I tardigradi sono animaletti microscopici che sanno distruggere e ricostruire il proprio DNA, proteggendolo da temperature e radiazioni estreme. Che cosa possiamo imparare da loro per salvaguardare il nostro genoma?
Nel 2007 un veicolo spaziale dell’Agenzia spaziale europea ha portato alcuni esemplari di animaletti microscopici, appartenenti a due specie di tardigradi, in orbita a circa 160 miglia dalla Terra. K. Ingemar Jönsson, dell’Università svedese Kristianstad, quando ha analizzato con alcuni colleghi i campioni al rientro, li ha osservati mentre si reidratavano e tornavano alla vita attiva: era come se non fossero stati esposti sia al vuoto, sia a radiazioni ultraviolette mille volte più intense di quelle terrestri e letali per la maggioranza delle altre specie.
Sulla Terra i tardigradi abitano tutti gli ambienti, anche i più inospitali. La loro casa, per così dire, è prevalentemente il muschio, sul quale resistono a “cotture” a più di 100 °C e a congelamenti prossimi allo zero assoluto. Senz’acqua e senza cibo, il loro metabolismo si arresta, al punto che c’è chi stenta a considerarli viventi e chi li considera invece campioni di endurance. Questione di punti di vista.
Un tardigrado fotografato al microscopio elettronico a scansione (Goldstein Lab, UNC Chapel Hill)
Come fanno a resistere? Innanzitutto si liberano di tutta l’acqua che riempie il loro corpo, quindi restano immobili, con le otto zampette ripiegate. Mentre si rinsecchiscono, i 135 milioni di lettere del loro genoma (letto per intero all’Università della North Carolina a Chapel Hill nel 2015) vanno in pezzi. Ma la caratteristica più straordinaria è che quei pezzi sono ricuciti, per così dire, nell’ordine corretto, non appena i tardigradi si reidratano, al migliorare delle condizioni.
Davvero va in pezzi la molecoladell’ereditarietà? L’istinto ci dice che dovrebbe essere pressoché indistruttibile, dato che conserva la nostra ricetta di fabbrica per generazioni. Eppure non è così. Negli anni Settanta Tomas Lindahl, un ricercatore svedese trapiantato prima negli Stati Uniti e poi a Londra, ha sfidato il senso comune, dimostrando che il DNA di una cellula di mammifero può subire fino a 20.000 modifiche al giorno, e di cellule ne abbiamo 15 milioni di milioni. La conta vale per il DNA a doppia elica di una singola cellula: quello a singola elica è ancora più vulnerabile.
La copiatura del DNA introduce casualmente un gran numero di errori nei milioni di cellule che si riproducono quotidianamente. A questi svarioni si aggiungono quelli causati dalle radiazioni ultraviolette del sole, dal fumo, da alcuni inquinanti, dai radicali liberi dell’ossigeno, solo per citare alcuni degli agenti a cui è esposto il genoma. Persino l’acqua, ben poco reattiva rispetto alle altre sostanze, fa un mucchio di danni al DNA a causa della sua altissima concentrazione. Come dire: singolarmente una molecola d’acqua fa ben poco, ma ce ne sono talmente tante che statisticamente contribuiscono in modo significativo al problema.
Il collasso del DNA però non si verifica. Come mai? Devono esistere ottimi meccanici molecolari capaci di riparare (quasi) tutti quei danni, ricostruendo ogni volta l’acido nucleico. Altrimenti nessun organismo potrebbe sopravvivere all’inerente fragilità del DNA, una molecola che si deteriora spontaneamente in pochissimo tempo. Così ha ragionato Lindahl, quando si è messo a dare la caccia agli enzimi riparatori in grado di rimuovere e sostituire le parti danneggiate del DNA. Si tratta di funzioni essenziali della cellula sana, specializzate per tipo di danno. Efficienti al massimo durante la giovinezza, diminuiscono (purtroppo) con l’invecchiamento e mancano del tutto in alcuni tipi di tumori.
Lindahl ha meritato il premio Nobel, nel 2015, insieme ad Aziz Sancar e Paul Modrich, per la scoperta della fragilità intrinseca del DNA e dei meccanismi di correzione. Più precisamente, Lindahl (oggi professore emerito al Francis Crick Institute) ha intuito problema e soluzione, e trovato gli enzimi che correggono rotture causate dall’acqua e dai radicali liberi dell’ossigeno. Sancar, all’Università della North Carolina a Chapel Hill, ha scoperto come le cellule riparano i danni causati dalle radiazioni ultraviolette: tramite un sistema di riparazione che manca in persone che sviluppano con alta frequenza tumori della pelle se si espongono al sole. Modrich invece, sempre in North Carolina, ma alla Duke University-Howard Hughes Medical Institute, ha dimostrato come si riparano gli errori che avvengono durante la duplicazione del DNA. Grazie a questo meccanismo i refusi, per così dire, si riducono di circa mille volte, tranne in una variante ereditaria del tumore del colon, provocata da difetti in questo sistema.
Da sinistra a destra, Tomas Lindahl, Paul Modrich e Aziz Sancar, premi Nobel per la chimica 2015 (Immagine: Nobel Foundation)
Torniamo al tenace tardigrado: non sarebbe male prendere in prestito la sua resistenza alle radiazioni. Potremmo scansare i raggi cosmici, viaggiare a distanze maggiori nello spazio, evitare gli effetti collaterali della radioterapia e proteggere i lavoratori esposti a dosi massicce di radiazioni. Da quando questi tre moschettieri della biologia hanno concepito l’idea che il DNA si può rompere (tanto) e riparare (tanto), in tanti si sono messi a cercare altre ottime molecole protettrici e riparatrici, oltre a quelle già note. Ecco perché un animaletto come il tardigrado è così interessante.
La prima molecola che protegge il DNA dei tardigradi è stata scoperta da poco. Si chiama Dsup ed è una proteina, isolata da Takekazu Kunieda all’Università di Tokyo, che protegge il DNA dei tardigradi dal danno da radiazioni. La sigla sta per Damage suppressor e Dsup sembra avvolgersi fisicamente al DNA, senza però interrompere le sue normali funzioni. Verosimilmente Dsup agisce come uno schermo in grado di bloccare l’azione delle radiazioni sul DNA.
L’effetto protettivo si è osservato in laboratorio, in cellule isolate di rene umano in cui i ricercatori giapponesi avevano introdotto il gene Dsup. In tali cellule, esposte a radiazioni, l’effetto protettivo è stato del 40-50% superiore rispetto a cellule normali prive di Dsup. Ma la protezione si è arrestata dopo che il gene è stato bloccato sperimentalmente tramite una molecola di Rna costruita appositamente.
In questo video ci si fa un’idea di come la proteina Dsup protegge il DNA dei tardigradi.
Mutuare Dsup dai tardigradi è per ora fantascienza, naturalmente. Dovremmo diventare degli OGM, con Dsup inserito in ogni nostra cellula. E bisognerebbe prima studiare i possibili effetti collaterali, negli animali e negli esseri umani. Saperne di più è comunque molto utile perché può ispirare la concezione di farmaci o terapie che proteggano il nostro DNA almeno un po’ come Dsup fa nelle cellule dei tardigradi.
Mentre mi documentavo sui tardigradi, mi ha incuriosito il nome, Ramazzottius, di uno dei generi utilizzati negli studi. Giuseppe, non Eros, si chiamava l’ingegnere, nato nel 1898, che per lavoro si occupava di comunicazioni a lunga distanza e per passione si divideva tra la pipa e i tardigradi. Ne ha scritto Patrizia Martellini su Pikaia: «Girava con un piccolo microscopio che lo ha accompagnato anche nei tempi di guerra. Nel 1946 ha scritto con Dino Buzzati, il famoso romanziere e pittore, “Il libro delle pipe”. Ramazzotti si può considerare uno dei principali studiosi di tardigradi italiani e mondiali, ha scritto la prima monografia in italiano sui tardigradi: “Il Philum Tardigrada”, la terza edizione, pubblicata nel 1984 con Walter Maucci, è utilizzata tuttora ed è stata interamente tradotta in inglese (più di mille pagine) per la comunità internazionale». A Giuseppe Ramazzotti è dunque dedicato un genere assai popoloso di specie di tardigradi scoperte dopo la sua morte.
Giuseppe Ramazzotti, detto Eppe, nel suo studio (foto Valter Meloni, viene da qui)