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Tartarughe giganti delle Galapagos: la salvezza dall'estinzione arriva dalla genetica

Furono i marinai e i pirati ottocenteschi che se ne cibavano ad aprire una inattesa (e involontaria) possibilità di sopravvivenza
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L’arcipelago delle Galápagos, reso famoso dalle esplorazioni ottocentesche di Charles Darwin, era in origine popolato da migliaia di tartarughe giganti. Marinai e pirati non hanno però risparmiato il prezioso ambiente di queste isole, trasformandole nei secoli scorsi in vere e proprie stazioni di rifornimento. Eppure, per queste tartarughe, la possibilità di prosperare in futuro potrebbe venire proprio dalle mani di chi ha contribuito a portarle sull’orlo dell’estinzione.
Lonesome George, l'ultimo esemplare di tartarughe Pinta, morto nel 2012 (Foto: Wikimedia Commons)
Come ricorda Micheal Russello, professore associato di biologia alla University of British Columbia, in un articolo pubblicato sulla Harvard Gazette, i marinai utilizzavano questi giganteschi erbivori come fonte di cibo: la loro capacità di sopravvivere a lungo senza mangiare e bere ne faceva una scorta ideale per i lunghi e spesso imprevedibili viaggi in mare aperto. Non c’è da stupirsi che, ad un certo punto, i marinai abbiano deciso di trasportare queste tartarughe da altre isole in un’area delle Galàpagos dove fossero facilmente raggiungibili via mare, per poterle poi catturare al bisogno. Quel punto è Volcan Wolf, lì dove gli scienziati le hanno oggi ritrovate e si accingono a mappare il patrimonio genetico di questi preziosissimi sopravvissuti. Non c’è dubbio che questo comportamento contribuì, al tempo, a decimare la popolazione di tartarughe: ma, così facendo, i marinai potrebbero però avere, inconsapevolmente, spianato loro la strada per la sopravvivenza. Prima ancora di Darwin furono gli esploratori spagnoli a sbarcare per la prima volta sulle coste di queste isole vulcaniche: notando l’immensa popolazione di gigantesche tartarughe, chiamarono l’arcipelago 'galàpagos', 'tartarughe' in spagnolo. Arrivate sull’arcipelago circa tre milioni di anni fa dalle coste del Sud America, attraverso zattere di vegetazione, le tartarughe si insediarono inizialmente sulle isole di San Cristobal ed Española. Man mano che le popolazioni si divisero, anche geograficamente, iniziarono ad emergere nuove sotto-specie, molte delle quali sono oggi indicate proprio con il nome delle isole dell’arcipelago. Il risultato di questa speciazione progressiva è di quindici sottospecie. Di queste quindici, ben cinque sono già andate estinte: l’ultima perdita si è avuta con la morte, nel 2012, del famoso Lonesome George, l’ultimo solitario esponente della popolazione Pinta.
L'arcipelago delle Galàpagos con la mappa di disrtuibuzione della tartaruga Chlelonoidis Nigra (Immagine: Wikimedia Commons)
Famose per le immense dimensioni, le tartarughe delle Galàpagosà possono raggiungere fino ai 400 chilogrammi, distribuiti su una lunghezza che può arrivare ai centottanta centimetri. Ma le dimensioni sono l’unica peculiarità di questi giganteschi erbivori, che sono anche tra i vertebrati più longevi: se in libertà vivono fino ai cent’anni, un esemplare in cattività raggiunge anche la ragguardevole età di centocinquanta. La loro costituzionale incapacità a fuggire - unita alla bontà delle loro carni – le ha rese in passato una preda ideale per i marinai e per gli abitanti che per primi si sono stanziati in queste Isole. Senza contare il contributo – disastroso – di ratti e capre, anch’essi giunti sulle Isole con i primi sbarchi: se da un lato le capre hanno devastato l’ecosistema di cui soláevano foraggiarsi questi giganteschi erbivori, dall’altro i ratti hanno letteralmente depredato le uova prima della schiusa, decimando rapidamente la popolazione locale di tartarughe. Un destino ormai avviato verso l’estinzione, se non fosse per il contributo di alcuni, caparbi ricercatori. Il tutto è partito dall’esplorazione di Volcan Wolf, il picco più alto dell’Isola di Isabela: non solo si tratta di un habitat ideale per le testuggini, ma è anche facilmente accessibile via mare, ragion per cui fu scelta in passato dai marinai come stazione di rifornimento. Attraverso il censimento genetico degli esemplari rinvenuti in quest’area, gli scienziati sono riusciti ad identificare ben undici individui “ibridi” – alcuni di prima generazione – il cui patrimonio genetico contiene tracce di due popolazioni, Pinta e Floreana, considerate già estinte. Esplorazioni successive hanno portato a collezionare il patrimonio genetico di ben milleseicentosessantanove testuggini: di queste, circa 17 sono di discendenza Pinta, mentre oltre ottanta hanno un antenato Floreana. Di questi ultimi, ben trenta hanno meno di vent’anni: il che fa ben sperare sulla presenza di individui purosangue ancora sull’isola. Il team di ricercatori guidati da Russello è ora pronto a ripartire proprio per stanare alcuni di questi individui, per poterli far riprodurre in condizioni protette sull’Isola Santa Cruz: questi potrebbero essere i fondatori di una nuova colonia di testuggini, in grado di ripristinare una linea considerata già estinta.
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