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SPECIALE CORONAVIRUS

Obbligo o non obbligo? Il dilemma dei vaccini anti-Covid

All’inizio del 2021 è partita la campagna vaccinale italiana. Il Governo ha deciso di non imporre l’obbligo di vaccinarsi preferendo un approccio più soft, basato sull’adesione volontaria dei cittadini. Una scelta fondata su valutazioni condivisibili, ma che lascia aperti alcuni interrogativi. Il punto di vista del diritto.
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Tra gli ultimi giorni del 2020 e l’inizio del 2021 è partita nel nostro paese la campagna vaccinale. Il Governo italiano, come molti altri del resto, ha deciso di non imporre l’obbligo di vaccinarsi preferendo un approccio più soft, basato sull’adesione volontaria dei cittadini. Una scelta fondata su valutazioni condivisibili, ma che lascia aperti alcuni interrogativi. Immaginiamo che una parte non trascurabile di popolazione rifiuti di vaccinarsi, un po’ per diffidenza, un po’ per le paure instillate dai movimenti no-vax, un po’ per una sorta di calcolo opportunistico da free-rider (lascio che si vaccinino gli altri, così sfrutto l’immunità di gregge senza vaccinarmi io). In un simile scenario il Governo avrebbe il potere di introdurre l’obbligo vaccinale? Se sì, a quali condizioni? Potremmo aspettarci un “DPCM vaccini”? E quali misure adottare fin da ora nei confronti del personale sanitario che rifiuta di vaccinarsi? Prima di rispondere a queste domande dobbiamo fare un passo indietro e partire dalla Costituzione, in particolare dall’articolo 32, perché è da lì che devono passare tutte le scelte che impattano sulla nostra salute.  

Le due dimensioni della salute

L’articolo 32 si apre con un’affermazione apparentemente banale. E cioè che la salute è un diritto fondamentale dell’individuo e, contemporaneamente, un interesse della collettività. In pratica il diritto alla salute tocca due diverse dimensioni, quella individuale (ciascuno di noi ha il diritto di essere curato) e quella collettiva (è nell’interesse di tutti che la popolazione sia in buona salute, perché una comunità debilitata dalle malattie difficilmente può prosperare e offrire una qualità di vita soddisfacente). Concentriamoci sulla dimensione individuale del diritto alla salute. Ciascuno di noi ha diritto di essere curato. Ma ha anche il dovere di curarsi? La regola generale è che no, non si possono imporre trattamenti sanitari contro la volontà dell’interessato. Nessuno può essere costretto ad assumere farmaci o a sottoporsi a un esame diagnostico o a un intervento chirurgico contro la sua volontà. Nemmeno quando da quella terapia o quell’intervento dipenda la sua stessa sopravvivenza. Un esempio classico è quello del rifiuto di emotrasfusioni per motivi religiosi da parte dei Testimoni di Geova. Se un Testimone di Geova è maggiorenne e capace di intendere e di volere, ha tutto il diritto di rifiutare la trasfusione anche a rischio della vita. E se il medico procede comunque con la trasfusione, andrà incontro a sanzioni anche gravi. Dunque, come regola generale la salute è un diritto e non un dovere. Ma a questa regola la Costituzione pone un correttivo. Un correttivo che non sarebbe necessario se fossimo gli unici abitanti di un’isola deserta. Ma dal momento che viviamo in una comunità, dobbiamo fare i conti con quella che abbiamo chiamato dimensione collettiva della salute. In breve: ciascuno di noi è libero di regolarsi come meglio crede riguardo la propria salute, ma non al punto di mettere in pericolo la salute altrui. E qui arriviamo ai vaccini. Chi decide di non vaccinarsi compie una scelta che non riguarda solo la sua salute (come invece nel caso del Testimone di Geova), ma riguarda anche le persone con cui entra in contatto e che può esporre al contagio. Ecco perché, a determinate condizioni, la Costituzione prevede la possibilità di imporre l’obbligo vaccinale. Ci resta ora da capire quali siano queste condizioni, per vedere se ricorrano nel caso dei vaccini anti-Covid.
Per approfondire:
 

A quali condizioni può essere imposto un vaccino?

Le condizioni sono essenzialmente due, e la Corte costituzionale è tornata in più occasioni a precisarle.
  • Prima condizione: per imporre un trattamento sanitario bisogna che esso corrisponda all’interesse pubblico, cioè vada a vantaggio della salute collettiva. Se consideriamo i vaccini in generale, raggiungere l’immunità di gregge è chiaramente un obiettivo di interesse pubblico e quindi il requisito può dirsi soddisfatto. Nel caso specifico dei vaccini anti-Covid si potrebbe obiettare che, per il momento, non siamo certi che impediscano di contagiare gli altri. Tuttavia, sulla base del principio di precauzione e delle conoscenze medico-scientifiche disponibili, l’obbligo vaccinale potrebbe comunque ritenersi ragionevole. Del resto, anche laddove l’effetto fosse solo protettivo per il ricevente, si avrebbe comunque un grande beneficio per la salute pubblica. Quello di abbattere il numero dei pazienti Covid ricoverati in terapia intensiva, così da evitare il collasso del sistema sanitario e liberare risorse e personale per la cura, l’assistenza e la prevenzione di tutte le altre patologie.
 
  • Seconda condizione: un trattamento sanitario può essere imposto solo se, oltre a beneficiare la salute pubblica, va anche a vantaggio del singolo che lo riceve. Nel caso dei vaccini è facile intuire quale sia il beneficio per il singolo: azzerare o ridurre significativamente il rischio di ammalarsi. Naturalmente, prima di dare il via libera bisogna che il vaccino sia sicuro. Sicuro non significa che non siano possibili effetti avversi – il “rischio zero” non esiste per nessun farmaco. Significa invece che la comunità scientifica deve poter garantire, con un livello di certezza sufficientemente rassicurante, che il vaccino non abbia effetti dannosi apprezzabili e che le conseguenze gravi siano estremamente limitate. Per questo l’approvazione dei vaccini anti-Covid – e in generale di ogni farmaco – è stata preceduta da una serie di test e procedure di controllo da parte di autorità indipendenti (per esempio l’EMA, l’Agenzia europea per i medicinali, di cui tanto sentiamo parlare). A tutto questo la Corte costituzionale ha aggiunto un’ulteriore tutela: le persone che subiscono conseguenze serie – e che per definizione saranno poche! – devono ricevere un indennizzo (sentenza n. 5 del 2018). 
Ora che abbiamo messo alcuni punti fermi possiamo tornare a una domanda che ci eravamo posti. Se fra qualche mese la percentuale dei vaccinati si rivelasse troppo bassa, possiamo aspettarci un “DPCM vaccini” che introduca un obbligo vaccinale?
Per approfondire:
 

Possiamo aspettarci un “DPCM vaccini”?

La risposta è negativa. L’articolo 32 della Costituzione ci dice che solo una legge del Parlamento ha il potere di introdurre un obbligo vaccinale. Quindi un atto del Presidente del Consiglio, quale è il DPCM, non ha il potere di farlo. Ma perché serve proprio una legge? Il motivo è che l’imposizione di un trattamento sanitario rappresenta un’eccezione alla regola generale (quella della volontarietà delle cure), e solo il Parlamento, in quanto massimo organo democratico, può spingersi a regolare un ambito così delicato. A questo proposito vale la pena ricordare che nel giugno 2017 alcuni obblighi vaccinali furono introdotti tramite decreto-legge (il cosiddetto “decreto vaccini” promosso dalla Ministra Lorenzin per contrastare il calo della copertura vaccinale rispetto agli standard dell’OMS). Il Governo giustificò il ricorso al decreto-legge sulla base dell’urgenza di intervenire, e il mese successivo il decreto fu regolarmente convertito in legge, la numero 119 del 2017. Tutti i ricorsi presentati sono stati respinti dalla Corte costituzionale. Quindi tutti gli obblighi vaccinali attualmente esistenti trovano fondamento in una legge del Parlamento, come previsto dalla Costituzione. A questo punto rimane da affrontare un’ultima domanda.
Guida al “decreto vaccini” convertito in legge
 

Se un medico o un infermiere rifiuta di vaccinarsi, può essere licenziato?

Al momento, come abbiamo visto, non esiste una legge che imponga la vaccinazione anti-Covid al personale sanitario e a quello delle residenze per anziani. Certo, in un prossimo futuro il legislatore potrebbe decidere di considerare la vaccinazione un requisito necessario per l’esercizio di queste professioni. Una decisione che andrebbe nella direzione già tracciata dai codici di deontologia che impegnano il medico e l’infermiere a garantire ai loro assistiti le migliori condizioni di sicurezza. Ma al momento questa legge non c’è e il codice deontologico non ha la forza di sostituirla. Oltretutto, non tutte le professioni di cura e assistenza hanno un loro codice deontologico (basti pensare agli operatori delle residenze per anziani). Quindi per rispondere alla domanda dobbiamo fare riferimento alla normativa esistente, a partire dal Testo unico salute e sicurezza. Il Testo unico prevede che se i lavoratori (nel nostro caso, il personale sanitario e quello delle residenze per anziani) sono esposti ad agenti biologici rischiosi, come il SARS-CoV-2, il datore di lavoro è tenuto ad adottare misure protettive idonee. Fra queste ci sono anche i vaccini, previo parere del medico competente. E se un lavoratore rifiuta di vaccinarsi senza un giustificato motivo? In tal caso, se la natura delle sue mansioni è incompatibile con il lavoro da remoto, e se non è possibile adibirlo a mansioni che gli consentano di lavorare isolato dagli altri, quel lavoratore può essere sospeso fino alla cessazione della pandemia. Sospensione che comporta, vale la pena ricordarlo, il mancato pagamento dello stipendio. Il licenziamento rimane quindi un’ipotesi residuale. In linea di principio non si può escludere, ma l’opzione prevalente è quella della sospensione senza stipendio. Ma c’è dell’altro. Finora abbiamo considerato il rapporto fra il datore di lavoro e il personale. Ma bisogna considerare anche il versante dei pazienti e degli ospiti delle RSA che con il personale entrano in contatto. La struttura sanitaria è tenuta a garantire la sicurezza e salubrità dell’ambiente in cui i pazienti soggiornano. Se il personale medico, infermieristico o assistenziale contrae il virus e infetta le persone ricoverate, la struttura può essere chiamata a fronteggiare pesanti richieste di risarcimento da parte dei pazienti infettati. Per cautelarsi rispetto a questa evenienza, la struttura potrebbe esigere che il personale si sottoponga alla vaccinazione. E, in caso di rifiuto non motivato da ragioni di salute, si tornerebbe allo scenario descritto poco fa: lavoro da remoto e isolamento se possibili; altrimenti, sospensione senza retribuzione con, sullo sfondo, il rischio di licenziamento. Naturalmente, in tutti questi casi il lavoratore potrebbe contestare i provvedimenti presi nei suoi confronti aprendo un contenzioso davanti al giudice.
Per un’analisi più approfondita dei risvolti giuridici si veda questa pagina del Quotidiano Giuridico
 

Oltre l’obbligo: nudging e compliance

Abbiamo visto che un eventuale obbligo vaccinale contro il SARS-CoV-2 non troverebbe ostacoli nella Costituzione. Ma vale la pena chiedersi se esistano altri strumenti per ottenere un’alta adesione ai vaccini da parte della popolazione. Ci sono strategie alternative a quella dell’obbligo? La risposta è positiva. Vediamone un paio.
  • La prima strategia è quella del nudging, che potremmo tradurre come strategia del pungolo e dell’incentivo. Invece di ricorrere all’obbligo e alla coercizione, si orientano le scelte delle persone in modo indiretto, per esempio assegnando incentivi e bonus a chi si vaccina (anche ricorrendo a strategie di gamification), e inibendo l’accesso a determinati servizi per chi non si vaccina, così da indurlo a vaccinarsi.
  • La seconda strategia è quella della compliance e probabilmente è la più desiderabile fra le tre, ma è anche la più difficile da attuare perché richiede una popolazione culturalmente matura, un alto livello di fiducia dei cittadini nei confronti della scienza, un dialogo continuo e trasparente fra cittadinanza, classe politica e comunità scientifica. Nel modello della compliance i cittadini aderiscono spontaneamente alle proposte validate dalla comunità scientifica perché convinti della loro bontà.
Facciamo un esempio suggerito da Yuval Harari in un recente articolo pubblicato sul Financial Times. Oggi tutti noi siamo convinti dell’utilità di lavarci le mani con il sapone. Un’azione che compiamo spontaneamente e in modo meccanico, ma fino a metà Ottocento medici e infermieri passavano da un’operazione chirurgica all’altra, da un’autopsia alla sala parto, senza mai lavarsi le mani. Saranno gli studi compiuti da Ignác Semmelweis sulla mortalità da febbre puerperale a mettere in relazione le due cose, studi che peraltro gli varranno la derisione e l’ostracismo dei suoi contemporanei. Oggi miliardi di persone si lavano quotidianamente le mani non perché abbiano paura di quella che Harari chiama la “soap police”, una polizia del sapone pronta a punire chi disobbedisce, ma perché sanno che esistono virus e batteri, sanno che questi minuscoli organismi provocano malattie e che il sapone può rimuoverli. Quale fra queste tre strategie – obbligo, nudging, compliance – sia da preferire dipende da valutazioni fatte caso per caso e dal contesto di riferimento. Ma, forse, un uso combinato può rivelarsi la mossa vincente.
Per approfondire:

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