E quello è un tipo di azienda farmaceutica. C’è poi un altro tipo di azienda, quella che produce il principio attivo farmaceutico, che sostanzialmente è una molecola; piccola o grande che sia, questa molecola deve essere pura al di sopra di un valore fissato dalla normativa, per esempio, al 98%. Per determinare questo valore sono necessari metodi analitici validati ed è una parte del nostro lavoro. Come in tutte le attività, per essere sicuri di avere raggiunto un certo livello di qualità occorre il confronto con un riferimento (o standard) di cui sia stata in precedenza certificata la qualità. Gli standard primari sono sostanze certificate, commercializzate da enti qualificati e possono essere molto costosi (migliaia di euro per qualche centinaio di milligrammi). Operativamente, visto che durante le analisi si consumano discrete quantità  di questi standard, si utilizzano i cosiddetti standard secondari o working standard, cioè sostanze il cui titolo viene determinato per confronto con lo standard primario. Parte del lavoro di Alchemy è la sintesi di questi standard secondari.

A volte, però, c’è l’esigenza di sapere cosa c’è in quel 2% rimanente rispetto al titolo indicato del 98%. In genere si tratta di sottoprodotti della sintesi del principio attivo, che vengono genericamente indicati come impurezze. Le normative che regolano la produzione di prodotti farmaceutici (così detti drug product) e dei i principi attivi (drug substance), indicano i metodi ufficiali per le analisi (sono restrittivi, ma le aziende in genere utilizzano per i controlli interni metodi ancora più restrittivi) e fissano i limiti per queste impurezze, obbligando,  al di sopra di certi valori (per esempio, 0,1%), a identificarle e caratterizzarle. Se l’impurezza è nota, il confronto con lo standard di riferimento (primario o secondario) indica il contenuto nella impurezza. Nel caso in cui l’impurezza non sia nota occorrono delle indagini molto più approfondite che possono arrivare a mettere in discussione l’intero processo chimico. Con l’aiuto di particolari tecniche analitiche (LC-MS ad alta risoluzione o spettroscopia NMR) e  con la conoscenza del processo e dei reattivi coinvolti,  è possibile arrivare a capire la struttura chimica della impurezza incognita e la sua genesi. Spesso collaboriamo con i nostri clienti a indagini di questo tipo che  richiedono l’isolamento  di queste impurezze  da aliquote di sostanze delle quali costituiscono  percentuali molto basse. Terminata l’identificazione, spesso  ci viene richiesto di effettuare la conferma per sintesi, che vuol dire mettere a punto specifici processi di sintesi, spesso diversi da quello usato per ottenere il principio attivo.

Se applicando lo stesso  metodo di analisi,  per esempio il metodo HPLC,  i due riferimenti (la molecola isolata  e quella sintetizzata) danno la stessa identica risposta, questo significa che l’impurezza incognita ha effettivamente la struttura ipotizzata.  L’identificazione di queste impurezza è molto importante, non solo perché è necessario tenerle sotto controllo, ma  perché permette di individuare i punti critici del processo e quindi i miglioramenti che è possibile attuare

LE FIGURE PROFESSIONALI

Quando si lavora in una piccola azienda farmaceutica che offre servizi per altre aziende ci si deve interfacciare con diverse figure professionali. Da quelle di supporto per l’attività, come persone che si occupano della contabilità e della manutenzione della strumentazione, ad aziende fornitrici di prodotti chimici di base. Questi, infatti, si comprano da aziende specializzate che li producono per i laboratori e per l’azienda. Poi ovviamente ci sono i clienti, ossia le aziende che richiedono il servizio: solitamente le persone con cui si interfaccia per concordare il lavoro fanno parte degli uffici di controllo qualità, della produzione, della ricerca e sviluppo. Invece, contratti e fatture sono gestiti dagli uffici acquisti. Il lavoro nel laboratorio richiede in genere una laurea in Chimica o analoghe.

Per approfondire prospettive occupazionali e percorsi di studio, leggi Obiettivo: ricerca e produzione chimica.

 Aggiornato al 21 marzo 2021

Immagine di copertina gentilmente concessa da Simone Monaco

Dottorato e laureato in chimica all’Università di Bologna e specializzato in elettrochimica, Simone Monaco ha concentrato i suoi studi e la sua attività di ricerca sulle batterie e sui sistemi di accumulo dell’energia. Dopo avere lavorato nel settore automobilistico e aver partecipato a progetti sulla mobilità elettrica e l’elettrificazione, ora è una figura di riferimento in un’azienda che si occupa del futuro di questo settore. Il suo lavoro è al confine tra promozione della sostenibilità, ricerca ingegneristica ed efficientamento dei sistemi di accumulo di energia.

INDICE

  • Quali sono gli aspetti più stimolanti e affascinanti del suo lavoro?
  • Ha una routine lavorativa costante o varia i suoi impegni di giorno in giorno?
  • Ci sono competenze che ritiene decisive e indispensabili per svolgere il suo lavoro?
  • Dopo gli studi accademici, quali consapevolezze ulteriori ha maturate?
  • Quali consigli darebbe a chi si vuole avvicinare al suo ambito lavorativo?
  • Quali traiettorie si possono percorrere per arrivare a svolgere un lavoro come il suo?
  • SCIENZA IN PRATICA – Perché oggi le batterie elettriche sono così importanti?
  • LE PROFESSIONI

PER APPROFONDIRE

  • Obiettivo: ricerca e produzione chimica – Scopri percorsi di studio e sbocchi professionali

Quali sono gli aspetti più stimolanti e affascinanti del suo lavoro?

Per le mie caratteristiche personali, adoro lavorare motivato dalla curiosità e dalla voglia di scoprire. Nella mia carriera è sempre stato così: il desiderio di conoscere è la base della mia quotidianità e del mio impegno lavorativo. Per questo mi piace esplorare nuovi sistemi ingegneristici, oggi in particolare legati alle batterie.
Preferisco un approccio diverso da quello esclusivamente scientifico, che si differenzi dai soli modelli teorici di stile accademico, cercando di avere un quadro complessivo della situazione. Mi piace arrivare a fare funzionare nella pratica il dispositivo, risolvendo anche quei problemi apparentemente banali, come per esempio capire perché i contatori di un pacco batterie non funzionano come dovrebbero. Trovo molto gratificante arrivare a realizzare qualcosa che alla fine funziona e produce un beneficio.

Ha una routine lavorativa costante o varia i suoi impegni di giorno in giorno?

Io mi occupo di veicoli elettrici, non solo a quattro ruote. Principalmente la mia giornata lavorativa si svolge in ufficio, perché una buona parte del mio lavoro consiste nel creare documentazione per determinare le specifiche tecniche, verificandole con i colleghi e con i fornitori. Occorre poi valutare gli esisti dei test di funzionamento, sempre in collaborazione con il gruppo di lavoro che si occupa del progetto.

La mia giornata tipica prevede anche momenti più pratici: valuto personalmente, stando sul veicolo, l’efficacia dei prototipi che sperimentiamo, con un’attenzione particolare alla sicurezza. Quindi passo spesso dall’officina agli uffici, con qualche momento su pista per svolgere i test specifici che richiedono alte velocità di percorrenza. Alle volte lavoro anche fuori sede, per esempio quando devo valutare la funzionalità di un componente in un test di crash. In queste situazioni è mio compito verificare che tutte le procedure vengano svolte correttamente, quindi devo seguire tutto il processo utilizzando le mie capacità di valutazione maturate in anni di esperienza.

Ci sono competenze che ritiene decisive e indispensabili per svolgere il suo lavoro?

Nonostante mi occupi di un ambito prevalentemente ingegneristico e collabori con molti ottimi ingegneri, che hanno un approccio alle problematiche tipico della loro formazione, le mie conoscenze scientifiche, almeno in ambito del mondo delle batterie, credo siano molto importanti. La figura dell’elettrochimico – che a quanto mi risulta non è sempre presente nelle aziende in cui si producono veicoli elettrici – diventa rilevante in particolare in ambiti in cui occorre anche comprendere come funzionano e come sono fatti i singoli componenti. Con un elettrochimico in squadra si ha meglio il polso della situazione, e diventa possibile fare scelte ingegneristiche più consapevoli. I miei studi mi permettono di determinare alcuni elementi tecnici specifici: voltaggi, correnti, temperature e tanto altro indispensabile per rendere la sperimentazione più efficace. Un’altra caratteristica che si dimostra fondamentale è la capacità di risolvere problemi, ossia essere in grado di ragionare e di trovare soluzioni pratiche in tempi rapidi. Qui entra in gioco la mia formazione scientifica, soprattutto il dottorato di ricerca, dove ho maturato la capacità di affrontare i problemi. Quando si tratta di capire come mai le cose non funzionano, lo studio non sempre è sufficiente, ma bisogna avere consapevolezza dei processi e andare nello specifico delle varie discipline.

Dopo gli studi accademici, quali consapevolezze ulteriori ha maturate?

Nel mio percorso il mondo del lavoro ha coinciso con la realtà aziendale, e proprio in questo contesto ho appreso una caratteristica particolare che definirei malizia. Mi spiego meglio: occorre sapersi destreggiare in situazioni sconosciute, mostrandosi all’altezza della situazione anche quando non si è completamente sicuri. Se si appare come incerti e insicuri, infatti, il mercato del lavoro ti schiaccia e non ti permette di esprimere le tue reali capacità. Durante gli studi, fino al dottorato, non ho avuto necessità di prendere decisioni particolarmente impegnative, ma quando sono arrivato a lavorare in azienda ho trovato un mercato molto competitivo. Più passava il tempo e più le responsabilità crescevano, e la capacità di prendere decisioni è diventata essenziale per rispondere all’esigenza aziendale di raggiungere gli obiettivi e di portare a compimento i progetti. Un aspetto da non sottovalutare è quello economico, in quanto i finanziamenti sono essenziali per coprire i costi della ricerca: bisogna sapere comunicare l’importanza dell’attività svolta e riuscire ad attirare l’attenzione degli investitori.  

Quali consigli darebbe a chi si vuole avvicinare al suo ambito lavorativo?

Vorrei focalizzarmi su un consiglio ricorrente che gli studenti ricevono alle scuole medie: spesso gli insegnanti suggeriscono ai migliori di frequentare il liceo, per ottenere una formazione più completa possibile. Ma ritengo che gli istituti tecnici, come quello che ho frequentato io, non siano affatto un’opzione di serie B, un ripiego per chi non vuole essere costretto a frequentare l’università. Infatti ho fatto quel tipo di scelta, ma ho continuato poi con l’università e mi sono iscritto a chimica, come del resto aveva predetto un professore incontrato per caso in una biblioteca universitaria. Insomma, la scelta dell’istituto tecnico non deve essere considerata come una scappatoia per evitare lo studio universitario. Occorre fare ciò che piace, per studiare bene e utilizzare al meglio quegli anni e tenersi aperte tutte le porte possibili per fare esperienza e conoscere materie nuove.

Altro elemento su cui non mi trovo d’accordo è quello di consigliare l’orientamento universitario in funzione delle prospettive di reddito future. Con questa metodologia non è possibile essere determinati, curiosi di conoscere e rispettosi delle proprie aspirazioni, ma si finisce quasi sicuramente a fare un lavoro che non si ama. Ciò che conta è la consapevolezza che sarà comunque necessario sapersi rimettere in gioco ed essere versatili. Gli studenti che intendono fare studi universitari sappiano che devono sviluppare la capacità di autogestirsi, programmando studio ed esami per evitare di perdere la direzione e tempo prezioso. Per chi poi volesse restare nell’ambiente universitario come lavoratore, la precarietà è purtroppo una caratteristica prevalente che complica molto il cammino. Per avere un lavoro più soddisfacente serve sapersi adattare anche ad andare all’estero e avere l’elasticità mentale per lavorare in ambienti e contesti diversi.

Quali traiettorie si possono percorrere per arrivare a svolgere un lavoro come il suo?

Probabilmente la laurea in ingegneria elettronica potrebbe essere considerata come la più adatta, ma non è una certezza. È il background di competenze di base il vero potenziale necessario: il percorso può essere variegato, e l’esperienza di vita non porta per forza a una destinazione predefinita. Sottolineo questo aspetto perché è quello che emerge quando mi capita di fare colloqui per assumere personale: lo studente preparato, che ha fatto buon uso degli anni di studio, si nota subito, e può provenire da ambiti di studio differenti. Questo non significa essere secchioni, ma avere saputo concentrare le energie non solo sulla teoria ma anche su quelle conoscenze che all’atto pratico sono importanti. Poi ci sono gli aspetti che la scuola raramente insegna e che troppo spesso vengono erroneamente definiti aspetti caratteriali difficilmente migliorabili. Si tratta delle cosiddette soft skills, necessarie per potere essere apprezzati e scelti: un datore di lavoro le percepisce immediatamente, e molto spesso indirizzano la scelta finale. Le competenze di comunicazione, per esempio, possono compromettere una potenziale carriera, se non sono opportunamente sviluppate.

SCIENZA IN PRATICA

Perché oggi le batterie elettriche sono così importanti?

Lo sforzo del settore pubblico e privato nell’elettrificazione è importante per salvaguardare l’ambiente e ridurre le emissioni. Negli ultimi anni si è registrato un incremento delle richieste specifiche per portare una serie di attività pesanti, come il settore automobilistico e le macchine per il movimento terra, verso il mondo dell’elettrico. Per fornire l’energia necessaria esistono in teoria molte opzioni, ma in pratica ci si sta indirizzando verso il mondo delle batterie perché è il più vicino al modello attuale. Questo trend è già evidente in molti settori: dalle batterie degli smartphone alle automobili, passando per gli spazzolini elettrici, che dal punto di vista elettrochimico condividono lo stesso modello di batteria senza alcuna differenza. Il vero problema è determinare quanta energia e quanta potenza siano necessarie per consentire a macchinari diversi di funzionare. La ricerca scientifica di base cerca di ottimizzare l’utilizzo dei materiali, per migliorare autonomia, velocità nella ricarica e durata. È una reale questione di necessità: oggi non sarebbe possibile disporre di un aereo elettrico senza avere implementato sistemi elettrici in grado di sorreggerlo. Più energia si riesce ad accumulare e più le batterie saranno durature, minori saranno i problemi, compresi quelli dello smaltimento. Dalle ricerche accademiche a quelle aziendali, ovunque nel mondo, gli obiettivi sono spesso simili e il tema della sicurezza resta sempre centrale.

SCHEDA – Le professioni

Lo sviluppo di batterie elettriche richiede le competenze che si possono maturare durante i corsi di laurea in chimica, ingegneria elettronica e meccanica. Lo sviluppo in ambito industriale richiede il coinvolgimenti di manager di progetto, di persone esperte di ingegneria gestionale e di marketing. Questo tipo di ricerche viene svolta all’interno di università ma anche di aziende attive in ambito tecnologico, che possono trarne un vantaggio competitivo ed economico sul mercato.

Per approfondire prospettive occupazionali e percorsi di studio nell’ambito chimico, leggi Obiettivo: ricerca e produzione chimica.

Immagine di copertina per gentile concessione di Giorgio Baggi

Giorgio Baggi, chimico per passione e per mestiere, oggi a soli 36 anni è a capo del dipartimento di produzione di una start up innovativa canadese in ambito farmacologico.

INDICE

  • Come nasce la sua passione per la chimica?
  • Che cosa la affascina del suo lavoro di chimico?
  • Ci racconta in che cosa consiste il suo lavoro?
  • Come si svolge la sua giornata tipo?
  • Che differenza c’è fra fare chimica all’università e in azienda?
  • Che cosa ha imparato studiando e che cosa sul campo?
  • Che cosa è bene sapere se si vuole fare il suo lavoro?
  • Come si arriva a fare il suo lavoro?
  • SCIENZA IN PRATICA – Ci racconta un progetto a cui ha lavorato?
  • LE PROFESSIONI

PER APPROFONDIRE

  • Obiettivo: ricerca e produzione chimica – Scopri percorsi di studio e sbocchi professionali

Come nasce la sua passione per la chimica?

Molte persone scelgono il proprio lavoro durante gli studi universitari, alcuni anche alla fine. Per me invece è stato un colpo di fulmine. Sin dalle scuole medie ero già appassionatissimo di scienza, e la mia curiosità mi spingeva a capire come funzionava il mondo intorno a me, dai microrganismi all’Universo. Se penso agli esperimenti che facevo nella cucina dei miei genitori senza alcuna protezione e solo per il piacere della scoperta, oggi rabbrividisco! Era un interesse molto intimo: ero e sono ancora innamorato della chimica.

Che cosa la affascina del suo lavoro di chimico?

Il primo aspetto affascinante di questa professione è che mi permette di creare sostanze e materiali da composti più semplici. In secondo luogo, quando sintetizzo questi materiali modifico la loro struttura di modo tale che la nuova struttura ne influenzi le proprietà tangibili, e lo riesco a fare senza poter vedere o manipolare i componenti dei materiali direttamente a livello molecolare, perché sono troppo piccoli. Quindi usiamo delle tecniche di laboratorio, che si imparano all’università, che ci permettono di operare sui materiali a livello macroscopico per modificarne la struttura microscopica. È affascinante pensare che sebbene non vediamo concretamente ciò che avviene, le nostre conoscenze scientifiche ci permettono di sapere esattamente che cosa accade. È come costruire un veliero in una bottiglia: non lo costruisci nella bottiglia direttamente, come si potrebbe pensare logicamente, ma una serie di tecniche ti permette di ottenere il risultato finale!

Ci racconta in che cosa consiste il suo lavoro?

Oggi lavoro in Psygen, una startup innovativa che opera in ambito farmacologico. Non siamo un’azienda farmaceutica in senso stretto, nel senso che non produciamo farmaci già in commercio, ma ci occupiamo di produrre sostanze chimiche sintetiche utilizzate in studi clinici, dove i ricercatori ne studiano l'efficacia per curare le malattie. Nello specifico lavoriamo su alcune sostanze classificate come “psichedeliche” e che nel corso del Novecento sono purtroppo state accomunate alle droghe pesanti, per capire come potrebbero invece essere utili per il trattamento di alcune patologie mentali gravi. C’è molta ricerca scientifica che sta andando in questa direzione. Attualmente, quindi, il nostro mercato sono gli istituti di ricerca, pubblici e privati, in tutto il mondo, anche in Europa per esempio in Germania, Israele e Regno Unito.

Io sono chimico farmaceutico e dirigo il dipartimento di produzione dove produciamo la sintesi su larga scala (comunque nell’ordine dei kilogrammi per anno) delle sostanze che servono agli studi clinici.

Come si svolge la sua giornata tipo?

La maggior parte della giornata si svolge in laboratorio a eseguire esperimenti. Prima di iniziare un esperimento tuttavia c’è la fase di studio della letteratura scientifica cioè di quello che altri hanno già pubblicato sull’argomento, e di disegno [progettazione, NdR] – si dice così – dell’esperimento stesso. Devi per esempio studiare le linee guida, che significa lavoro d’ufficio, per la preparazione del progetti. Anche se sembra noioso, in realtà è un processo molto creativo. È importante anche stabilire precisamente gli step per lavorare in sicurezza. Non si tratta solo di mescolare sostanze, ma avere occhio riguardo per i dettagli e le quantità. Un buon scienziato annota sempre tutto quello che osserva per capire successivamente dove si è sbagliato e migliorare.

Che differenza c’è fra fare chimica all’università e in azienda?

Prima di arrivare in azienda ho lavorato sei anni come ricercatore universitario, quindi in una struttura pubblica. In comune ai due settori c’è il lavoro in laboratorio, che è uguale. In generale si lavora in gruppi di ricerca, quasi mai da soli. La differenza è l’obiettivo della ricerca: all’università lo scopo del tuo lavoro è pubblicare articoli che possano essere rilevanti per la comunità scientifica e anche per l’industria, e che possano aiutarti anche a fare carriera per attrarre ulteriori fondi. Più pubblichi su riviste importanti, più partecipi a conferenze importanti, più hai possibilità di vincere bandi e fondi per finanziare la tua ricerca. In industria i risultati sono volti invece alla possibile produzione.

Che cosa ha imparato studiando e che cosa sul campo?

Studiando ho imparato tutto quello che serve per iniziare a lavorare i laboratorio. Con una laurea specialistica si ha già una buona esperienza pratica e si può entrare nel mondo del lavoro. Secondo me prima si comincia meglio è, per iniziare a capire come funziona il mondo del lavoro e imparare tutte le altre cose che a scuola non insegnano. Prima di tutto come comunicare in modo chiaro e coinciso i propri risultati, cosa importantissima dal punto di vista scientifico. Sul campo ho imparato a scrivere progetti di ricerca per ottenere i fondi e la gestione di un gruppo di ricerca, anche negli aspetti amministrativi, tutte cose che all’università non vengono insegnate.

Si impara poi l’importanza del lavoro di squadra e dell’organizzazione e pianificazione di se stessi, altra cosa che prima si impara meglio è. Un bravo scienziato sa organizzare il proprio tempo. Non da ultimo, sul lavoro ho imparato il valore dello spirito di iniziativa per il successo nei progetti. Mai limitarsi a quello che si è studiato, ma provare ad andare anche fuori dagli schemi per vedere strade nuove per superare gli ostacoli.

Che cosa è bene sapere se si vuole fare il suo lavoro?

Sicuramente tenere sempre presente che la scienza è in costante progresso, e che quindi mantenersi al passo coi tempi e essere sempre aggiornati è fondamentaleUn po’ di extra te lo devi portare a casa: per me è una passione e quindi non mi pesa. In secondo luogo, bisogna imparare il prima possibile a entrare a patti con l’idea di fallire. La scienza procede per tentativi ed errori, si incontrano tante porte chiuse, ostacoli e serve saper cambiare approccio e direzione. Bisogna talvolta avere la forza di abbandonare un percorso intrapreso. Maturare come persone significa lavorare su se stessi per una percezione dei fallimenti che non sia vista come ilnostro fallimento personale ma come momento educativo.

Come si arriva a fare il suo lavoro?

Avendo la passione per la chimica già alle superiori, già dal terzo anno avevo le idee chiare, non vedevo l’ora di essere in laboratorio e sognavo una carriera accademica con il mio team di ricerca. Ho conseguito la laurea triennale e magistrale in chimica e il dottorato all’università di Pavia, con un periodo in Canada. Consiglio tantissimo le esperienze all’estero per rendersi conto di come vanno le cose in altri paesi. Ho però amici che sono passati per una laurea in ingegneria chimica o in microbiologia, o in medicina, prima di intraprendere il mio percorso. Dopo il dottorato si consigliano dei post-doc, e io ne ho fatto uno in Canada a Windsor e uno in Kentucky. Un post-doc non deve essere più lungo di 2-3 anni perché se non diventi professore è difficile poi entrare nel sistema.

A me è capitato proprio questo: mi ero arenato, la mia carriera sembrava non prendere il volo. È stato lì che ha fatto la differenza aver maturato l’idea che il cambiare rotta è un punto di forza e non di debolezza. Ho avuto la forza di non fossilizzarmi. Ho capito che potevo portare la mia forza in un settore nuovo e così sono arrivato in industria e ora gestisco un team che si occupa di un settore che mi entusiasma tantissimo.

SCIENZA IN PRATICA

Ci racconta un progetto a cui ha lavorato?

Un progetto affascinante a cui ho lavorato per anni rientra nel campo delle nanotecnologie. Il mio progetto consisteva nel sintetizzare delle molecole che grazie alle loro strutture particolarissime permettessero di costruire materiali con proprietà nuove che non esistono in natura. Costruivo delle molecole che avevano componenti che potevano muoversi in certi modi definiti partendo da componenti semplici con altre funzioni, e ne risultava un device con una funzionalità nuova. Un po’ come giocare col meccano ma usando le molecole come tasselli: entusiasmante!

LE PROFESSIONI

In una startup come quella in cui lavora Giorgio Baggi, i ricercatori e ricercatrici che si occupano direttamente dello sviluppo del progetto si interfacciano con varie persone, con profili professionali e mansioni diverse, dato che gli aspetti pratici da affrontare sono molteplici. Per esempio:

  • altre persone con una laurea in scienze o in ingegneria per l’allestimento dei laboratori
  • persone del dipartimento acquisti e vendite che poi comunicano con la clientela
  • persone del dipartimento comunicazione e pubbliche relazioni
  • persone del dipartimento di amministrazione/decisori aziendali per comunicare i risultati e l’avanzamento progetti.

Per approfondire prospettive occupazionali e percorsi di studio, leggi Obiettivo: ricerca e produzione chimica.

Aggiornata al 21 marzo 2022

Immagine di copertina per gentile concessione di Viviana Corvaja

Biologa di formazione, con un passato nella ricerca all’Università Bicocca di Milano e una passione, da sempre, per il make-up, Viviana Corvaja si è portata dal laboratorio il metodo scientifico che applica con rigore anche nella produzione di rossetti, mascara e fondotinta, per Nevus, in un’azienda cosmetica per la quale è responsabile di ricerca e sviluppo e colorista, cioè, di fatto, uno strumento umano.

INDICE

  • Ci racconta come è arrivata a fare quello che fa?
  • Ci racconta che cosa significa e in che cosa consiste il suo lavoro?
  • Nel suo lavoro quanto pesano le due componenti, artistica e scientifica, in proporzione?
  • I cosmetici li provate in prima persona?
  • Difficoltà?
  • Come si diventa coloristi? Esistono percorsi di formazione specifici?
  • SCIENZA IN PRATICA – Di che cosa parliamo quando parliamo di perle nei cosmetici?
  • LE PROFESSIONI

PER APPROFONDIRE

  • Obiettivo: ricerca e produzione chimica – Scopri percorsi di studio e sbocchi professionali

Il suo lavoro è la dimostrazione che il rigore della scienza può convivere con la creatività e con una certa componente artistica. Ci racconta come è arrivata a fare quello che fa?

I colori, la pittura e il disegno mi hanno sempre appassionata. Da piccola con fogli, matite e pennelli e poi, da più grande, con il trucco. Mi piaceva l’idea di poter usare il viso come tela per le mie creazioni. Per molto tempo sono stata tentata di intraprendere un percorso di studi artistico, ma l’altra mia passione, quella per la scienza e per la comprensione del funzionamento delle cose, ha avuto la meglio. Mi sono iscritta a Biologia e per tre anni dopo la laurea ho fatto ricerca in università dove mi occupavo di studiare la tossicità del particolato atmosferico usando come modello le colture cellulari. All’epoca non immaginavo che un giorno mi sarei trovata a formulare cosmetici anti-pollution, cioè che hanno un effetto protettivo sul particolato atmosferico, e a valutare le materie prime sulla base di quegli stessi test che conducevo io in laboratorio.

Nonostante mi piacesse molto fare ricerca non sono però mai riuscita ad abbandonare i colori, quindi ancora durante gli studi mi sono iscritta a un corso professionale per make-up artist, portando avanti una sorta di doppia vita di ricercatrice e truccatrice. La svolta vera è arrivata quando ho scoperto dell’esistenza di un corso di perfezionamento post-laurea in scienze cosmetiche. Mi è sembrato da subito il coronamento di un sogno, qualcosa che tenesse assieme entrambe le mie passioni. Da lì in avanti il percorso è stato molto più lineare e mi ha portata a essere quello che sono oggi, passando di azienda in azienda e acquisendo, nel tempo, esperienza.

Si dice che le persone che fanno la professione di colorista sono “strumenti umani”. Ci racconta che cosa significa e in che cosa consiste il suo lavoro?

Quelli che comunemente chiamiamo trucchi, come i rossetti, gli ombretti, i fondotinta eccetera, sono cosmetici particolari che hanno una caratteristica fondamentale che salta subito agli occhi: il colore. Spesso il colore è il punto di partenza, scelto sulla base della moda del momento oppure indicato da un cliente. Capita che arrivino da noi con pezzi di stoffa, ritagli di giornale, oggetti di vario tipo e ci dicano che vogliono un rossetto che abbia proprio quel colore lì. Quindi noi dobbiamo “vedere” quel colore e immaginarci quali pigmenti e in quali proporzioni potranno restituirlo. Hanno provato a sostituirci con degli spettrofotometri, ma al momento nessuna macchina è in grado di fare il nostro lavoro, perché il colore di un rossetto o di un fondotinta, non è semplicemente definibile dallo spettro di assorbimento della luce. Entrano in gioco caratteristiche come il sottotono, quella che in gergo chiamiamo “fiamma”, o come le varie finiture, dall’opaco allo scintillante. Insomma, al momento le macchine non ce la fanno, ma l’aspetto più complesso e difficilmente riproducibile è forse il passaggio dall’osservazione all’intervento. Il colorista, infatti, deve calcolare al volo la correzione da apportare a una miscela per portare il colore testato ad assomigliare sempre di più allo standard di riferimento approvato dal cliente.

Nel suo lavoro quanto pesano le due componenti, artistica e scientifica, in proporzione?

È difficile dare delle percentuali, ma direi che sono entrambe indispensabili. Tutta la componente estetica arriva dalla conoscenza della teoria dei colori e dall’esperienza maturata lavorando. Tutti sappiamo, per esempio, che se mescoliamo un giallo e un blu otteniamo un verde. Pochi sanno che se devo bilanciare un rosso troppo rosato devo aggiungere del giallo. Sono regole che si imparano, così come si impara a vedere e prevedere l’effetto di un prodotto su pelli di colori diversi e a correggere il colore per dare, per esempio, più luminosità.

La formazione scientifica e la conoscenza approfondita degli ingredienti entra in gioco nel momento in cui si deve prevedere il comportamento di un ingrediente nella miscela. Usare un pigmento per fare una polvere, come un ombretto, è molto diverso dall’usarlo per fare un rossetto, banalmente perché il colore cambia da secco a bagnato, ma cambia anche in base al solvente che si utilizzerà o al pH della miscela. Inoltre, i pigmenti non sono tutti uguali e, per esempio, assorbono gli oli in maniera diversa o possono essere più o meno difficili da disperdere. Noi dobbiamo conoscerli tutti e saper correggere le quantità di conseguenza. Il colorista, inoltre, deve essere in grado di leggere le strutture delle molecole per capire a livello teorico prima e pratico poi come si comporteranno. Guardando la struttura di un silicone, per esempio, io so se si potrà miscelare con un olio vegetale o se invece serviranno solventi a base di idrocarburi. Così come devo conoscere concetti di fluidodinamica per capire come si comporterà un prodotto liquido sottoposto alla forza di un dosatore e magari giocare anche con le consistenze ideando un prodotto all’apparenza molto viscoso ma che diventa impalpabile nel momento in cui viene toccato con le dita. Allo stesso modo le conoscenze di fisica, e di ottica in particolare, mi permettono di comprendere il comportamento di quelle che noi chiamiamo perle.

Da come lo descrive è un lavoro che richiede rigore e creatività, ma traspare molto bene la componente sensoriale. I cosmetici li provate in prima persona?

Assolutamente sì. Anzi, ritengo che aver seguito un corso professionale per make-up artist mi abbia dato quel qualcosa di più che mi permette di interpretare i gusti dei miei clienti e prevedere le possibili criticità dei prodotti. Il mio è un lavoro multisensoriale e quando mi capita di valutare delle candidature uno degli elementi che cerco sempre di far venire fuori è proprio la passione per il cosmetico perché è con l’uso del prodotto che si sviluppa la sensibilità necessaria a fare questo lavoro.

Difficoltà?

Noi in laboratorio siamo tecnici e badiamo molto ad aspetti come il pH di un prodotto o la stabilità nel tempo e a diverse temperature di utilizzo, perché sappiamo che queste componenti vanno a influire sulla resa finale. Chi valuta il nostro lavoro, però, non è tecnico e dà molto più peso all’estetica. Il difficile, ma anche il bello, di questo mestiere è proprio la ricerca dell’equilibrio tra questi due aspetti, arrivando a un prodotto che piaccia ai nostri clienti, ma che sia anche perfetto sul piano tecnico.

Come si diventa coloristi? Esistono percorsi di formazione specifici?

Come spesso capita nel mondo dell’industria cosmetica non esiste un percorso ben definito e credo di esserne un esempio. Per fare i coloristi non è necessario, per esempio, avere una laurea in una materia scientifica, ma per poter fare bene questo mestiere è fondamentale avere una conoscenza approfondita della chimica che può derivare da un percorso di studi strutturato, oppure dall’esperienza in azienda unita allo studio individuale. È poi molto importante avere una passione per i colori e saperli “vedere” come li vediamo noi, quindi coglierne le sfumature, i toni, le differenze che a un occhio non allenato possono essere impercettibili. È un lavoro che ha una grande componente artigianale e che richiede una certa attitudine alla collaborazione con gli altri e una sensibilità per intercettare i desideri del cliente e riuscire a tradurli e trasferirli nel prodotto.

SCIENZA IN PRATICA

Nel linguaggio comune le perle le associamo alle ostriche, ma di che cosa parliamo quando parliamo di perle nei cosmetici?

Le perle sono una famiglia enorme di pigmenti complessi che sono accomunati dalla caratteristica di luccicare e dare tridimensionalità al colore sfruttando da un lato la composizione e dall’altro il variare delle dimensioni, a cui seguono effetti anche al tatto molto diversi che vanno dalla coprenza totale, quasi fosse una seconda pelle, delle perle che hanno come base l’alluminio, fino ad arrivare ai punti luce dei glitter.

A parità di composizione chimica, per esempio, noi possiamo avere effetti molto diversi fra loro. Nelle cosiddette perle a interferenza costituite solo da ossido di titanio e mica, entrambe polveri bianche, si possono ottenere colori diversi in base allo spessore degli strati delle due componenti grazie a gioco di ottica.

In altri casi, la fisica entra in gioco con la granulometria, quindi a parità di composizione chimica potremo avere risultati più o meno scintillanti. Ma abbiamo a che fare con la fisica anche con le perle in borosilicato che cambiano colore a seconda dell’angolazione dello sguardo.

 

LE PROFESSIONI


Un’azienda in cui si fa ricerca cosmetica cooperano diversi reparti con funzioni diversi, tra cui quelli che si occupano di:

  • ricerca: in cui lavorano le persone che si occupa di studiare la formulazione dei prodotti, generalmente hanno una laurea in chimica, chimica e tecnologia farmaceutica o biotecnologie
  • controllo qualità: in cui lavorano persone che si occupano della ricerca e degli aspetti tecnici dell’analisi di campioni delle materie prime in entrata e dei lotti di produzione in uscita, per verificarne stabilità e sicurezza
  • regolatorio: a cura di chi si occupa degli affari regolatori e ha competenze tecniche e scientifiche, ma anche una conoscenza approfondita dei regolamenti. Fa da ponte tra clientela e laboratorio, verifica che le formule siano conformi al Paese di esportazione e alle richieste della committenza. Generalmente ha una formazione scientifica, prevalentemente in ambito chimico
  • markeging: è il reparto che studia i trend e decide quali prodotti possono essere sviluppati, anticipando, o spesso creando, le mode; lavora a stretto contatto con il laboratorio e con il regolatorio per studiare idee che siano realizzabili. Chi lavoro in questo settore generalmente ha una formazione specifica in ambito marketing
  • produzione: in questo reparto c’è il personale operaio e tecnico addetto ai vari passaggi, dalla pesatura, al caricamento delle materie prime nelle macchine, a chi si occupa del magazzino
  • commerciale: in questo ufficio ci sono diverse figure che vanno da chi si occupa delle vendite vere e proprie, che va dalla clientela a proporre linee e prodotti, a chi in azienda si occupa di project management e ha una formazione più tecnica e scientifica e fa sì che tutta la filiera di produzione del cosmetico funzioni.

Per approfondire prospettive occupazionali e percorsi di studio, leggi Obiettivo: ricerca e produzione chimica.

Aggiornato al 21 marzo 2022 

Immagine di copertina per gentile concessione di Roberto Dario

Chimico di formazione, Roberto Dario si avvicina al mondo dell’olfatto quando la sua curiosità lo spinge a saperne di più sugli odori delle molecole con cui lavorava in laboratorio come ricercatore. La scoperta di questa nuova dimensione sensoriale, lo porta prima a interessarsi alle tecnologie di estrazione delle essenze naturali, e poi a intraprendere il percorso per diventare profumiere, arte nella quale conoscenza chimica e passione per gli odori si sono fuse permettendogli di esplorare, in tutta la sua complessità, il mondo olfattivo.

INDICE

  • Videointervista
  • Il suo lavoro è poco conosciuto, ci aiuta a capirlo meglio raccontandoci, per esempio, qual è la sua “giornata tipo?
  • Come si allena il naso?
  • Ritornando alla giornata ideale, qual è la seconda attività?
  • Infine, qual è la terza tipologia di attività del suo lavoro?
  • Qualche anno fa ha provato a riprodurre il mitico kyphi, l’incenso bruciato nei templi egizi nelle ore serali. Che cosa l’ha spinta a fare questo viaggio nel tempo olfattivo e come ha portato avanti questo progetto?
  • Quando è diventato un profumiere? Nel tuo percorso professionale cosa ha imparato studiando e cosa sul campo?
  • Che percorso consiglierebbe a chi vuole diventare un profumiere?
  • SCIENZA IN PRATICA – Oli essenziali: cosa sono e come si estraggono?
  • SCIENZA IN PRATICA – Ci sono materie prime sintetiche che, sostituendo quelle naturali, ci hanno permesso di realizzare profumi più sostenibili?
  • SCIENZA IN PRATICA – È possibile distinguere con l’olfatto una materia prima naturale da una sintetica?
  • LE PROFESSIONI

PER APPROFONDIRE

  • Obiettivo: ricerca e produzione chimica – Scopri percorsi di studio e sbocchi professionali

Videointervista

Il suo lavoro è poco conosciuto, ci aiuta a capirlo meglio raccontandoci, per esempio, qual è la sua “giornata tipo?

La mia giornata tipo, da libero professionista, è sicuramente diversa da quella di un profumiere che lavora per un’azienda o per un brand di profumeria. Nel quotidiano sono tre le attività principali che svolgo, alle quali, a seconda delle necessità, dedico di volta in volta, tempi diversi. Innanzitutto il naso deve essere sempre tenuto in allenamento: questo mi permette di affinare costantemente nel tempo, la mia capacità di riconoscere le materie prime e le loro sfaccettature olfattive, così da poterne valutare la qualità, la persistenza, l’intensità e così via, approfondendone ogni volta la loro conoscenza per trovare, poi, le note giuste da inserire nei miei lavori.

Come si allena il naso?

È come andare in palestra: si odorano e ri-odorano in sequenza una serie di materie prime in un certo lasso di tempo. In questi esercizi bisogna tenere conto anche dell’affaticamento dell’olfatto e, per questo, di solito faccio sessioni di allenamento diverse, a seconda delle giornate, che durano dai 30 ai 60 minuti circa, intervallati da brevi pause di qualche minuto, per far riposare e “prendere aria” al naso, per evitare che si assuefi troppo agli odori.

Ritornando alla giornata ideale, qual è la seconda attività?

La seconda attività consiste nel portare avanti i progetti di profumeria che mi sono stati commissionati. La creazione di un profumo si compone di più fasi articolate tra loro. Inizialmente si definisce con il cliente il brief, ossia il documento che contiene tutte le informazioni che un profumiere deve avere per poter creare un profumo. Tra le tante, si stabiliscono il tema principale che deve esprimere il profumo, le materie prime che il cliente preferisce e richiede siano presenti nel suo prodotto e si concorda la concentrazione alla quale deve essere poi commercializzato il profumo. Una Eau de Parfum, ad esempio, è più concentrata dell’Eau de Toilette, determinandone una persistenza maggiore. Una volta definito il brief inizia l’attività creativa e di ricerca vera e propria: seleziono tutte le le materie prime che mi servono e comincio a formulare, ovvero a mettere in miscela i diversi componenti del profumo identificati per concretizzare l’idea del cliente. Nascono così i primi campioni della fragranza che vengono poi condivisi con il committente al fine di decidere quali siano quelli da affinare ulteriormente, introducendo nuovi ingredienti o sostituendone alcuni, oppure modificandone le concentrazioni. Ci sarà quindi un nuovo set di campioni e un nuovo confronto e nuove riformulazioni finché si arriva al profumo ricercato dal committente. A questo punto si congela la formula del profumo e si passa alla sua successiva fase di produzione. Tutto questo lavoro richiede anche una capacità comunicativa e una buona dose di empatia per esprimere in maniera esaustiva le ragioni delle mie scelte e illustrare l’aspetto tecnico del mio lavoro, così da permettere al cliente di essere anche parte attiva nella creazione del suo profumo.

Infine, qual è la terza tipologia di attività del suo lavoro?

La terza attività è quella relativa alla formazione e alla comunicazione. Da un lato devo mantenermi sempre aggiornato sugli aspetti legislativi, dall’altro devo accrescere le mie conoscenze sulla materia, sia da un punto di vista storico-culturale sia tecnico-scientifico. Essere aggiornato periodicamente con le indicazioni della legislazione cosmetica europea, una delle più avanzate del mondo, è molto importante per sapere quali ingredienti si possono utilizzare, quali no e quali possono essere utilizzati in quantità limitate.

Qualche anno fa ha provato a riprodurre il mitico kyphi, l’incenso bruciato nei templi egizi nelle ore serali. Che cosa l’ha spinta a fare questo viaggio nel tempo olfattivo e come ha portato avanti questo progetto?

Sono un grande appassionato di storia ed in particolare di storia antica e mitologia; nel corso delle mie letture mi sono imbattuto nella storia di questa misteriosa miscela profumata: il kyphi, il sacro incenso degli Egizi, il cui profumo aveva doti rilassanti secondo il racconto dello storico Plutarco, che per prima ne ha parlato nei suoi scritti a seguito della sua vista in Egitto datata tra il 50 e il 125 D.C.. Secondo quanto narrato, nei templi egizi venivano bruciati 3 tipi di incenso: il frankincenso al mattino, la mirra a mezzogiorno e il kyphi alla sera.

La formula ed il processo di preparazione del kyphi furono rinvenute dagli archeologi scolpite sui muri dei laboratori dei templi di Edfu e Philae. Ho così ricercato e studiato i testi che riportavano la traduzione dei testi geroglifici di questa scoperta che mi hanno poi aiutato nel processo di ricostruzione di questo incenso sacro. Mettendo insieme i 16 ingredienti riconosciuti per produrre il Kyphi, ho ottenuto alla fine una pasta dal colore scuro, malleabile che, ridotta in piccole sfere, ho lasciato asciugare al sole. Bruciando questo incenso si è liberato un profumo particolare e unico che ho fatto testare anche ad altri professionisti e storici della profumeria, i quali si sono complimentati per il lavoro svolto e per aver dato loro la possibilità di sentire un profumo che arrivava dal passato.

La cosa più interessante di questo emozionante viaggio nella storia del profumo è stata quella di scoprire che le procedure e le tecniche di produzione che seguivano gli antichi egizi erano molto simili a quelle che segue un moderno tecnologo di processo industriale. È stato un altro passo per capire ancora meglio il lavoro che faccio oggi.

Quando è diventato un profumiere? Nel tuo percorso professionale cosa ha imparato studiando e cosa sul campo?

Fin da piccolo ho sempre avuto una curiosità tecnico-scientifica. Mi sono laureato in chimica e ho iniziato a lavorare prima come ricercatore sintetista e poi come sviluppatore di processi chimici. Nella mia carriera sono passato da tecnico di laboratorio a responsabile di impianto chimici, da lavorare con le provette a gestire di un reattore industriale.

Parallelamente, dopo essere stato incuriosito da un libro che trattava di profumi e di estrazione di materie prime naturali, ho iniziato a interessarmi alla profumeria. Riconoscere, maneggiare e trasformare le sostanze chimiche era il mio lavoro quotidiano e le tecniche di estrazione delle materie prime naturali sono state il mio primo approccio al mondo della profumeria: in pratica ho trasferito le mie conoscenze in un ambito diverso. Da autodidatta, quindi, ho iniziato a provare ad odorare le sostanze aromatiche più comuni come la lavanda, la cannella, il geranio, etc. procurandomi poi in erboristeria anche i rispettivi gli oli essenziali. 

Nel 2007, non più soddisfatto delle prospettive date dal settore nel quale lavoravo, ho deciso di portare avanti questo mio “percorso parallelo”. Mi sono reso conto che la mia formazione tecnico-scientifica in chimica era importante per comprendere le molecole odorose ed il loro comportamento, tuttavia non era sufficiente: avevo bisogno di una formazione più ampia e nello stesso tempo più specifica nel campo della profumeria. Ho ricercato allora un corso specifico che potesse colmare le mie lacune. Nel 2008 ho pertanto deciso di frequentare a Grasse, in Francia, il Grasse Institute Of Perfumery. Con il corso ho imparato ad annusare, a esercitare la memoria olfattiva, a conoscere e memorizzare le principali materie prime naturali e sintetiche utilizzate in profumeria. Una full immersion molto importante che mi ha fatto capire cosa dovevo fare per intraprendere questo percorso in maniera professionale. Tornato a casa, ho quindi iniziato ad organizzare le materie prime che avevo, ne ho comprate di nuove ampliando la mia collezione ed ho investito ancora sulla formazione. Ho iniziato a visitare le fiere di settore in Italia ed all’estero, e, infine, ho avviato i miei primi rapporti professionali con privati e con aziende produttrici di materie prime e stretto amicizia con professionisti del settore italiani ed esteri.  Mi sono creato un network di conoscenze che è stato utile nella costruzione della mia carriera di libero professionista che è iniziata ufficialmente nel 2013.

Che percorso consiglierebbe a chi vuole diventare un profumiere?

La mia formazione ha avuto una curva di apprendimento lenta dal momento che mi sono costruito da solo il mio percorso.  A chi vuole intraprendere la carriera da profumiere consiglio di iniziare al più presto e rivolgersi alle giuste sedi di formazione. Anche se al momento i riferimenti principali restano le istituzioni francesi con in testa il GIP a Grasse e l’ ISIPCA a Versailles, anche in Italia da qualche anno si stanno attivando corsi ufficiali, percorsi didattici organizzati dalle università di Firenze, Ferrara e Padova, senza dimenticare anche i corsi proposti da Mouillette&Co, la prima azienda italiana attiva nel settore della formazione, didattica e conoscenza della profumeria.

Come sbocchi lavorativi, è importante sottolineare che la creazione di profumi non è l’unico mestiere che si può fare con una formazione olfattiva. I nasi, come viene chiamata nel gergo questa la professione, che si occupano della cosiddetta  profumeria fine sono molti meno rispetto, per esempio, di quelli che si occupano, invece, della profumeria funzionale che riguarda il settore dei prodotti cosmetici, per la detergenza e la cura della casa ecc.,  che devono essere caratterizzati da un profumo gradevole. Non bisogna, poi, dimenticare il mondo degli aromi alimentari: come un profumiere costruisce il profumo, l’aromatiere costruisce l’aroma alimentare che rende piacevole e godibile al gusto e all’olfatto molti dei prodotti alimentari confezionati che troviamo al supermercato.

SCIENZA IN PRATICA

Oli essenziali. cosa sono e come si estraggono?

Quando parliamo di oli essenziali parliamo di una parte molto importante della palette delle essenze che si utilizza per creare profumi. Essi sono sostanze volatili ottenute per distillazione in corrente di vapore dal materiale vegetale di una singola pianta di cui poi portano il nome. Dal punto di vista chimico gli oli essenziali sono delle miscele complesse di molecole chimiche di cui i principali componenti sono terpeni, alcoli, aldeidi, chetoni, acidi grassi, composti azotati e solforati. La distillazione in corrente di vapore consiste nel far passare attraverso la materia vegetale il vapore prodotto per ebollizione dell’acqua: questo penetra nelle membrane cellulari vegetali della pianta e libera le sostanze aromatiche volatili. Queste passano rapidamente in fase gas, correndo insieme al vapore acqueo fino al primo punto freddo dove raffreddandosi repentinamente da 100 a 20 °C circa, condensano insieme al vapore e siccome la densità degli oli essenziali è minore di quella dell’acqua questi galleggiano su di essa. Le due fasi liquide vengono infine separate: la fase acquosa è chiamata idrolato e contiene ancora una piccola parte di oli essenziali e risultando profumato può essere utilizzato sia nella produzione di prodotti cosmetici oppure rimesso in circolo per un’altra distillazione. L’olio essenziale ottenuto invece è pronto per essere utilizzato in profumeria, cosmetica o aromaterapia.

Ci sono materie prime sintetiche che, sostituendo quelle naturali, ci hanno permesso di realizzare profumi più sostenibili?

Oggi in profumeria le materie prime naturali sono tutte di origine vegetale. In passato si sono utilizzate anche quattro materie prime di origine animale: l’ambra grigia, il musk, il castoreo e lo zibetto. Queste materie prime erano molto ricercate sia per il loro odore particolare sia perché permettevano ai profumi che le contenevano di essere molto persistenti.

l’ambra grigia deriva da una concrezione intestinale sviluppata dal capodoglio e veniva raccolta sulle spiagge dove erano di passaggio i cetacei. Il musk e il castoreo venivano estratte dalle ghiandole addominali di animali, nel primo caso di un piccolo cervide dell’asia centrale, il Moschus moschiferus, nel secondo dal castoro. Dalle secrezioni ghiandolari di un altro piccolo mammifero africano, simile a un gatto, la Viverra civetta, si otteneva invece lo zibetto. Tranne che per l’ambra grigia, l’estrazione e l’uso di questi ingredienti implica l’uccisione o il procurare sofferenza agli animali e perciò non sono più permesse e la profumeria ha smesso di utilizzarli.

Ma, quando sono state sviluppate le tecniche analitiche come la gascromatografia-spettrometria di massa (GCMS) che hanno permesso di dedurre la struttura chimica delle molecole responsabili dell’odore di questi ingredienti, si è riusciti a sintetizzarle in laboratorio e questo ha permesso di offrire ai profumieri queste molecole senza doverle continuare ad attingere dagli animali.

È possibile distinguere con l’olfatto una materia prima naturale da una sintetica?

Le materie prime naturali presentano delle qualità olfattive, quelle che in gergo si chiamano “sfaccettature”, che le materie prime di sintesi riescono difficilmente a riprodurre: queste presentano degli odori molto più “diretti” e forti a differenza della morbidezza e complessità che esprimono gli ingredienti naturali. Già queste caratteristiche olfattive bastano a un naso allenato a sapere distinguere tra questi due mondi, il naturale e il sintetico che però, nella profumeria moderna, sono intimamente connessi: si possono creare profumi originali e innovativi solo mischiandole insieme, dove la conoscenza tecnica e artistica del profumiere riesce a domarle per ottenere effetti olfattivi sempre più nuovi e sorprendenti.

LE PROFESSIONI

Il settore profumiero impiega diverse figure professionali, alcune delle quali sono libere professioniste, altre sono impiegate in azienda.

Il naso, nel gergo, è la persona che crea la fragranza, che conosce le materie prime e sa miscelarle e modularle per ottenere profumi sempre originali e nuovi. In genere il naso collabora con le persone responsabili dello sviluppo del prodotto, che seguono tutti gli aspetti legati alla produzione dei profumi, e con le persone che si occupano del controllo della qualità delle materie prime e dei prodotti.

Nelle aziende profumiere ovviamente hanno grande importanza anche le figure che si occupano di valutare il prodotto e quelle responsabili di marketing e comunicazione.

Una figura professionale particolare, che opera generalmente al di fuori dell’azienda come libera professionista, sono i ricercatori e le ricercatrici di materie prime: solitamente hanno una formazione tecnica (botanica, chimica) e vanno in giro per il mondo a scoprire specie botaniche nuove o poco conosciute da studiare per ottenere nuove essenze o nuove molecole aromatiche.

Per approfondire prospettive occupazionali e percorsi di studio, leggi Obiettivo: ricerca e produzione chimica.

Chimica e profumi: Roberto Dario

Immagine di copertina per gestile concessione di Luigi Panaroni

Luigi Panaroni, laureato in Scienze e tecnologie dei materiali, e Lucia Genangeli, laureata in Scienze delle comunicazioni, hanno costruito da zero la loro azienda, con molta passione per la chimica e per il rispetto dell’ambiente. Con i loro team, inventano, producono e distribuiscono saponi, creme e altri prodotti di cosmetica. In questa intervista, Luigi ci racconta la loro storia e anche come l’incontro dei saperi, scientifico e umanistico, tra le altre cose, sia stato fondamentale per la riuscita della loro impresa.

INDICE 

  • Come nasce la vostra impresa?
  • Come nasce il vostro catalogo?
  • Anche oggi producete tutto voi?
  • Che tipi di studi ha fatto e perché?
  • Che cosa l'entusiasma di più del suo lavoro?
  • Che cosa vuol dire occuparsi di ricerca e sviluppo?
  • E che cosa vuol dire fare un prodotto "bio" per voi?
  • E le confezioni?
  • Come si decide quale prodotto nuovo inserire a catalogo?
  • Quali sono le difficoltà più importanti che si devono affrontare in un percorso come il suo?
  • Quale abilità/competenza è importante avere?
  • Che dimensioni ha la vostra azienda?
  • A quali altri fattori, oltre a quelli di cui mi ha già raccontato, pensa sia dovuto il vostro successo?
  • SCIENZA IN PRATICA - Mi può raccontare un esempio di come si applica la scienza nel suo lavoro?
  • LE PROFESSIONI - Quali figure professionali sono richieste in un'azienda come la sua?

PER APPROFONDIRE

  • Leggi altre interviste su ricerca e produzione chimica
  • Obiettivo: ricerca e produzione chimica – scopri percorsi di studio e sbocchi professionali
  • Scopri dove si studiano le discipline tecniche, la fisica e la chimica

Come nasce la vostra impresa?

Io e Lucia, che è la mia compagna oltre che la mia socia, abbiamo fondato la nostra ditta, La Saponaria, circa quindici anni fa. Abbiamo deciso di intraprendere questa strada perché pensavamo che sul mercato non ci fosse un cosmetico naturale efficace. I cosmetici naturali erano pochi e non avevano delle buone performance. E per noi il connubio fondamentale: naturale, sì, senza compromessi, però il prodotto deve funzionare e deve dare una buona esperienza di utilizzo.

Siamo nati da un'esperienza di autoproduzione in casa: durante l'università facevo i saponi in casa per curiosità personale, da buon “chimico” mi è sempre piaciuto capire come vengono fatte le cose, come nascono. Lucia invece ha una formazione in Scienze della comunicazione, quindi in un ambito molto diverso dal mio, e siamo pertanto complementari. A un certo punto, quando avevamo circa 23 anni, abbiamo iniziato a partecipare ai mercatini per finanziarci le vacanze, ma abbiamo visto che la cosa aveva un certo successo: alla gente piacevano i nostri prodotti e allora ci siamo detti “perché non farne un lavoro vero e proprio?”

Io e Lucia avevamo altri lavori, lei lavorava nel settore comunicazione di una banca,  io invece facevo il progettista di impianti fotovoltaici. Come secondo lavoro abbiamo aperto questa attività, quasi per gioco. Ce ne occupavamo al termine del nostro orario di lavoro, cioè dalle sette di sera a mezzanotte. Con tanta energia giovanile ed entusiasmo, siamo partiti per questa avventura. In quindici anni l’azienda è cresciuta molto e ora i nostri prodotti si trovano nelle principali erboristerie e bioprofumerie d’Italia.

Come nasce il vostro catalogo?

Siamo partiti facendo solo saponi, con un catalogo molto limitato. Nel corso degli anni, specializzandoci, abbiamo aggiunto nuovi prodotti: creme per il viso, per il corpo, lo shampoo ecc. Oggi abbiamo un catalogo che conta circa 600 voci diverse e che sostanzialmente copre tutta la cosmetica escluso il make up.

Anche oggi producete tutto voi?

Noi abbiamo scelto di avere un laboratorio interno e, per quanto possa sembrare banale, non è una cosa comune: sono poche le aziende in Italia che fanno questo tipo di attività internamente e secondo me questo ci ha dato un vantaggio competitivo rispetto agli altri. Molti nostri competitor, infatti, si fanno preparare il prodotto pronto per la vendita da un laboratorio esterno.

Mi sembra però molto impegnativo…

Sì, ovviamente ci sono anche tante difficoltà. Da un lato, producendo in proprio, si ha un vantaggio competitivo perché è possibile garantire un prezzo più vantaggioso e un controllo migliore della filiera e della produzione, con maggiori velocità e tempestività nell'uscire sul mercato. Dall'altro lato, alle complicazioni di dover gestire un marchio, attraverso attività di marketing e commerciale, si aggiunge la complicazione di gestire la produzione. Inoltre, la crescita aziendale in queste condizioni è un po' più complessa, perché chi non ha la produzione interna può rivolgersi a fornitori diversi, adeguati al volume di produzione necessario di volta in volta. Mentre invece avendo un laboratorio interno dobbiamo strutturarlo per crescere, ed è un po’ più complesso.

Che tipi di studi ha fatto e perché?

Mi sono diplomato in chimica all'ITIS e poi all'Università ho studiato Scienze e tecnologie dei materiali. La chimica mi appassionava già alle medie: sapere, per esempio, che la mia tastiera è un mondo di atomi che "brulicano" mi ha sempre affascinato. Poi, anche mio fratello aveva fatto l'ITIS per la chimica, per cui in famiglia si parlava spesso di concetti chimici, il che mi ha fatto appassionare sempre di più. All'università invece ho scelto di non fare chimica pura, ma di studiare Scienze e tecnologie dei materiali perché mi affascinava acquisire i due punti di vista: quello chimico e quello fisico, cosa che il corso di studi che ho frequentato mi ha permesso di avere. Ed effettivamente penso che sia stata una buona scelta.

Che cosa l'entusiasma di più del suo lavoro?

Sicuramente la fase più entusiasmante è stata quella iniziale. Perché si è trattato di creare tutto da zero. A me piace molto avere una visione complessiva dell'azienda e mettere le mani un po' su tutto, nonché ideare processi e cose nuove. I primi anni dovevamo anche progettare i macchinari: per quello che volevamo fare non ce n’erano di adeguati che rispettassero certi standard. Il mio lavoro di oggi è molto diverso perché si tratta di amministrare un'azienda ed è un lavoro molto differente. Sebbene mi piacesse molto realizzare i prodotti personalmente, ora ovviamente non posso più farlo, perché devo fare altro.

La cosa che mi piace di più ora è la parte di ricerca e sviluppo. Ovviamente non sono da sola a farla, perché non avrei il tempo per fare tutto, e pertanto abbiamo un team di quattro persone dedicato.

Insieme alla parte sperimentale, mi piace molto anche andare alle fiere di settore in cui vengono proposte nuove materie prime, per cogliere nuove proposte che possono venire vedendo i prodotti dei fornitori.

Che cosa vuol dire occuparsi di ricerca e sviluppo?

Verrebbe da dire che è l’attività più creativa. Ma forse definirla l’attività più creativa non è corretto, perché per la maggior parte del tempo è un lavoro di tipo scientifico che richiede costanza, diligenza, precisione. Anche se agli esterni può sembrare una cosa del tipo "metto insieme quattro ingredienti insieme e vedo cosa succede", non è proprio così: tante prove, tanti insuccessi, tanti cambi di piccole percentuali per testare cosa succede.

E che cosa vuol dire fare un prodotto "bio" per voi?

In primis, vuol dire fare attenzione alle materie prime, che è la cosa più importante. A noi interessa anche la provenienza delle materie prime, oltre che la loro qualità. Abbiamo dei fornitori specifici: per esempio, per l'olio di mandorle ci affidiamo a un'azienda pugliese di cui conosciamo i produttori. Un altro esempio riguarda la calendula: invece di comprare la calendula biologica a basso costo dai distributori, che solitamente la importano dalla Cina, la facciamo coltivare a un mio ex compagno di corso, che ovviamente non la produce solo per noi ma anche per la ristorazione. Lui ci fornisce la calendula e noi la trasformiamo in estratto: questa procedura ha un costo più elevato, ma per noi è importante perché crea valore a livello del territorio e permette una tracciabilità della filiera di un certo tipo.

E le confezioni?

Circa cinque anni fa abbiamo avviato un processo di conversione dalle plastiche che derivano dal petrolio a plastiche che derivano da canna da zucchero e, in generale, compostabili. Oppure usiamo il vetro o la plastica oceanica. Abbiamo fatto un progetto con un'associazione per recuperare la plastica nei mari: dopo che è stata raccolta, l'abbiamo pulita e selezionata per fare dei nuovi flaconi. Attualmente siamo riusciti a sostituire il 90% dei contenitori dei nostri articoli con materiali eco-compatibili.

Come si decide quale prodotto nuovo inserire a catalogo?

Spesso un nuovo prodotto, o meglio, l'idea creativa alla sua base, nasce da una ricerca di mercato, dallo studio di cosa c'è già nel mercato e in quali nicchie può essere interessante inserirsi. Quindi, molto spesso l'idea viene dal marketing e poi la ricerca e sviluppo cerca di trasformarlo nella pratica.

Ma un'idea può nascere ovviamente anche dalla ricerca e sviluppo, in quanto il team che se ne occupa è quello che va alle fiere e viene così a conoscenza di innovazioni o ingredienti in trend che possono essere la base per sviluppare un nuovo prodotto, che viene poi sottoposto anche al marketing.

Per cui possiamo dire che nasce dall’intersezione dei nostri saperi e dalla conoscenza del mercato, dei materiali e delle tecniche.

Quali sono le difficoltà più importanti che si devono affrontare in un percorso come il suo?

Le difficoltà sono numerose, ovviamente. Io penso sia importante che ogni imprenditore abbia una visione ottimistica: non ha senso fare l'imprenditore se hai paura del futuro. Invece, parlando di difficoltà pratiche, una che è un po’ banale ma soprattutto all’inizio è stata un po' scoraggiante, è legata alla burocrazia, che in Italia è parecchio complessa e spesso anche poco chiara. Noi siamo molto rigorosi dal punto di vista dei requisiti legali – peraltro per un'azienda moderna è fondamentale essere molto ligi alle regole – ma a volte ci sono delle difficoltà legate alle interpretazioni delle leggi e ai tempi di entrata in vigore. Anche con i consulenti esperti a volte non è facile individuare qual è l’interpretazione “più corretta”.

Quale abilità e competenza è importante avere?

Come per tutte le attività penso che la flessibilità sia una cosa fondamentale, in questi anni di pandemia è stata la chiave di volta per molte aziende che sono riuscite a passare attraverso la pandemia riducendo al minimo i danni. Banalmente, per mesi i prodotti che abbiamo venduto maggiormente sono stati i gel igienizzanti, poi ovviamente c'è stato un crollo delle vendite di quel tipo di prodotto perché, ovviamente, tutti si sono messi a produrli. Per cui è importante avere una certa velocità di risposta al mercato ed essere molto flessibili sul come vendere. Per esempio, nel nostro settore specifico c'è stata un'impennata pazzesca dell'e-commerce, e una diminuzione delle vendite nei negozi fisici altrettanto clamorosa.

Per cui bisogna avere capacità di lettura del dato, rapidità nel prendere decisioni e, come dicevo, flessibilità nelle capacità di business. Questo è un po' il vantaggio delle medie e piccole aziende, perché nelle grandi aziende spesso questo tipo di flessibilità si perde.

Che dimensioni ha la vostra azienda?

A oggi siamo 40-45 persone, abbiamo degli stabilimenti di 3300 metri quadrati, fatturiamo circa 7 milioni di euro l’anno e gestiamo tutto il processo a partire da ricerca e sviluppo: dalla "formula" alla spedizione al cliente finale. Lavoriamo principalmente per il mercato italiano, operiamo anche un po’ all'estero e stiamo cercando di espanderci, di "internazionalizzarci" come si dice, con tutte le difficoltà del caso. Sul mercato italiano siamo piuttosto forti, siamo una delle aziende leader nel settore del biologico. All'estero non è così semplice, almeno per noi, perché finora l'azienda  è sempre stata incentrata molto sui valori miei e di Lucia, che sono stati apprezzati dal mercato italiano. All'estero non abbiamo ancora trovato una proposta di valore forte per poterci inserire in nuovi mercati. Anche perché in Paesi come Francia, e soprattutto la Germania, anche se i mercati sono più grandi, sono anche più maturi e con una competizione molto alta in cui già competono diversi marchi storici del biologico nati negli anni settanta.

A quali altri fattori, oltre a quelli di cui mi ha già raccontato, pensa sia dovuto il vostro successo?

Sicuramente c’è stato un grande cambiamento anche nei consumatori, le persone più giovani sono molto attente e interessate ai prodotti biologici. Il rapporto qualità prezzo dei nostri prodotti è riconosciuto dai nostri consumatori come un elemento molto distintivo della nostra azienda. Inoltre, siamo un’azienda flessibile.

SCIENZA IN PRATICA

Mi può raccontare un esempio di come si applica la scienza nel suo lavoro?

Molto spesso applicare i concetti chimici non è facile. Di frequente, io e il responsabile del reparto ricerca e sviluppo ci troviamo ad analizzare un imprevisto: per esempio, prendiamo il caso di una crema per il viso, che è un'emulsione.

Un'emulsione ha una struttura composta da micelle che deve essere ordinata affinché possa prendere consistenza. A volte succede che l'emulsione non avviene e ti si separano le fasi: capita raramente ma succede, e allora bisogna analizzare che cosa è successo. Per esempio, qualche mese fa un'emulsione fatta centinaia di volte per un prodotto standard, che facciamo da tanti anni sempre con la stessa materia prima comprata dagli stessi fornitori, a un certo punto durante la produzione è diventata completamente liquida.

Ci siamo riuniti per cercare di capire quali potessero essere le possibili cause: per prima cosa abbiamo pensato al tipo di emulsionante, che è anionico e che quindi poteva essere stato disturbato nella sua azione da qualcosa di cationico. Quindi siamo andati ad analizzare la formula del prodotto molecola per molecola per individuare quali erano cationiche e potevano aver interferito. In questo modo abbiamo individuato tre molecole candidate. Siamo andate ad aggiungerle una a una separatamente nella base già costruita per vedere se “rompevano” l'emulsione.

Ci siamo accorti che in determinate condizioni, con determinate sequenze di aggiunta, effettivamente uno di quei tre ingredienti dava "fastidio" all'emulsione. Al che abbiamo contattato il fornitore per capire che cosa era capitato. Il fornitore effettivamente aveva avuto un problema di produzione in quel lotto, che era però conforme nei limiti, pur avendo uno scostamento abbastanza alto rispetto al normale, il che è bastato per interferire con la stabilità dell’emulsione.

LE PROFESSIONI

Quali figure professionali sono richieste in un'azienda come la sua?

Le figure professionali sono tante. Partiamo da quelle di ricerca e sviluppo, per le quali è richiesta una laurea in una materia scientifica come chimica, farmacia, biotecnologie e così via. Poi ci sono le figure commerciali, che hanno un profilo eterogeneo, c’è chi ha una laurea in lingue, chi viene da esperienze commerciali in aziende di altro settore, chi invece ha un’esperienza approfondita nella gestione dei social. Abbiamo poi il reparto amministrazione che si occupa della parte burocratica e di controllo. Abbiamo quindi diverse persone in produzione, che mediamente non sono specializzate, hanno imparato il lavoro direttamente in azienda: il team di ricerca e sviluppo stabilisce nel dettaglio i parametri, gli ingredienti, la procedura, per cui sostanzialmente si tratta di seguire una ricetta, qualsiasi persona che è attenta se ne può occupare.

Abbiamo poi il reparto di magazzino dove le persone addette seguono una lista di prelievo per prendere i prodotti di magazzino per spedirli al cliente. Anche quello è un lavoro che non richiede molta specializzazione. E poi ci siamo io e Lucia che ci occupiamo della direzione. Io sono l'amministratore delegato e mi occupo sostanzialmente della gestione e della parte ricerca e sviluppo, quanto meno per la parte formule, e Lucia si occupa della parte di comunicazione, coordinando tutto il team di marketing e comunicazione. Anche lei si occupa ovviamente di ricerca e sviluppo, perché si tratta di un'attività molto correlata con il marketing, dato che l’analisi del mercato è fondamentale per decidere quali prodotti è opportuno inserire nel catalogo.

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