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Geni e ambiente: un continuo braccio di ferro per plasmare il cervello umano

Qual è il minimo comune denominatore genetico condiviso da tutti i cervelli umani? La risposta è 32, come le vie molecolari indispensabili per il funzionamento del cervello umano. Ma oltre ai geni c'è di più.
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Una memoria prodigiosa, l’orecchio assoluto, un'eccezionale capacità di distinguere gli odori: gli studi di neuroscienze si concentrano spesso sui tratti che rendono il cervello di alcuni esseri umani unico. Ma al di là di questi tratti peculiari, qual è il minimo comune denominatore genetico del cervello, quello condiviso da tutti gli esseri umani? Per rispondere a questa domanda, un gruppo di ricercatori dell’Allen Institute for Brain Science ha studiato il profilo di espressione genica di sei cervelli umani, mettendo in luce i geni e le vie molecolari indispensabili per il funzionamento del cervello umano.
Ricostruzione mediante risonanza magnetica della "sostanza bianca" del cervello: il suo ruolo nel definire le funzioni cognitive umane potrebbe essere addirittura superiore a quella della "sostanza grigia" neuronale (Immagine: Wikimedia Commons).  

Per fare un cervello umano ci voglio 32 network genetici

Il risultato, pubblicato sulla rivista Nature Neuroscience, è stato sorprendente: a dispetto della complessità e della variabilità di funzioni che si svolgono nel nostro cervello, la maggior parte dei geni attivi sembra convergere verso 32 specifiche vie di trasduzione del segnale (i network che, a livello molecolare, controllano lo svolgimento delle funzioni cellulari). Sebbene molte di queste 32 vie molecolari siano condivise anche con altri organismi, come il topo, alcune sono invece una prerogativa umana: su questi network genetici (alcuni già noti per il ruolo in patologie come l’Alzheimer) si concentreranno gli studi futuri, per capire perché siano tanto importanti per distinguere il cervello degli esseri umani da quello delle altre specie. Le sorprese non finiscono però qui. Per anni abbiamo considerato i neuroni come i veri depositari della complessità cognitiva umana; tutte le altre cellule presenti nel cervello erano invece considerate poco più di “cellule di supporto”. Questa visione, già messa in discussione in passato, subisce ora un altro colpo: tra i 32 profili molecolari emersi dallo studio, i ricercatori hanno separato quelli specifici dei neuroni da quelli attivi nelle altre cellule del cervello. Ebbene, mentre i neuroni umani richiedono gli stessi geni già osservati in altre specie, le cellule gliali umane hanno un pattern di espressione genica così unico da far sospettare che proprio queste cellule siano le depositarie dell’unicità del cervello umano.  

Oltre ai geni c’è di più

Possiamo dunque affermare che le funzioni cognitive non sono altro che il frutto di specifiche vie molecolari orchestrate a dovere? Ovviamente no: lo sviluppo cognitivo dipende dal continuo dialogo con l’ambiente. A ribadire questo concetto arriva un secondo studio, pubblicato sulla rivista PNAS, che più di qualsiasi altra analisi prima d’ora sottolinea quanto l’ambiente sia un fattore di prim’ordine nello sviluppo del nostro cervello, molto più dei geni stessi. A questa conclusione si è giunti studiando alcune caratteristiche correlate alle funzioni cognitive, come la dimensione del cervello o la forma e la posizione dei solchi della neocorteccia, la zona del cervello coinvolta nell’apprendimento. Dopo aver studiato mediante risonanza magnetica più di 200 cervelli umani e altrettanti di scimpanzé, i ricercatori hanno concluso che l’impronta genetica emerge solo per alcune caratteristiche, come per esempio le dimensioni delle cervello (che sono infatti molto simili tra individui imparentati). Al contrario, la forma e la posizione dei solchi varia molto anche tra fratelli, suggerendo come in questo caso siano i fattori ambientali a farla da padrone.
Confronto tra le dimensioni e le circonvoluzioni dei solchi della corteccia umana (a sinistra) con quelle di uno scimpanzé (Immagine: modificata da Wikimedia Commons).
Il dato si fa ancora più interessante se si considera che questa discrepanza è evidente negli esseri umani, ma molto di meno negli altri primati. Con tutta probabilità il cervello umano risente molto di più degli stimoli esterni, ai quali cerca continuamente di adattarsi. È come se il substrato genetico formasse un’impalcatura sulla quale l’ambiente va ad agire: negli esseri umani, questa impalcatura è molto più malleabile rispetto agli altri primati. Il risultato è che la neocorteccia umana è più permeabile alle esperienze personali o alle interazioni sociali, alle quali risponde attraverso un continuo modellamento. Questa capacità è presente anche negli scimpanzé, ma in modo più limitato, come se l’impalcatura genetica imbrigliasse in modo più rigido le funzioni cognitive, lasciando all’ambiente minore spazio d’azione. Da questo studio emerge quindi che la plasticità cognitiva è essa stessa un tratto che può evolvere. Negli esseri umani, questo percorso evolutivo ha portato a una permeabilità sempre maggiore agli stimoli ambientali: un requisito indispensabile, su cui si basa la straordinaria capacità di apprendere, sbagliare, correggere e ricostruire tutto da capo del cervello umano. Immagine box: Wikimedia Commons Immagine banner: Wikimedia Commons
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