Ogni volta che l’American Psychiatric Association approva una nuova edizione del Manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali (DSM) quasi nessuno è contento. C’è chi protesta per le malattie aggiunte, chi per quelle tolte, chi per le liste di sintomi che divergono rispetto al passato.
Perché tanto baccano? Perché ogni variazione di questo manuale tocca la vita di milioni di persone, tanto è esteso il suo impatto sulla società. Circa 450 milioni di individui, o il 6,5% della popolazione mondiale, soffre di una qualche malattia mentale, secondo un rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità. E in molti paesi il DSM è diventato una sorta di bibbia della mente: per ottenere un rimborso sanitario, pubblico o privato, c’è bisogno di una diagnosi basata sul DSM; per stabilire l’eventuale infermità mentale di una persona accusata di un crimine bisogna rientrare nei criteri del DSM; per i problemi che possono insorgere in una famiglia, una scuola, un servizio sociale, un carcere si chiedono lumi agli interpreti del DSM.
Dal 1952 a oggi sono uscite cinque edizioni, a una distanza media di 12 anni l’una dall’altra, e ogni volta si è scatenata una tempesta di reazioni. L’annuncio della quinta edizione, il primo dicembre, non ha fatto eccezione. Fra i commenti più caustici, c’è quello di Tom Stafford e Matt Webb nel blog MindHack: per i due neuroscienziati il DSM-5 “è arcano, contraddittorio e parla di entità invisibili che nessuno può veramente provare”.
Come fa un libro con una reputazione così controversa a essere diventato un riferimento tanto importante? Fino alla seconda edizione, uscita nel 1968, il DSM era un oscuro manualetto spiralato di 150 pagine, che comprendeva un centinaio di malattie descritte frettolosamente. Saltiamo alla quarta edizione, nel 2000, e le pagine sono diventate 900, le malattie si sono triplicate, e così le liste dei sintomi associati a ogni stranezza.
Da testo di consultazione di pochi psichiatri ospedalieri, il manuale si è trasformato in una specie di best-seller con milioni di copie vendute e più di venti traduzioni in lingue straniere (gli stampatori sono fra i pochi sempre molto contenti).
Ma che cosa ha provocato l’esplosione di malattie e sintomi da un’edizione all’altra? O forse, la domanda più importante è: che problema aveva la psichiatria al tempo delle edizioni più esili del DSM?
Il problema della psichiatria era (ed è ancora oggi) la riproducibilità delle diagnosi, ovvero il fatto che lo stesso paziente riceve troppo spesso una valutazione differente a seconda dello specialista cui si rivolge.
Gli psichiatri si erano accorti di questo problema durante una delle prime diagnosi di massa di problemi mentali. All’alba della Seconda guerra mondiale il numero di volontari non arruolati per problemi psichici negli Stati Uniti variava, da una commissione di leva all’altra, anche dal 20 al 60 per cento. Poiché a Wichita non potevano esserci un terzo degli stravaganti di Baltimora, il problema andava risolto. Ma come fare?
Prima di tutto occorreva capire la dimensione del problema. Lo psicologo Philip Ash, in uno studio del 1949, aveva osservato che in media tre psichiatri raggiungevano la stessa diagnosi per lo stesso paziente solo nel 20% dei casi o in un paziente ogni cinque; nel 1962 uno studio simile, di Aaron T. Beck, il fondatore della terapia cognitiva comportamentale, aveva trovato un dato di poco migliore: l’accordo fra le diagnosi era soltanto del 30-40% o in circa un paziente ogni tre.
Senza un metodo per fare diagnosi riproducibili il sistema funzionava in modo casuale o, per meglio dire, non funzionava affatto. Se infatti i medici non erano d’accordo sulle diagnosi, non erano d’accordo neppure sulle cure. Né potevano andare d’accordo sul modo di testare nuove terapie, perché per fare questo avrebbero dovuto essere d’accordo sulla diagnosi comune di un gruppo di pazienti, grande a sufficienza a dare valore statistico a una sperimentazione.
Perché tante differenze? Gli psichiatri non dispongono ancora di esami come quelli del sangue, o di immagini facili da misurare e interpretare, per scoprire che cosa accade dentro la testa di una persona. In genere arrivano alla diagnosi tramite osservazioni, interviste, colloqui con cui cercano di capire come vanno le cose dall’esterno, attraverso il linguaggio del paziente e del medico. Ma ogni paziente ha modi diversi di descrivere i propri sintomi e, a differenza di un medico che valuta un esame del sangue, ciascuno psichiatra può avere, legittimamente, un’idea molto personale di come si presenta una malattia della mente. L’oggettività è necessariamente limitata.
Per ridurre la scarsa riproducibilità delle diagnosi è nata l’idea di creare un sistema di classificazione semplice e non ambiguo delle malattie mentali. L’intenzione era nobile e lo sforzo è stato immenso. Centinaia di psichiatri, coordinati da un curatore (quasi sempre diverso per la preparazione di ogni nuova edizione) hanno cominciato a riunirsi negli Stati Uniti a partire dagli anni Settanta. L’idea era di distillare gli infiniti tratti di personalità e le illimitate bizzarrie della mente umana in descrizioni distinte ma condivise. E di corredare ogni descrizione con una “etichetta” diagnostica e un corredo di sintomi. Accanto al bisogno fondamentale di trovare un accordo fra le infinite interpretazioni possibili, c’era anche la necessità di elaborare un linguaggio meno arcano, fantasioso ed elitario di quello che aveva caratterizzato la psicoanalisi nella prima metà del secolo, e di evitare le trappole nate dai conflitti fra le diverse scuole di pensiero.
C’era anche un bisogno molto pratico: i manicomi stavano cedendo il passo ai farmaci e una vita libera da costrizioni fisiche avrebbe potuto essere offerta, entro certi limiti, a diversi milioni di persone nel mondo. A patto che si riuscisse a fare diagnosi accurate su grande scala, possibilmente coerenti da paziente a paziente, e che si potessero così prescrivere gli antipsicotici e gli altri farmaci sfornati da poco dalle industrie farmaceutiche.
Fare diagnosi di malattie mentali doveva diventare un compito facile come seguire una ricetta: qualunque medico, anche un generalista senza un’esperienza e una competenza specifica, doveva poter stabilire in una breve visita se una persona presentasse almeno alcuni dei sintomi di un problema descritto nel manuale. Oggi negli Stati Uniti l’80% delle prescrizioni di psicofarmaci avviene nello studio del medico di base e in Europa non siamo distanti da queste percentuali.
È riuscito il DSM a rendere le diagnosi più coerenti da un medico all’altro? Per rispondere a questa domanda l’American Psychiatric Association, nel corso dell’elaborazione del DSM-4, aveva avviato una ricerca sostenuta dalla MacArthur Foundation, ma i risultati non sono mai stati pubblicati. Non un buon segno. Altri studi hanno trovato, dal DSM-3 in poi, una riproducibilità delle diagnosi non molto diversa da quella degli anni Cinquanta e Sessanta.
Nonostante gli sforzi il DSM è ancora un catalogo di fenomeni descritti dall’esterno, come del resto erano i libri medici che raccontavano le malattie delle altre parti del corpo fino a mezzo secolo fa, quando non c’erano ancora gli attuali metodi di indagine. Purtroppo il cervello resta uno dei pochi organi ancora molto difficili da studiare: la sua complessità e la sua delicatezza impediscono spesso di approfondire senza provocare danni.
In assenza di criteri basati su prove verificabili il DSM si è via via infarcito di un mucchio di patologie tirate per i capelli che hanno determinato milioni di diagnosi inutili o dannose. Perfino Allen Frances, il curatore del DSM-4, ha dichiarato che “la storia della psichiatria è piena zeppa di diagnosi dettate da mode che, guardate a posteriori, hanno fatto più male che bene” (e nel suo post ha anche elencato le dieci novità più dannose del DSM-5). I più critici da questo punto di vista sono forse Stuart Kirk ed Herb Kutcher, professori emeriti, il primo di public policy all’Università della California a Los Angeles, il secondo di scienze sociali alla California State University di Sacramento. Il libro che hanno scritto insieme, Ci fanno passare per matti, ha un titolo che parla da solo. In effetti una diagnosi sbagliata o inutile può essere un marchio che una persona non si toglie più di dosso e può essere anche l’inizio di un percorso terapeutico non necessario, ma comunque ricco di insidie e di effetti collaterali.
La biologia ha strumenti potenti per mettere in luce parentele fra le malattie che le osservazioni e le descrizioni non possono vedere. In effetti molte malattie mentali, cui oggi la psichiatria affibbia diagnosi disparate, sembrano avere una base biologica comune. Per esempio, i genetisti hanno trovato parecchie affinità fra varie forme di autismo, alcuni tipi di schizofrenia e di epilessia che nel DSM non appaiono.
Geni e neuroni potrebbero rappresentare la soluzione al problema delle diagnosi in psichiatria? Negli ultimi dieci anni la biologia ha identificato numerosi geni e circuiti di neuroni che sono coinvolti nei comportamenti umani sia normali sia patologici. Dall’insieme di queste scoperte sta nascendo una sorta di mappa genetica e neuronale degli elementi biologici alla base del disagio psichico, che è meno ambigua delle osservazioni e delle descrizioni, perché a molecole rilevabili e misurabili è più difficile dare tante interpretazioni diverse. Ma il problema è che fra questa nuova mappa e le descrizioni delle malattie e dei sintomi contenuti nel DSM c’è una scarsissima sovrapposizione.
Molti sostengono che bisognerebbe buttare via il DSM e ricominciare da zero, con un fondamento finalmente scientifico e non più descrittivo. Nelle prossime settimane gli organizzatori di una petizione per riformare il DSM-5, lanceranno un forum in rete per discutere un nuovo sistema diagnostico, come ha riportato il sito del New Scientist. Alla petizione hanno già aderito 14.000 professionisti della salute mentale.
Un altro sviluppo che va nella buona direzione è il progetto Research Domain Criteria, iniziato quest’anno dal National Institute of Mental Health di Bethesda in Maryland. Al posto delle “etichette” diagnostiche superficiali che attualmente sono appiccicate ai pazienti, il progetto punta a sviluppare alcune misure biologiche e del comportamento che riflettano le alterazioni dei circuiti nervosi capaci di scatenare una malattia mentale. Un aspetto importante del progetto è che le misure non daranno risultati discreti, ma includeranno scale graduate, in modo da seguire il continuum che esiste nella popolazione fra una condizione di normalità e una di malattia. Ma occorreranno anni prima che i medici possano usare queste misure nella loro pratica quotidiana, ammesso che si riescano a individuare, riescano a dare ragione di tanta varietà e complessità e si dimostrino affidabili. In attesa di questo futuro meno confuso, adesso che cosa si può fare?
“Primo, non nuocere” conclude giustamente Allen Francis nella sua critica al nuovo manuale, ricordando uno dei primi principi che si insegnano nelle facoltà di medicina. “La gente che soffre di problemi psichiatrici seri, che possono essere diagnosticati in modo abbastanza attendibile e curati in modo relativamente efficace, sono già abbastanza bistrattati. Il DSM-5 peggiorerà i loro problemi, dirottando attenzione e scarse risorse dai malati gravi a persone con i tipici problemi della vita, che a loro volta saranno danneggiati, e non aiutati, da diagnosi improprie di malattie mentali” […] “I pazienti meritano di meglio, la società merita di meglio, la professione della salute mentale merita di meglio”.
Per scrivere questo post ho consultato fra le altre cose The Dictionary of Disorder di Alix Spiegel, The New Yorker, Jan. 3 2005; DSM5 in Distress di Allen Frances, M.D., Psychology Today, Dec. 2 2012; The DSM-5 has been finalised, Mindhack, Dec. 2 2012; The emerging biology of Autism Spectrum Disorders di Matthew W. State e Nenad Šestan, Science Vol. 337 no. 6100 pp. 1301-1303 Sep 14 2012. L’immagine di apertura è dell’archivio Shutterstock.