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Prendere decisioni quando le variabili sono molte e complesse

Intervista a Lina Salmon, manager che trova soluzioni per ottimizzare i processi logistici

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Immagine di copertina per gentile concessione di Lina Salmon

Lina Salmon è laureata in ingegneria elettronica e ha ampliato con corsi ed esperienza sul campo le sue conoscenze per imparare a gestire – e far crescere - progetti e team di lavoro. Oggi lavora in qualità di business unit manager presso Tesi SpA, una grande azienda che opera a livello nazionale e internazionale fornendo servizi per ottimizzare i processi logistici per clienti di vario tipo e dimensione: aziende del mondo alimentare, della moda, della filiera agroalimentare e della grande distribuzione, per citarne alcuni. Si tratta di un lavoro complesso, in cui si intersecano competenze tecniche dell’information technology con la conoscenza dei processi coinvolti e con la capacità di gestire un gruppo di lavoro, oltre all’abilità di interfacciarsi con i clienti, ideando di volta in volta la soluzione più adeguata.

INDICE

  • Lei fa un lavoro che forse non è molto noto, ce lo può descrivere?
  • Dal punto di vista pratico, in che cosa consiste il suo lavoro?
  • Di che tipo di prodotti si occupa?
  • Che percorso di studi ha fatto per fare questo mestiere?
  • Quali conoscenze e competenze che usa oggi nel suo lavoro derivano direttamente dagli studi di ingegneria e che cosa ha dovuto aggiungere in seguito?
  • E per quanto riguarda le soft skill?
  • Quali sono quegli aspetti che è bene conoscere prima di affrontare il suo lavoro, perché magari bisogna esserci “portati”?
  • Questo per il team di lavoro. E verso i clienti?
  • E che cos'è che la entusiasma di più nel suo lavoro?
  • Quali sono le sfide che vede nel futuro, pensando a chi sta iniziando l'università adesso?
  • Ci può fare un altro esempio concreto per capire in che modo l’IT migliora il processo decisionale?
  • Quante donne fanno questo mestiere?
  • C’è qualcosa che ha imparato nel tempo, lavorando, e che pensa sia utile sapere già prima di iniziare l’università
  • Che cosa vuol dire lavorare secondo lei?
  • SCIENZA IN PRATICA – Ci può fare degli esempi di applicazione dell’IT nella logistica?
  • LE PROFESSIONI – Il team di lavoro

PER APPROFONDIRE

  • Leggi altre interviste sull’analisi dati
  • Obiettivo: analisi dati – scopri percorsi di studio e sbocchi professionali
  • Scopri dove si studiano le ingegneria, l’informatica e la matematica

Lei fa un lavoro che forse non è molto noto, ce lo può descrivere?

In realtà penso che il mio ruolo sia molto diffuso, anche se sicuramente al momento ci sono poche donne che lo rivestono. È un ruolo a cavallo tra gestione di persone e gestione di progetti, a cui si aggiunge una parte di supporto alle vendite, quella che viene chiamata prevendita. Si tratta di una figura professionale con un mix di competenze che in aziende di dimensioni come quella in cui lavoro è sempre più frequente: ossia un’organizzazione fatta di business unit che si estende “a matrice” verso funzionalità commerciali.

Se capisco bene, quindi, si tratta di gestire un lavoro che in parte è “verticale”, all’interno della propria business unit, e in parte è “in orizzontale” dovendo interagire a matrice con altre componenti aziendali. Dal punto di vista pratico, in che cosa consiste il suo lavoro?

A livello macroscopico, io mi occupo di due cose. Una è gestire un gruppo di persone, la business unit, che ha dentro diverse tipologie di seniority: persone più giovani che devono crescere e profili più senior; possono essere figure di project manager, tecniche, funzionali. Si tratta di un gruppo di un po’ più di una decina di persone che sta crescendo. L’altra parte del mio lavoro è gestire i progetti con i clienti e soprattutto la loro crescita. Nella sostanza, mi sono attribuiti dei clienti, che, a seconda della loro dimensione, gestisco con team di dimensioni diverse. Di solito opero con un team composto da persone della mia business unit, ma anche di altre business unit secondo un’organizzazione a matrice. La dimensione del team può variare in base all’esigenze dei clienti e delle progettazione in corso. Dal punto di vista operativo, si tratta di creare una relazione di ascolto con i clienti, nuovi o già in essere, per portare la nostra offerta e, soprattutto, per ragionare insieme di soluzioni che creino valore per loro. Una cosa bella del mio lavoro è che anche se la mia azienda ha una sua offerta, cioè ha dei prodotti a catalogo, esiste una parte di innovazione legata alla possibilità di comporre nuove soluzioni a partire da prodotti che abbiamo già, per aiutare il cliente a risolvere il suo specifico problema e ottimizzare i processi esistenti.

Di che tipo di prodotti si occupa?

La nostra è un’azienda che offre servizi rivolti alla supply chain, la catena di forniture in ingresso e in uscita di varie aziende. Questo significa lavorare con i clienti, che operano in tutti i settori merceologici, tra cui molte aziende con nomi noti anche ai non addetti al settore: importanti aziende alimentari, automobilistiche, della moda, della grande distribuzione ecc. Si tratta in tutti i casi di aziende che hanno bisogno di far entrare merci e far uscire prodotti, lavorando con una galassia di attori: fornitori, corrieri (che sono di tanti tipi), i loro clienti. I servizi che offriamo noi sono volti a ottimizzare i processi logistici mettendo a sistema questa galassia di attori che lavorano con relazioni complesse tra di loro.

Che percorso di studi ha fatto per fare questo mestiere?

Io ho studiato ingegneria, in parte anche per seguire le orme paterne, perché in casa mia si respirava un’aria scientifica, dove con “scientifico” si intendeva la passione per risolvere problemi. Mio padre è stato un ingegnere meccanico abbastanza noto nel suo campo, si occupava di robotica, in un ambito molto avanzato per quei tempi e aveva quindi una forte spinta al problem solving e per affrontare sfide nuove attraverso l’innovazione. C’era poi anche un tema di employability; ai miei tempi non era come adesso, in cui c’è un ampio ventaglio di corsi di laurea tra cui, immagino, non sia molto facile orientarsi. Io avevo davanti pochi corsi di laurea tra cui scegliere. Ho scelto ingegneria perché tra i corsi dell’epoca sembrava dare più spazio a una crescita professionale. In particolare, ho studiato ingegneria elettronica: all’epoca non c’era l’ingegneria gestionale, ma era possibile specializzarsi nell’ambito gestionale, che stava iniziando in quegli anni. Ho dato anche un esame di Marketing a Economia e Commercio, proprio per cercare di ampliare le mie conoscenze. Poi, quando ho terminato gli studi, ho provato a restare in università. Mi sarebbe piaciuto, sia per gli aspetti dell’insegnamento e di crescita dei giovani – che è una cosa che mi interessa tutt’ora – sia di ricerca. Però alla fine sono andata a lavorare in azienda: ho girato più aziende, facendo ovunque potessi dei corsi per la mia crescita professionale e per poter ampliare il bagaglio che mi derivava dagli studi a Ingegneria. Gli studi sicuramente mi hanno dato tanto, soprattutto con il percorso che ho fatto io, che sono uscita con un approccio più ampio e completo che se non avessi fatto corsi extra rispetto a quelli previsti dai percorsi più tradizionali e verticali.

Quali conoscenze e competenze che usa oggi nel suo lavoro derivano direttamente dagli studi di ingegneria e che cosa ha dovuto aggiungere in seguito?

Nel mondo professionale di solito si distingue tra hard skill e soft skill. Per quanto riguarda le hard skill, ingegneria sicuramente ti da l’approccio speculativo e il bagaglio tecnico che servono per indirizzare la risoluzione dei problemi: il famoso paradigma “dell’elefante che si mangia a piccoli morsi”. Ingegneria ti aiuta ad approcciare i problemi, a renderli “masticabili”, a ridurli eventualmente in “fette” che siano più gestibili, pianificabili, affrontabili. Questo è sicuramente qualcosa che fa bene anche nella vita, come forma mentis. Per il resto, io non ho mai fatto la sviluppatrice, ho fatto soprattutto lavori di analisi funzionale e di verifica di dati. Per queste attività ho dato degli esami specifici che mi hanno aiutato molto. Dopodiché ho aggiunto, come strumenti, dei percorsi di project management, di negoziazione, di cultura del feedback, per imparare a relazionarsi. Questi corsi li ho fatti negli anni di lavoro. Ho fatto uno stage durante l’università alla Procter&Gamble: era solo di qualche settimana, però è stato interessante perché mi ha permesso di vedere sul campo che cosa significasse lavorare. Poi c’è la questione delle lingue: io ho avuto la fortuna di fare un anno negli Stati Uniti quando ero al liceo, il che mi ha permesso di imparare l’inglese con una profondità che non ho mai perso.

Quindi per quanto riguarda le hard skill, per riassumere: problem solving da ingegneria e poi vari corsi successivi, anche di pubblic speaking, per esempio. Sono importanti perché nel complesso ti permettono di passare dalla figura di un tecnico che conosce verticalmente una determinata materia, a una persona che ha un approccio più sistemico e sa parlare con persone di formazione diversa. Anche perché, a meno che non si sia il genio che crea soluzioni da solo in laboratorio, tutti noi abbiamo bisogno di interloquire con più persone di tipo diverso per il nostro lavoro. Ed è importante imparare a capire chi hai davanti. L’ultimo corso che ho fatto è la cultura del feedback e l’ho trovato profondamente utile e stimolante, consiste nell’abituarsi a chiedere frequentemente un riscontro alla controparte, sia esso un superiore, un pari, o un collaboratore, su cosa pensa di come sono state fatte le cose, su come si poteva fare meglio, senza isolarsi ne perdere di autonomia, ma per mantenere un approccio critico e non rischiare di essere preda di abitudini. Tutte queste io le considero hard skill, anche se alcune sono meno codificabili come tali.

E per quanto riguarda le soft skill?

Le soft skill per definizione non si possono imparare, ma si possono esercitare. C’è sicuramente l’ascolto attivo. E l’altra cosa che ho imparato a fare, e che forse non tutti gli ingegneri fanno volentieri, è concentrarmi sulle mie aree di debolezza, anche tramite degli assesment specifici di management che mi sono stati fatti nel tempo, per lavorarci sopra, cercando di uscire dalla cosiddetta comfort zone: non è facile, ma è l’unico modo di crescere e fare un po’ di carriera.

Quali sono quegli aspetti che è bene conoscere prima di affrontare il suo lavoro, perché magari bisogna esserci “portati”?

Gli aspetti di gestione delle persone sicuramente sono molto importanti. Non bisogna mai pensare che gli altri la pensino come la pensi tu. Bisogna avere la mente completamente libera: come tu reagisci a una cosa non è come reagisce il tuo collaboratore. Questo devi averlo sempre in mente per non stupirti, per non rimanerci male e per affrontare veramente con la testa libera le cose che possono succedere. Negli ultimi due anni, con la pandemia, abbiamo avuto degli esempi forti: delle 10-12 persone con cui lavoro, ognuna ha reagito in modo diverso. Nel gestire le persone, la cosa più importante credo che sia quello che si chiama l’ascolto attivo: in cui si chiede “cerca di farmi mettere nei tuoi panni, fammi veramente capire come stai e cosa vuoi”. Per motivare le persone devi capire che cosa le “accende”. E solo ascoltando capisci effettivamente come puoi coinvolgere una persona, perché ognuna ha interessi diversi: c’è chi vuole essere messo in mostra nella bacheca aziendale, chi vuole fare dei corsi ecc. Ma questi sono solo esempi, la cosa importante è capire che cosa veramente “muove” una specifica persona, che cosa le fornisce energia nel lavoro.

Questo per il team di lavoro. E verso i clienti?

Anche verso i clienti c’è l’ascolto. A volte si va dal cliente con il catalogo e si parte dicendo noi abbiamo “questo, questo e questo” e non si ascolta minimamente il cliente. Invece, bisogna lasciarlo parlare. Se non lo si fa, il rischio è quello di non mettersi più in discussione, andando lì con delle sicurezze e non accorgersi che non è quello che il cliente vuole. Questo è un errore che fanno in tanti, ed è un errore che è facile fare perché è sedersi dal cliente e fare la propria lezione. Mentre, mettersi in discussione è difficile, magari rischiando anche di scoprire di non essere il fornitore giusto e di doverlo dire. Ma in questo caso, il cliente magari non prenderà il nostro prodotto al momento, ma è quasi sicuro che tornerà da noi perché riconoscerà in noi l’onesta intellettuale e la volontà di fare veramente il bene del cliente. Questo vale in realtà anche con un collaboratore, anche se chiaramente con il cliente bisogna fare un certo tipo di attenzione, dato che di mezzo ci sono dei budget. È importante non sedersi mai nelle proprie convinzioni, anche perché altrimenti non si fa innovazione. L’innovazione non è solo l’invenzione di una cosa nuova, ma anche fare le stesse cose in modo diverso.

E che cos'è che la entusiasma di più nel suo lavoro?

Nel lavoro che facevo fino a qualche anno fa non avevo persone che lavoravano con me, invece da tre anni nell’azienda dove lavoro oggi, ho delle persone con cui lavoro e questo mi piace molto. In particolare, mi piace parlare con i giovani, provare a essere un punto di riferimento nella loro crescita professionale: mi entusiasma. Poi mi diverto sempre molto nel trovare una soluzione innovativa per un cliente insieme ai colleghi.

Quando ho scelto di lavorare per questa azienda c'erano due fattori importanti per me, che mi hanno spinto al cambiamento: il fatto che avrei avuto un mio team di lavoro e la possibilità di lavorare anche fuori dall’Italia. Quest’azienda ha un forte progetto di espansione all'estero che è già partito e questo è uno degli aspetti che sicuramente mi piace perché implica andare a conoscere il resto del mondo, vedere come lavorano. Ho già molti contatti con l'estero, ma andare a seguire progetti completamente fuori Italia mi interessa molto.

Quali sono le sfide che vede nel futuro, pensando a chi sta iniziando l'università adesso?

L'information technology è oggi a mio avviso un tipo di studi particolarmente cruciale e ad ampio spettro in quanto è, di fatto, un facilitatore applicabile in tutti i campi. Talvolta si legge che l'information technology e l’automazione si sostituiscono alle persone. No: il loro ruolo è quello di fornire supporto per le decisioni e lo fanno in maniera decisamente rilevante. L'IoT [Internet of Things], i big data ecc. non sono aspetti tecnologici nuovi, ma oggi è necessario trasformare in valore reale e concreto tutto ciò, sviluppando sì la raccolta dati e le potenzialità di calcolo e analisi, ma anche lavorando verso l’ideazione di strumenti e logiche a supporto, ovvero di una strumentazione: veri e propri cruscotti che con le loro informazioni ci permettono di ottimizzare i processi, il che vuol dire spendere meno e consumare meno energia, territorio, tempo.

L'IT ha il fascino di essere uno strumento con funzione di facilitatore in praticamente qualsiasi campo: da come raccolgo le informazioni tramite la pletora di strumenti di IoT, a come le elaboro e conservo e, infine, a come le rendo disponibili. La grande applicabilità di questi strumenti è una sfida da cogliere per il futuro: abbiamo un sacco di dati, ci vuole qualcuno capace di creare innovazione per usare in modo utile questi dati. E ciò vale per tantissimi campi, dal giornalismo alle scienze, per fare degli esempi.

Ci può fare un altro esempio concreto per capire in che modo l’IT migliora il processo decisionale?

Prendiamo una macchina che ha in pancia migliaia di radiografie, grazie all’analisi e al confronto tra tutti i dati in suo possesso, la macchina potrà suggerire al medico se quella che si vede su una data radiografia è una frattura o no. Sarà il medico a prendere la decisione finale, ma questa analisi preliminare permette di scremare più velocemente. Si dice che si lavora per eccezioni, usando il termine “eccezione” in senso positivo: una gran parte di cose va avanti da sola e io, essere umano, mi posso concentrare solo sui casi più specifici o particolari. Prendiamo il caso dell'agricoltura, se monitoro con l’IT le mie colture e in generale vedo che i parametri di irrigazione vanno bene, non agisco nello stesso modo in tutti i campi, ma opero solo su quelli in cui il sistema mi segnala, per esempio, che manca acqua.

Quante donne fanno questo mestiere?

Pochissime. Per un po' di anni ho fatto degli interventi al corso di Employability a Ingegneria e sicuramente posso dire che ora vedo più donne che studiano ingegneria rispetto al passato, se vado invece a vedere tra gli sviluppatori della mia azienda ce ne sono pochissime. Per contro ci sono donne in posizioni apicali, ma quando si va nel middle management, in cui ci sono anche io, saremo circa o meno del 10%. Ma probabilmente aumenteranno: mi aspetto che stiano arrivando. Comunque è necessario un cambiamento culturale anche negli uomini: per esempio, capita che abbiano un atteggiamento come di riguardo, che però implica una decisione da parte loro su quello che una donna con impegni familiari si sente o non si sente di fare e che quindi non tiene in considerazione che se sono qui è perché ho scelto io di esserci, cioè non devo essere in una situazione lavorativamente diversa solo in quanto donna. Poi ovviamente anche le donne devono fare un passo avanti, dobbiamo sentirci più sicure delle nostre scelte; dobbiamo sentire che possiamo affermare le nostre idee e non sentirci in difetto in alcun modo: non c'è nessuna differenza.

C’è qualcosa che ha imparato nel tempo, lavorando, e che pensa sia utile sapere già prima di iniziare l’università?

Una cosa che ho imparato è che è importante specializzarsi, però bisogna tenere la mente un po' aperta, che vuol dire anche andare a conferenze di filosofia, leggere un libro diverso ecc. Lo specialista verticale su una cosa serve, ma fino a un certo punto, perché sicuramente quella cosa cambierà: è veramente difficile che qualcosa duri a lungo nel tempo. Tenere la testa aperta vuol dire anche tenere in considerazione temi che non sembrano finalizzati direttamente al lavoro, ma che creano un approccio alla vita più sistemico, che ti permette di capire le persone, perché sono le persone la vera risorsa. Se vuoi crescere e fare carriera - intendendo con carriera la possibilità di vedere più cose, cambiare orizzonte, partecipare a progetti sempre diversi - non sarà possibile se sarai sempre e solo il genio di quella piccola cosa, anche perché proprio per questo motivo la gente ti terrà lì, a fare solo quello e quando quella cosa non va più di moda... sarai considerato “vecchio”. Quindi il mio consiglio è di tenere la testa aperta su tanti temi. Spesso a ingegneria i ragazzi disdegnano i temi economici e commerciali, saper leggere un bilancio, saper fare un avanzamento economico di un progetto e ti guardano come per dire "a me cosa mi interessa, io voglio fare il circuito...": ci vuole anche il circuito, ma non basta. Il mondo ha una sua complessità, non è fatto di camere stagne e quindi è necessario un approccio più completo e olistico ai problemi, se si vuole crescere. Poi ovviamente non è qualcosa a cui tutti ambiscono, però secondo me questo è il modo con cui si può creare un valore di lungo periodo.

Che cosa vuol dire lavorare secondo lei?

Durante l'università ho fatto un sacco di lavoretti, e durante il primo colloquio di lavoro mi chiesero "ma lei ha mai lavorato?" e io dissi "no", e poi ho citato alcune delle tante cose collaterali che avevo fatto ma che non mi sembravano pertinenti al colloquio. E loro mi dissero "anche questo è lavoro": lavoro vuol dire avere un compito, un responsabile, un obiettivo, un orario e l'essere pagati. Se uno ha fatto delle esperienze che contemplano tutti questi aspetti, ha avuto esperienza di che cosa vuol dire lavorare e questo è di grande valore al di la del tipo di lavoro svolto. L'esperienza del lavoro, qualunque essa sia, ti permette di tornare a casa con un bagaglio importante. Nel mondo anglosassone lo fanno di più, anche se oggi le cose stanno cambiando anche da noi; è proprio una forma mentis: non disdegnare l'esperienza del lavoro, capire l'etica del lavoro e che cosa vuol dire lavorare. Non è nemmeno lo stage che fai durante l’università, che ha un altro scopo; si tratta proprio di imparare un nuovo paradigma.

SCIENZA IN PRATICA

Ci può fare degli esempi di applicazione dell’IT nella logistica?

Abbiamo due applicazioni che mi piacciono molto. Una riguarda la logistica in senso generale. La sede principale dell’azienda in cui lavoro è nelle Langhe, ma vale per qualsiasi posto. Noi abbiamo delle applicazioni che monitorano tutta la logistica dei trasporti. Ci immaginiamo come può essere il traffico durante la vendemmia. Il territorio è particolare, ci sono un sacco di stradine di provincia. Abbiamo fatto una partnership con Telepass e con un partner francese che ci consente di avere alcuni dati sul monitoraggio dei mezzi. Abbiamo messo insieme un cruscotto dove è possibile ottimizzare l’analisi dei dati legati al trasporto dell'uva, degli imballaggi e di tutti i materiali che servono alle cantine, in modo da evitare che ogni cantina debba avere tutti i camion che gestiscono ogni singolo trasporto. Ci sono delle cantine che si sono messe insieme e noi abbiamo costruito un “oggetto” all'interno del quale sono analizzati più dati: le caratteristiche dalla strada, le indicazioni sul traffico, la presenza di un incidente, di una festa paesana, di lavori, il meteo, la stagionalità, i carichi (quanta uva deve essere trasportata e dove devo portarla). In questo modo un solo camion può servire più aziende, ottimizzando i trasporti, riducendo tempi e costi, e con meno impatto sull'ambiente.

E l'altro esempio?

Durante la pandemia abbiamo fatto delle esperienze di telemedicina, per la quale ora è stata fatta un'azienda separata perché stava diventando un business importante. Anche lì si trattava di raccogliere tante informazioni e condividerle livello nazionale. Abbiamo costruito un robottino che poteva andare dentro la camera del paziente, mentre il medico restava fuori, raccogliendo dati di varia natura ed inoltre evitando che il medico si dovesse cambiare continuamente per entrare e uscire dalle varie stanze. Il robottino aveva una telecamera che permetteva al medico di vedere il paziente, negli ospedali e anche a casa, senza quindi annullare il ruolo del medico, ma ottimizzando le presenze in un momento difficile e facilitando enormemente il tema cruciale della raccolta dati da far confluire all’interno di un unico collettore verso il Ministero della Sanità.

Oltre all’ottimizzazione dei trasporti, c’entra anche la gestione del rischio?

Certamente non esiste ottimizzazione dei processi senza la gestione dei rischi ad essi correlati. Abbiamo sviluppato un cruscotto di gestione del rischio in cui si possono mettere a sistema ogni genere di informazioni che possono servire: logistiche, finanziarie, geopolitiche, meteo, ecc. La complessità di questo tema è notevole, ma gli strumenti possono facilitarne l’approccio. Per esempio, prendiamo il caso di un cliente che deve far arrivare della merce dalla Cina. Potrà disporre di strumenti proattivi e di previsione con delle grafiche semplici e intuitive che lo aiuteranno a prendere le proprie decisioni, come una mappa in cui sono evidenziati i vari fattori di rischio: eventi occasionali (per esempio, il blocco del canale di Suez), la presenza di guerre, le varie questioni legate all’epidemia di COVID-19 ecc.

Ma quanti sono gli indicatori che servono per prendere delle decisioni?

Una storia interessante è quella che gli astronauti hanno sei indicatori con cui prendono tutte le loro decisioni. Gli astronauti sono abituati a maneggiare molti dati e ciononostante hanno solo sei indicatori. Noi “comuni esseri umani” se abbiamo 2-3 indicatori fatti bene, basati su tanti dati, dati storici e aggiornati continuamente, abbiamo già un bel cruscotto utile per decidere.

LE PROFESSIONI

Il team di lavoro

Quali figure professionali ci sono in un team di lavoro come il suo e quali relazioni ci sono tra le varie figure professionali?

Nel mio team lavoro con figure tecniche, che si occupano dello sviluppo software, con figure funzionali, necessarie per analizzare le soluzioni, e con project manager, per gestire i progetti.

Con le risorse umane ho lavorato molto negli ultimi anni per disegnare i profili di crescita per le persone del mio team, per dare loro il giusto sviluppo di carriera e mantenere un team con il corretto mix di ruoli e professionalità.

Poi ci sono le persone dell'amministrazione e del controllo di gestione. Ovviamente, la mia business unit ha anche degli obiettivi di margine e di valore di produzione, quindi ci sono da gestire tutti gli aspetti amministrativi ed economici. Inoltre, mi relaziono con il mio responsabile che mi giudica e monitora basandosi su macroindicatori economici. In alcune situazioni è poi necessario relazionarsi con varie figure apicali.

Settimanalmente faccio un lavoro di coordinamento nella mia business unit. Quello di cui mi occupo sono i progetti fino a un certo livello di dettaglio, e ovviamente anche io devo usare degli indicatori che mi permettano di andare dai clienti per relazionarmi con loro e portare avanti in modo efficace i progetti. Il lavoro di management nel mio caso vuol dire proprio questo: rispondere dei risultati, coordinare persone, gestire progetti. Una costante è che la capacità non è mai infinita e quindi bisogna giostrarsi tra le cose che devi fare, le persone a disposizione, i soldi che hai nel budget – e questo è un aspetto sicuramente affascinante.

Nella mappa delle persone con cui ci si interfaccia, ovviamente ci sono anche i clienti, con i quali è fondamentale saper interagire e farlo con i tempi giusti, per conoscere il mercato sempre meglio e sapere ideare soluzioni e progetti veramente a valore aggiunto e sostenibili.