«Una settimana a Hurgada per 260 Euro. Parto venerdì» mi dice Stefano, il mio parrucchiere, mentre mi fa la piega. Per un minuto dimentico pioggia, umido, cielo grigio piombo, e sogno un bagno a 35°C in mezzo ai coralli. E mi viene in mente un bell’articolo di Science che leggevo quest’estate, proprio sui coralli e sul loro restauro.
Fra gli esseri viventi più spettacolari della Terra, i costruttori di quei prodigi dell’architettura che chiamiamo barriere coralline sono anche esserini utili utili. Prevengono l’erosione delle coste e forniscono cibo e risorse di vita a centinaia di milioni di abitanti delle zone costiere in più di cento Paesi, creando zone pescose e attirando turisti stregati dalla loro bellezza.
Ma i coralli, ormai lo sappiamo, sono fragili. Secondo l’autorevole rapporto sullo stato delle barriere coralline, del 2008, quasi il 20% delle barriere del pianeta è ormai distrutto, senza prospettive di ripresa a breve termine; e un altro 15% è a rischio di collasso entro i prossimi vent’anni. Le cause? Le solite note: la pressione umana, il cambiamento climatico (in parte provocato sempre da noi bipedi), ma anche fenomeni atmosferici come El Niño e La Niña.
Una condanna a morte senza appello? È possibile, ma non certa. Diverse barriere si riprendono da sole. Altre, più compromesse, potrebbero farlo grazie alla tenacia e al metodo di alcuni scienziati che ci forniscono qualche buona ragione di ottimismo.
Nella laguna giapponese di Sekisei si prova a far ricrescere i coralli su dischi di ceramica progettati appositamente per fare da ‘case’ alle larve.
I subacquei lasciano dapprima i dischi vicino a una macchia di corallo superstite. Qui presto o tardi saranno deposte le uova e dalle uova emergeranno le larve. Una volta che le larve si sono stabilite sui dischi, i subacquei traslocano il tutto in una zona protetta della laguna dove si possono formare le colonie. Dopo un anno e mezzo un nuovo, definitivo trasloco: i dischi con le colonie cresciute saranno cementati su parti morte della barriera corallina. La speranza dei ricercatori dell’International Coral Reef and Monitoring Center di Ishigaki è che i coralli trapiantati possano ridare vita e colore alle lande più desolate della laguna.
In Israele si tenta con la «silvicultura sottomarina»: al National Institute of Oceanography di Haifa si raccolgono coralli da donatori (quante cose si donano oltre al sangue!), li si rompono in pezzi di mezzo centimetro di diametro e li si incollano su un substrato qualunque (vanno bene una conchiglia, ma anche un pezzo di plastica). Quindi i frammenti sono attaccati a una rete sottomarina protetta, dove i piccoli coralli sono lasciati crescere per un anno circa. Dodici mesi più tardi, il trapianto sulla barriera priva di vita. A partire da queste nursery israeliane, con più di 10.000 coralli a diversi stadi di crescita, si sono già trapiantate quasi 3000 colonie nel Mar Rosso e in altri mari in Asia e in America.
I ricercatori dell’Australian Institute of Marine Science, di Perth, osano ancora di più: hanno imparato a catturare uova e spermatozoi dei coralli e a fare incroci di gameti, in modo da aumentare la diversità genetica delle larve, coltivate dapprima in semplici piscinotte, quindi su una barriera artificiale, fino al trapianto definitivo, nella barriera corallina di Palau.
Nelle Filippine, dove i soldi scarseggiano, sono i pescatori di Bolinao a provarci, guidati dai biologi marini dell’Università delle Filippine di Diliman e del Bolinao Marine Lab. Con la barriera corallina sbiancata (in questo caso da decenni di pesca con le bombe) scompare l’habitat per 9 milioni di specie marine, fra cui 4000 tipi di pesci. Così i pescatori disoccupati si prestano a scendere sul fondo marino, con pinne improvvisate di compensato, e a spostare con la fiocina pezzi di corallo sano in aree derelitte.
Giappone, Israele, Australia, Filippine: quattro progetti, dal più ricco al più povero, dal più tecnologico al più semplice. La scienza del restauro dei coralli è agli albori. Ciascun progetto copre aree più piccole di un ettaro, con danni da riparare su scale di centinaia di migliaia di chilometri quadrati. Quel che conta tuttavia è sperimentare e vedere se almeno uno fra questi approcci può essere usata su una scala più ampia.
Non ho trovato video di queste esperienze, ma questo filmato, di un’esperimento americana, può comunque dare un’idea di come si restaurano i coralli:
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Per approfondire:
Le migliori pratiche nella gestione delle barriere coralline, sul sito reefbase.